Nel tunnel di metà settembre (10)


di Donato Salzarulo

LA STORIA, MIO PADRE E IL SUGO DI UNA VITA

Martedì. Primo giorno di ottobre. Il mio letto è il più vicino alla vetrata e il mio primo sguardo è quasi sempre verso il cielo. Quello del mio silenzioso compagno è il più vicino alla porta. Il tempo sta mutando. Nubi e cielo grigio. La temperatura sta calando.
La mattinata è cominciata al modo solito: prelievo sangue; misurazione pressione, saturazione e temperatura corporea (volgarmente febbre, che non ho più da giorni); colazione con tè e frollini; pulizia corporea mattutina; passeggiata in corridoio fino al soggiorno, incontro persone con cui non parlo, al massimo saluto chi è stato già nella mia camera: l’infermiera alta alta o l’infermiere. Nel soggiorno lo sguardo oltre le vetrate conferma il cielo grigio. Cambia leggermente il paesaggio urbano. Ma nulla cattura la mia attenzione. Torno indietro. Occhiata distratta e veloce alle nature morte alle pareti. Dopo tre giri avanti e indietro, ritorno in camera.
È l’ora della lettura dei giornali. Sfoglio i quotidiani lasciati da mia moglie ieri sera sul comodino. Il Manifesto non c’è e comincio col Corriere della sera.
«Nuovi raid, Israele colpisce lo Yemen»
«Un’euforia da Guerra dei Sei giorni sembra aver conquistato tanti israeliani…» L’editoriale di Davide Frattini comincia così. Poi in un passaggio sottolinea:
«Bibi, com’è soprannominato [Netanyahu], non ha mai accettato in pubblico la responsabilità per i massacri del 7 ottobre perpetrati dai terroristi palestinesi nel sud di Israele. Non ha invece esitato a prendersi il merito dei raid in sequenza che hanno decapitato i vertici dell’organizzazione libanese».
Perché avrebbe dovuto prendersi questa responsabilità? Forse si aspettava qualcosa di simile da parte di Hamas e non ha fatto nulla per evitarlo, perché gli faceva comodo e corrisponde in parte ai suoi interessi…
Quando ti sei formato un giudizio su una guerra in corso come quella tra Israele e la Palestina, la lettura serve soltanto a tenere aggiornata la tua trama concettuale. Se poi hai compreso l’orientamento del quotidiano, non sempre stai a lì a leggere tutte le pagine da 2 a 9 che il Corriere dedica all’euforia da Guerra dei Sei giorni di Israele.
Lo stesso vale per l’articolo di spalla che Ernesto Galli della Loggia dedica al «cambiamento nelle scuole: indispensabile (quanto lontano)».
L’unico vero cambiamento che potrebbe avere senso nella scuola è quello che parte dal basso, cioè da chi ci lavora dentro. Ma siccome, come scrive l’illustre editorialista, «Gli insegnanti in Italia sono virtualmente muti» e chi parla sono prevalentemente professionisti come lui, che scrivono per diffondere una certa idea di scuola, cambiamenti veri e partecipati non ce ne saranno.
Ci saranno i cambiamenti dall’alto che Galli della Loggia proverà a fare d’accordo coi ministri del Governo di destra-destra Meloni. Lo storico, infatti, l’anno scorso ha scritto un pamphlet con la pedagogista Loredana Perla. Titolo: «Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo
Il 6 dicembre 2023 è stato presentato a Roma insieme a Giuseppe Valditara, Ministro dell’Istruzione e del merito. Intanto la professoressa Perla è stata nominata dal Ministro presidente della Commissione che ha l’intenzione di cambiare le “Indicazioni nazionali per la scuola dell’obbligo” e Galli della Loggia è stato nominato dalla Ministra Anna Maria Bernini presidente della Commissione che ha il compito di prospettare «interventi di revisione dell’ordinamento della formazione superiore.»
