Su “Nei dintorni di Franco Fortini” (1)

di Eros Barone

   Il saggio di Ennio Abate, che affianca a questo titolo ‘in minore’ il sottotitolo esplicativo, Letture e interventi (1978-2024), [1] nasce da una motivazione autentica e radicale. Scrive infatti l’autore: «A chi mi chiedesse perché, tra tanti scrittori importanti, proprio Fortini abbia ricevuto stima e attenzione così prolungate nel tempo da parte mia, rispondo così. Perché più e meglio di altri ha difeso una idea di poesia, di letteratura, di politica, di visione critica e comunista del mondo che ho fatto mia. E l’ha difesa sia nel biennio politicamente esaltante del ’68-’69 sia dopo, durante la crisi degli anni Settanta (compromesso storico, uccisione di Moro, scioglimento del Pci) e fino alla sua morte avvenuta agli inizi delle attuali, devastanti guerre “democratiche” o “permanenti”». E in effetti la biografia di Fortini che risulta da questa assidua frequentazione dei suoi “dintorni” si converte, come è inevitabile ma, in questo caso, altamente augurabile, nell’autobiografia di una figura prototipica del ’68: l’intellettuale prodotto dallo sviluppo economico degli anni Sessanta, dal grande esodo verso il Nord e dalla scolarizzazione di massa, che partecipa, prima come lavoratore-studente e poi come insegnante, al “lungo Sessantotto” italiano militando nelle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria e incontrando una figura carismatica di quella fase storica: il poeta, saggista, traduttore e insegnante Franco Fortini.

   Il rischio per chi si prefigga di porre a confronto la propria esperienza letteraria, politica e culturale con quella di una simile figura era chiaramente quello di cercare di scavarsi un posticino nell’ambito della fortinologia, laddove questa rappresenta una nicchia, peraltro non priva di meriti cognitivi, che si è venuta a creare all’interno dell’università senese, così come in altri ambiti universitari si creano nicchie votate al culto di questo o di quell’autore che per qualche ragione abbia insegnato abbastanza a lungo in questo o quell’ateneo locale. Dunque, la fortinologia poteva essere una risorsa, poteva essere un pericolo. Abate, però, ha saputo mettere pienamente a frutto la sua duplice peculiarità di studioso della letteratura e di intellettuale marxista di origine proletaria, facendo di Fortini uno specchio e, insieme, un modello della propria coscienza politica, ideologica, etica ed estetica. Specchio e modello, come risulta in forma esemplare dal modo con cui Abate, il quale aveva allora 31 anni, senza conoscerlo di persona, si rivolse allo scrittore fiorentino, che ne aveva 30 di più, in una lettera scritta il 3 marzo 1978, che, assieme alla risposta di Fortini, merita, per il suo straordinario valore politico ed educativo, di essere qui riportata con una certa ampiezza.

   «Caro Fortini, sono un insegnante di lettere di un Itis (Sesto S. Giovanni-Cinisello), immigrato, compagno dal ’68, lettore attento dei tuoi scritti. Diversi compagni con cui ho parlato di te mi hanno confessato, assieme al rispetto per il tuo lavoro, la loro scelta di non “disturbare” la tua (pare proverbiale) riservatezza. Ciò mi ha indotto finora a scartare ogni tentativo di conoscerti di persona, ma non mi fa rassegnare a questa tendenza ad imbalsamarti anzitempo nell’immagine del compagno “saggio”, di una generazione “eroica”, di levatura morale e intellettuale superiore e perciò inaccessibile. Quindi con cautela faccio oggi…questo tentativo a distanza…di uscire dall’anonimato: 1 – inviandoti in segno di stima questa mia poesia e chiedendoti un paio di considerazioni su quanto un tuo lettore pensa/scrive, convinto che un legame tra il tuo lavoro di scrittore/compagno e quello che vado pensando e facendo si è in qualche modo stabilito; 2 – porti un problema meno personale: assieme ad altri (pochissimi) compagni, isolati qui a Cologno [Monzese], ci siamo posti il problema di pubblicare un Bollettino-Rivista… Vogliamo proseguire in questa forma la nostra “militanza” dopo lo sfascio di Democrazia Proletaria in una situazione che è di periferia, di sottocultura e di emarginazione sociale. Ad essa, anche per condizioni materiali, ci sentiamo vincolati. Ma abbiamo maturato anche l’esigenza di sfuggire i toni propagandistici e attivistici di questi ultimi anni e faticosamente ci poniamo quei compiti di riflessione storica e di cura dello scrivere, che abbiamo riletto nel tuo Questioni di frontiera. È compito eccessivamente ambizioso per le nostre scarse energie? È ingenuo pensare che qualche buona indicazione, non generale ma rivolta proprio al nostro progetto concreto, possa venire anche da te? Saluti.»