Conclusione: gli insegnanti nella morsa dei ministri del governo di destra-destra e dei loro intellettuali fiancheggiatori continueranno a restare virtualmente muti e si dovranno difendere dalla pioggia di provvedimenti che pioveranno sulla loro testa. Vabbé. Chiunque, tuttavia, desideri informarsi meglio su questa vicenda, non deve fare altro che andare sul sito “La letteratura e noi” e cercare gli articoli di Daniele Lo Vetere «La scuola ai tempi del MIM. Cultura di destra e crisi della globalizzazione liberal.»
Restando nella prima pagina del Corriere, do un’occhiata alla rubrica di Alessandro D’Avenia. Si chiama “Ultimo banco” ed esce ogni lunedì. Lo stile è quello della riflessione. I «tempi nuovi» del titolo non sono quelli che stiamo vivendo a livello di Paese o di Mondo. È il tempo verbale del “passato imminente”.
Dopo aver indicato le particolarità dell’imperfetto e del passato remoto, definisce il “passato imminente” quello «dove la vita non muore mai. È il passato che non passa, un sugo che non scade né si esaurisce. Omero, Dante, Galilei, Beethoven, Curie, Montessori, Van Gogh, Madre Teresa…sono il sugo dell’umanità, passato imminente – dal latino in-manere “rimanere nel” (presente) – perché eminente – da e-manere, “rimanere fuori dal” (presente) – verità che resta, non invecchia e di cui non si può fare a meno. […] Insomma questo passato imminente è il sugo della vita: che cosa resta, per sempre, di una vita “passata”?»
Ovviamente il “passato imminente” non è uguale per tutti. «Immersi nella spesso buia e fredda notte della ricerca di senso», non è detto che il fuoco capace di alimentare la nostra vita lo si possa trovare negli stessi luoghi, nelle stesse persone, nelle stesse idealità.
Un rapporto col passato è necessario, ma cosa scegliere del passato dell’umanità è, in qualche modo, legato ai compiti individuali e sociali del presente. Se voglio lottare contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, potrei rivolgermi a Gesù che sostiene l’eguaglianza assoluta fra gli esseri umani perché tutti siamo fatti “a immagine di Dio”, ma forse avrei bisogno anche di aprire le pagine del «Capitale» di Marx dove questo sfruttamento viene analizzato con rigore. Ricercare un senso alla propria vita e domandarsi cosa resta per sempre di una vita “passata” rappresentano attività ineludibili e quanto mai opportune. Come riconoscere questo “passato imminente” che dovremmo cercare in noi?
D’Avenia, a questo punto, riporta una pagina molto interessante di Cormack McCarthy tratta da «Non è un paese per vecchi.» Lo scrittore statunitense racconta di aver sognato due volte il padre morto:
«Il primo [sogno] non me lo ricordo bene, lo incontravo in città da qualche parte e mi regalava dei soldi e mi pare che li perdevo.
Ma nel secondo sogno era come se fossimo tornati tutti e due indietro nel tempo, ero a cavallo e attraversavo le montagne di notte. Attraversavo un passo in mezzo alle montagne. Faceva freddo e a terra c’era la neve, lui mi superava col suo cavallo e andava avanti. Senza dire una parola. Continuava a cavalcare e quando mi passava davanti mi accorgevo che aveva in mano una fiaccola. E nel sogno sapevo che stava andando avanti per accendere un fuoco da qualche parte in mezzo a tutto quel buio e a quel freddo, e che quando ci sarei arrivato l’avrei trovato ad aspettarmi. E poi mi sono svegliato.»
Un racconto così si presta a molte interpretazioni. D’Avenia tira l’acqua al suo mulino.
Nel primo sogno c’è un presente “sfocato”, in cui si ricevono dei soldi che si consumano e forse si perdono. Nel secondo, il padre ha in mano una fiaccola e accende un fuoco per il figlio. Chi ha avuto la fiaccola per me? Chi mi ha acceso il fuoco? Chi mi ha reso chiaro e confortevole il passaggio di notte in mezzo alle montagne? Dovrei scrivere un libro per rispondere a queste domande. Un fatto è certo. Non è stato una sola persona. I padri sono stati diversi. E spesso la fiaccola la portavano anche fratelli e figli.
Abbandono la prima pagina e passo a quella destinata alla “cultura”, come se gli argomenti affrontati sinora non fossero anche culturali. Comunque, a pagina 32 e 33, leggo una ghiottoneria: un’anticipazione del libro «La metà del mio tempo» di Javier Marías uscito oggi da Einaudi.
Cristina Taglietti scrive una breve scheda del libro. Si tratta di testi e articoli dello scrittore «legati da un carattere personale. Sono ricordi, evocazioni, riflessioni, ritratti di persone a lui vicine, a partire dal padre Julián, filosofo antifranchista, e dalla madre Dolores, sorella del cineasta Jesús Franco. […] Nella prefazione di questo libro dallo stile semplice, essenziale, molto diverso dalle spirali sintattiche che, nei romanzi, avviluppano dolcemente il lettore, Marías assicura che tempi e le persone che oggettivamente sono scomparsi, dentro di lui non lo sono affatto. E non si tratta soltanto di ciò che è avvenuto perché, scrive: “a costituirci è anche la parte non vissuta della vita: tutto quello che non si è fatto, quello che si è rinunciato a fare, le opportunità su cui abbiamo esitato e che poi abbiamo scartato, quello che abbiamo sognato, sperato, accantonato, quello che non abbiamo studiato anche se ce lo eravamo proposto, il lavoro che non abbiamo accettato, quello che non ci è stato dato benché lo desiderassimo”.»
Il titolo del brano anticipato si intitola «Solo profumo». Io sono stato particolarmente colpito dalla parte finale. Lo scrittore sta parlando di una frase del «Coriolano» di Shakespeare:
«La frase è quella del titolo che figura sopra: “I shall be lov’d when I am lack’d”, e si trova nella prima scena del quarto atto. La si potrebbe tradurre anche in altri modi, come ogni parola, per semplice che sia: ”Mi si amerà quando verrò a mancare”, “Mi rimpiangeranno quando mi avranno perduto” o, più letterale, ma un po’ forzato: “Sarò amato quando di me si manchi”. (…) Tutto questo è comune, eppure sembra strano. A volte non so se sono cambiati i tempi o se sono io che con gli anni sono cambiato e non mi lascio più ingannare.
Il fatto è che questo tipo di fantasia in genere non va molto lontano, lontano nel tempo, intendo. Chi immagina la propria morte si ferma poco oltre il momento della fine: immagina la costernazione iniziale, i lamenti, i dubbi, la sepoltura. Ma dimentica – come forse è normale – che la vita degli altri continua, magari per decenni. Dimentica che i giorni passano e tutto sfuma; che chi oggi non chiude occhio finirà per dormire; chi è ossessionato dai ricordi li sostituirà con un presente che gli darà sollievo, lo distrarrà o lo interesserà; chi è tormentato dai rimorsi arriverà a giustificarsi e a mettersi la coscienza in pace. E il peggio è che il morto rimane alla mercé dei vivi, che di lui o di lei racconteranno quello che vorranno senza possibilità di smentita; gli attribuiranno delle bassezze e non ci sarà nessuna replica; coloro che più lo hanno infamato si attribuiranno dei meriti raccontando tutto quello che hanno fatto per lui; coloro che più lo odiavano diranno che sono stati suoi amici, e usurperanno e infangheranno il suo nome; traviseranno i fatti e ruberanno le sue frasi e i suoi ricordi; e forse quelli che più lo hanno spinto a lasciare la scena canteranno le sue lodi senza che nessuno possa svergognarli né accusarli di impostura. “Sarò amato quando mancherò”. Forse, ma è sempre meglio esserci, o piuttosto essere gli ultimi ad andarsene e a poter raccontare come sono andate le cose. Almeno, datemi retta, nel campo delle fantasie.»
Sto leggendo queste frasi in ospedale, in un luogo in cui pensare alla morte è quasi obbligatorio. Veramente io sto pensando alla vita. Ho già detto di avere in testa il monito di Goethe “Ricordati di vivere”. Ma ogni tanto Thanatos bussa alla porta: “Ricordati anche che devi morire”. Spesso guardo il mio compagno di stanza. Ridotto pelle ed ossa. Quando va bene tartaglia in una lingua per me incomprensibile. Lo comprende soltanto la moglie e forse un po’ la figlia. Spesso mugola. Mi vengono in mente i versi di Metastasio: «Non è ver che sia la morte / il peggior di tutti i mali / è un sollievo dei mortali / che son stanchi di soffrir». Ricordo mio padre. Il telefono squillò una domenica pomeriggio di metà febbraio del 1991. Era mia madre: «Tuccio, corri!… Tuo padre non parla più.» Corsi. Mio padre era in piedi e gesticolava per il corridoio. Non aveva nessuna voglia di farsi portare al Pronto soccorso. Non fu facile convincerlo. Alla fine venimmo qua, al San Raffaele. È l’ospedale più vicino a Cologno. Mentre aspettavamo, volle andare in bagno. Lo accompagnai. Con la coda dell’occhio notai che il getto dell’urina non veniva indirizzato correttamente. Andava più per terra che nel water. La situazione era grave. Fu ricoverato. Ictus cerebri. La sera dopo mio padre era un altro. Una vita non è un fiume che segue sempre il suo corso, finché non mescola le proprie acque con un altro fiume o si getta nel mare. La vita è soggetta a quella che Catherine Malabou chiama «plasticità distruttrice». Mio padre fu distrutto in quattro mesi. Il 13 giugno, il giorno di Sant’Antonio di Padova, patrono di Bisaccia, il paese in cui era nato, verso mezzogiorno esalò l’ultimo respiro nella sua camera da letto. Prima che mia madre tornasse a dormire in quella camera ci volle qualche mese. L’abbiamo amato dopo la morte? Certo. Anche per me, come per Marías, mio padre e molte altre persone care sono scomparse, ma non dentro di me. Non ho avuto la fortuna di sognare mio padre come Cormac McCarthy, ma non ho dubbi che portasse anche lui una fiaccola con cui accendere il fuoco in situazioni aspre e difficili, fredde e buie. Semianalfabeta ha nutrito in me una grande voglia di sapere e un desiderio inesauribile di lotta contro i padroni. Quelli che aveva conosciuto lui avevano mucche da accudire; quelli che ho imparato a conoscere io hanno attività quotate in borsa e offrono, apparentemente in modo gratuito, servizi sociali di comunicazione, consultazione, informazione. Si chiamano “dati” le merci del nostro tempo. Capitalismo della sorveglianza o capitalismo delle piattaforme. Occorre imparare a chiamare le cose con il loro nome. Quella di mio padre è una vita “passata”. Qual è stato il suo sugo? Quello che “non scade né si esaurisce”, quella “verità che resta, non invecchia e di cui non si può fare a meno”. La domanda di D’Avenia è interessante. Ma perché ridurre la vita “passata” di una persona a un sugo? Perché non paragonarla alla vigna che lavorava e amava mio padre? Perché non paragonarla ad una selva, ad un bosco? Perché dimenticare che Omero si trascina dietro una “questione omerica” e che le interpretazioni omeriche sono più simili a una selva che a un sugo. Dico Omero, ma potrei dire Dante, Petrarca, Galilei…Per me esiste una “questione Domenico” (è il nome di mio padre). E la sua vita continua ad incombere su di me come un “passato imminente”.
«Non avevo un padre ricco di parole / scendeva a picco sulle cose da signore». Sicuramente più ricco di parole era il padre di Fortini.
Questa la “Lettera” accorata che il poeta gli scrisse:

Padre, il mondo ti ha vinto giorno per giorno
Come vincerà me, che ti somiglio.

Padre di magre risa, padre di cuore bruciato,
Padre, il più triste dei miei fratelli, padre,

Il tuo figliuolo ancora trema del tuo tremore
Come quel giorno d’infanzia di pioggia e paura

Pallido tra le urla buie del rabbino contorto
Perdevi di mano le zolle sulla cassa di tuo padre.

Ma quello che tu non dici devo io dirlo per te
Al trono della luce che consuma i miei giorni.

Per questo è partito tuo figlio; e ora insieme ai compagni
Cerca le strade bianche di Galilea.



3 pensieri su “Nel tunnel di metà settembre (10)

  1. sempre la narrazione di Donato Salzaruolo suggerisce pensieri, essa spostandosi sulla propria esperienza in ospedale con annesse intense emozioni legate alla malattia e alle terapie ma anche con ossevazioni sulla realtà del luogo di degenza, sulle pesone operanti e degenti, con riflessioni tratte dalla lettura di quotidiani….Tutto cio’ mi ha richiamato alla mente alcune mie esperienze in ospedale, sin dalla più giovane età e mi sembra di rilevare analogie: era un luogo di sofferenza e anche di paura ma nello stesso tempo diventava quasi uno spazio di ritiro spirituale, dove lasci il tuo corpo nelle mani di chi lo può curare, tu sei provvisoriamente sospesa di responsabilità, ti affidi…E così una stanza d’ospedale può diventare il luogo dove rivedi la tua vita, le scelte, le persone…Più adulta anche il tuo posto nel mondo. Se ti va bene, quando dimessa, sei come una macchina uscita dalla revisione…con nuove terapie èer altro giro di corsa in mezzo agli altri…Anche il discoso sul padre, o meglio i padri, mi ha offerto spunti di riflessione, ma quello è un enigma in cui perdersi…Grazie

  2. SEGNALAZIONE

    Ho letto oggi sulla rivista on line ALTRAPAROLA un estratto di Alessandro Poggiali dal libro di recente pubblicazione: Conoscere, sapere, cura di sé (Altralinea Edizioni, Firenze 2024)
    (https://www.altraparolarivista.it/2025/03/12/alessandro-poggiali-la-scrittura-del-dolore/), che mi pare possa illuminare – problematicamente , certo – il senso delle puntate di “Nel tunnel di metà settembre” che Donato Salzarulo va scrivendo.

    Stralcio mio da ALTRAPAROLA:

    vorrei fare alcune considerazioni intorno al fatto che per alcuni, che in vario modo li subiscono e patiscono, si considera opportuno mettere in scrittura dolori, sofferenze e lutti. Mi pare che la pratica si proponga come una sorta di abreazione che si faccia un più fidabile testo scritto, per l’autorevolezza che ha in sé la scrittura.

    La sofferenza è chiamata anche qui a una presenza più certa, consistente, che ci si prospetta di ottenere oggettivandola in scrittura, chiamata a divenire essa stessa corpo sofferente, o a narrare sofferenza. Di nuovo qualcosa che cerca di uscire dalla vaghezza insostenibile delle parole, dando loro il peso maggiore della scrittura e per suo tramite dotarle di un corpo materico, sintattico, fermo.

    Di più, a questo in-scriversi del dolore e delle sofferenze, si affida anche la possibilità di un’apertura che muova il possibile rinnovarsi di un orizzonte vitale. Si tratta di una suggestione che può essere accattivante, ma che in misura maggiore mi suscita perplessità e domande. Non dico lo scrivere, che può rimanere insaturo, contingente, in frammenti, quanto, piuttosto, ciò che si fa scrittura, e per essa la forma della sua necessaria strutturazione. Cerco anche di sottrarmi il più possibile alla diffusa qualunquistica e detestabile logica del: “purché funzioni va bene”[1].

    Vengo subito alla prima dirimente domanda già accennata sopra: è la scrittura che deve divenire corpo sofferente, essendo essa stessa sofferenza, nelle parole che adopra e nella loro sintassi, o la scrittura deve proporsi di narrare la sofferenza del soggetto che la prova e ne fa un testo? Sono due prospettive diverse, anche se i confini sono labili, e penso sia piuttosto la seconda che chiama a essere interrogata, in ragione del fatto che se la prima chiede un bel po’ di talento (per restare in tempi recenti, viene in mente la raccolta di poesie Chiodi di A. Kristof, o L’anno del pensiero magico di J. Didion) e sapienza poetica e narrativa per poter esser praticata, la seconda, proprio nel suo mettersi in movimento, sollecita l’io del soggetto a organizzare i termini della struttura narrativa, con l’obbiettivo, implicito o esplicito che sia, di una riparazione del senso di sé.

    Immagino la scena all’inizio del suo provarsi. Immagino quella particolare congiuntura dove con facilità accade che l’invito alla scrittura, provenendo dalle suggestioni di una cultura scritturale auto-biografica e auto-terapeutica molto diffusa, assuma la forma di un esercizio opportuno. Da lì, da questo inizio, che ha una forte impronta performativa, non riesco a non pensare che presto s’imbocchi una traiettoria che finisca nella seducente costruzione di un’espressività finalizzata, che in più si propone anche come una sorta di procedura data per il riavvio della vita.

    Molto dell’uso ordinario del linguaggio è protocollato in formule già pronte e disponibili. C’è solo da augurarsi che il dolore apra delle zone di espressività diverse. Come è anche possibile e augurabile che chi soffre si apra a un’alterità, proprio dal momento che la forza naturale del vivere pare mantenere la sua incerta, e persino ottusa traiettoria, in una qualche stabilità, anche se spesso solo nell’inconsapevolezza di chi soffre. Ma è dubitabile che ciò possa accadere in relazione a un fare che sia un disporre mezzi adeguati a un fine. Intendo che quella più che misteriosa alterità, di cui si può dire che sia cercata senza intenzione e di cui nessuno sa niente, non possa che essere lasciata alle sue incognite possibilità – se si vuole, a una fede, ovvero a un affidarsi, anche senza che sia fede in qualcosa.

    L’apertura, in quanto evento possibile, ha ritmi, cadenze, fisionomie ignote. La narrazione invece impone regole e ritmi propri, è, diviene una procedura seduttivamente esigente, che con facilità assume l’aria di un “come se”; quando non le accada di esser dettata dal proprio interlocutore ideale, o dal suggeritore più corrivo e compiacente. La scrittura dà sempre la possibilità di mostrare una traiettoria sequenzialmente positiva. Evoca e offre ordine di cause ed effetti.

    Il dolore, mentre si scrive, si riscrive nell’alveo accogliente della scrittura. Uno svolgimento che di fatto è governato da un io che ne dispone. Una forma di sapere, che come tale si chiude su se stessa. Proprio perché si può essere invitati alla prova anche da figure che hanno autorità, presenti o meno, l’invito diviene facilmente invito a una prestazione. La prestazione distrae, e la distrazione viene plausibilmente cercata da chi soffre. La scrittura con facilità diviene essa stessa l’obbiettivo.

    Possiamo dire che arrivi a diventare un’esperienza straniante? Forse. Ma non so quanto sia da augurarselo. Nelle esperienze stranianti quel che si offre non sta solo nell’accedere a una diversità di percezione, ma nella possibilità della comparsa di una tale alterità e in un tale scarto ed eccedenza di percezione, che l’esito può essere uno shock insopportabile. Può accadere tutt’altro, possiamo allontanarci dalla partenza in derive molteplici. Distrarsi davvero, passare ad altro, anche scivolare in un atto di quasi rimozione di ciò da cui si son prese le mosse, finendo poi negli assetti protettivi della lingua disponibile e a riprodurre la continuità narcisistica. Forse obbiettivo apprezzabile, visto che il dolore la danneggia. Ma di questa perdita narcisistica io voglio invece vedere le sue possibili virtù, piuttosto che la proposizione del mero restauro dell’assetto perduto. Va da sé che non ci debbano essere ingiunzioni di nessun tipo, poiché si tratta sempre di stare in territori molto delicati e difficili da maneggiare.

    Certo, è da augurare che si possa recuperare un qualche senso del vivere. Ma pensare di trarlo da una pratica di scrittura sull’oggetto, a meno che essa non goda del privilegio di un consistente e sofferto talento, non corre il rischio che si muova più che altro la scorrevolezza dell’edificazione banale? Peraltro non evoco talento per perorare letteratura, ma solo per provare a salvare una qualche capacità delle parole di disporsi in apertura. Dico questo perché so che in quelle circostanze, a stento si riesce a dire qualcosa in lunghe, frammentate, difficili e soprattutto silenziose sequenze di psicoterapia, dove peraltro, ed è cosa della massima importanza, il giro comunicativo è particolarmente ampio e allentato, poco stringente intorno alla cosa.

    Questa esperienza della ferita, incerta, intima, e scomposta, evento assoluto e ogni volta unico, nell’organizzarsi in scrittura che diviene la via, non rischia di farsi maniera mondana, modello edificante? O che, per la stessa scrittura, il dolore non si perda nell’astrazione? O non finisca nel cono d’ombra dell’impostura che l’autobiografismo imperante si porta dietro?

    Peraltro da tempo la lingua che usiamo patisce un deperimento che pare inesorabile. La pochezza, la genericità desolante delle parole nel dire emozioni e sentimenti di ogni tipo è ascoltabile ovunque.

    Del possibile evento di un’alterità che sia apertura, le ferite sono il sacco amniotico e la levatrice; ma ciò che può nascere avviene secondo tempi e modi non posseduti da alcuno, si tratta di una gestazione lunga e sconosciuta, dove il silenzio ha un’importanza decisiva.

    Solo l’amore (agàpe più che eros ) e l’amicizia, che siano riconoscibili e accoglibili dispongono all’apertura. E nondimeno, l’esercizio della medesima sollecitudine verso se stessi: ovvero il necessario indebolirsi del dominio appropriativo dell’Io sull’intero Sé. Va lasciato che le ferite esproprino dal possesso di sé. La loro generatività è nel registro del negativo, esse disorientano, scompongono la modulazione prevalente dell’ordine narcisistico. L’invito alla scrittura espone all’opposto. Quel che può venire è per ciascuno eminentemente idiomatico, com’è il senso che viene dato a tutte le ferite; ma l’idioma non è maneggiabile per il soggetto stesso, che ne è semmai governato, e non di meno, sorretto, se gli vien dato il permesso.

    Del resto, quanto il dire le esperienze dolorose sia difficile e precario fino a far patire fatica e sgomento, lo sa bene chiunque si trovi solo a provare a dirle. Lo smarrimento per la vacuità, la lontananza delle parole disponibili, l’estraneità che risuona nel pronunciarle, la loro inattendibilità, il vuoto di senso che veicolano, non solo per l’alterità massimamente sconosciuta del continuare a vivere, ma per l’alterità del dolore, irraggiungibile dalle parole. Continuamente esse vorrebbero evocarlo in chi prova a dirle e in chi le ascolta. Piuttosto accade che chi dice spesso adopri le parole facilmente in uso per proteggere il nucleo indicibile della propria sofferenza dalla pressante estraneità di chi le ascolta e di se stesso che le sta dicendo. Viene da pensare che spesso, piuttosto che provare a dire la propria intimità dolorosa, s’imponga di tacerla. Non sto citando Wittgenstein. Le mie notazioni vogliono solo essere problematiche. Peraltro non penso si debba e si possa solo tacere. Il tacere è una mossa contingente, nell’attesa indefinibile di poter dire. È che il dire è indispensabile quanto fallace e deludente. Lo scrivere spesso è illusorio e artificioso.

  3. Caro Ennio, ti ringrazio per la segnalazione. È la terza volta che cerco di leggere il saggio di Alessandro Poggiali. È sicuramente un saggio importante, ma non riesco ad arrivare alla fine. Faccio fatica a capirlo, quasi certamente per limiti miei.
    Comunque, da quel poco che ho capito, Poggiali si muove all’interno di un orizzonte che definirei latamente “arte-terapeutico”. In sostanza, vuole capire quanto la scrittura possa curare la sofferenza psichica. Infatti scrive: «mi tengo nell’alveo ormai molto ampio delle risorse di cura, e vorrei fare alcune considerazioni intorno al fatto che per alcuni, che in vario modo li subiscono e patiscono, si considera opportuno mettere in scrittura dolori, sofferenze e lutti. Mi pare che la pratica si proponga come una sorta di abreazione che si faccia un più fidabile testo scritto, per l’autorevolezza che ha in sé la scrittura.»
    La scrittura, quindi, come “abreazione”, ossia come “scarica emozionale”, attraverso la quale ci si libera di traumi antichi o recenti.
    Non escludo che vi possa essere in questo lungo racconto una componente terapeutica, ossia di cura (più o meno inconscia) di me. Vorrei dire, però, che l’idea di raccontare la mia esperienza ospedaliera non mi è venuta dalla voglia di rappresentare il “tunnel” in cui sono finito a metà settembre. Anche questo. Ma l’aspetto prevalente ritengo che sia legato al desiderio di voler raccontare un’esperienza positiva,fortunata, ossia il mio incontro con una bravissima dottoressa, che mi ha “salvato”. Durante l’esperienza ospedaliera ho vissuto quei momenti indicati nel suo commento da Annamaria Locatelli, che ringrazio. «E così una stanza d’ospedale può diventare il luogo dove rivedi la tua vita, le scelte, le persone…» Esattamente così.
    Ripeto, non ritengo la mia scrittura una scarica emozionale. È un tentativo di rappresentazione artistica, una “prova di scrittura”, una pista di avvicinamento ad un romanzo della mia vita (e non solo) che vagheggio da un ventennio. Ancora grazie a tutti e due.

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