   La risposta di Fortini arrivò presto: il 13 marzo 1978. «Caro Abate, la mia “proverbiale riservatezza” è una balla. La ‘inaccessibilità’ è semplicemente un minimo di inefficace difesa del tempo necessario a procurarmi di che vivere. Metà del mio tempo è dedicato alla Università – che è a sei ore di treno da Milano, a Siena. Come molti, vivo in treno. Questa grafia ti dice che in treno, anche, scrivo. Docente di ruolo e sessantenne guadagno quanto un impiegato delle aziende elettriche. Ho quindi un secondo lavoro editoriale. E scrivo libri. E crepo. Ti ringrazio molto del tuo testo. È quanto di meglio, nel genere, si possa leggere. Solo che il genere (critica della frantumazione rappresentando la frantumazione) mi pare un po’ stanco. Alla generosità dell’impulso bisognerebbe congiungere una ‘necessità’ maggiore, far sentire che ogni parola è insostituibile. Questa non è una critica, è troppo generica, per esserlo, scusami. Quanto intendete fare mi pare assolutamente necessario, coi tempi che corrono. Per molti anni non ci sarà altro da fare, con molta pazienza. Il consiglio che vi do è di: – scrivere e pubblicare un bollettino destinato ad un pubblico circoscritto che magari non c’è ma che potrebbe/dovrebbe esserci, quello che avete immediatamente intorno e che parla la lingua della schiavitù di massa. – scrivere di questioni concrete, non di teoria politica; meglio, allora, una problematica etica. Essere spietati. – far scrivere ma riscrivere. Nessuna concessione alla immediatezza populista. Scritti brevi, temi e frasi ripetute. – l’ideale è quello di grandissima modestia degli argomenti e grandissima ambizione (e “distanza”) nel punto di vista, quindi nella scrittura. Voler fare qualcosa di esemplare e di ‘povero’, mettere tutto il lusso nella solidità della scrittura, nella possibilità di usarne modestamente gli elementi che abbiano fatto buona prova. Costringersi alla regolarità formale, alla periodicità rigorosa, alla pulizia. Concludo dicendo che è una vergogna per noi e per voi che a dire e a fare quanto sopra si debba provvedere in questo modo preistorico: tra il compagno della (finta) “generazione eroica” (del cazzo) e un gruppo di isolati di Cologno. Aveva proprio ragione Hegel: la sola cosa che si impara dalla storia è che la storia non insegna niente. Vi abbraccio e vi saluto. Vostro». [2]   

   L’autore di questo ‘periferico’ itinerario attorno a Fortini sottolinea, attraverso un ricco florilegio delle più diverse testimonianze critiche, come pessimismo e lucidità (evidenti nella lettera testé riportata) fossero due caratteristiche di Fortini. Queste emersero, ad esempio, all’inizio degli anni Sessanta nel corso di un incontro avvenuto nella redazione torinese dei Quaderni rossi, allorché il direttore della storica rivista, Raniero Panzieri, volle far incontrare i giovani collaboratori con lo scrittore toscano, che era già da tempo una voce ascoltata della cultura di sinistra. Lo scetticismo di Fortini, che si mostrò pessimista su quel progetto, si scontrò subito con la fiducia dei giovani, quando espose i suoi dubbi sul particolare tipo di “marxismo operaistico” che orientava la rivista. I Quaderni rossi rappresentavano infatti un ‘unicum’ nella sinistra italiana, allora inquadrata nel Pci e, in misura minore, nel Psi (partito nel quale Fortini aveva militato fino ai tardi anni Cinquanta).

   Del resto, Fortini era un marxista ortodosso, legato ai testi e agli autori fondamentali del marxismo e del leninismo, come ad esempio Giörgy Lukács, sua grande passione. [3] Non era facile, quindi, che Fortini s’identificasse in pieno con qualche posizione politica e questo – osserva giustamente Abate – giustifica quella dialettica tra ortodossia ed eresia che costituisce il particolare fascino della sua personalità, caratterizzata da grandi passioni e forti risentimenti. Famose erano le sue polemiche: ai tempi della rivista Politecnico, quando aveva litigato con Vittorini non sopportando quella che a lui sembrava la superficialità illuministica dello scrittore siciliano. Procedendo sempre con metodo induttivo dalle analisi condotte nelle “letture” e dalle rassegne ragionate degli “interventi”, Abate fa giustamente notare che Fortini, nel conflitto fra il direttore del Politecnico e il Pci, non si schierò con Togliatti, e come tale posizione (né con Vittorini né con Togliatti) derivasse proprio dal suo particolare antistalinismo, che si concretava nel rifiuto della cultura opportunista del Pci, da lui incisivamente definita “metà Croce, metà Stalin”.  In realtà, decisivo e discriminante era, nella sensibilità politica, letteraria e intellettuale di Fortini un sano odio verso il sistema capitalistico. Non a caso, sempre in polemica con il punto di vista proto-europeistico e modernizzatore di Vittorini, sosteneva che chi fa letteratura deve sempre passare per la porta stretta della critica dell’economia politica. [4]

   In questo senso la ricezione del marxismo, fortemente sostenuta da uno slancio etico, si è intrecciata alla sua vocazione fondamentale di poeta, laddove il poeta che era in lui non ha mai smesso di pensare alla poesia come alla sua voce primaria. Chiunque legga la voce “Classico”, che Fortini ha redatto per l’Enciclopedia Einaudi, comprende che i suoi maestri erano, oltre ai surrealisti francesi e a Bertolt Brecht, i grandi poeti italiani, sia del Novecento che della tradizione classica. Fra i poeti del Novecento, il toscano Fortini si sentiva vicino, per esempio, al corregionale ed ermetico Mario Luzi, alla sua poesia ricca di un afflato cosmico e pervasa da messaggi universalistici. [5] Risale, peraltro, al 1946 il primo libro di versi, Foglio di via, che fu pubblicato nella collana di poesia della casa editrice Einaudi, corredato da un disegno in copertina e da una dedica al padre: un volume che ripercorreva l’esperienza militare dell’autore. Passerà un decennio prima che Fortini si dedichi a raccogliere la sua produzione letteraria dal 1937 al 1957, che uscirà presso Feltrinelli con il titolo Poesia ed errore. Nel 1961 continua a tradurre Brecht, poeta e intellettuale marxista da lui profondamente amato, e pubblica sul secondo numero di «Rendiconti» una serie di poesie, tra cui, bellissima, La gronda. Nel 1973 esce la raccolta Questo muro, seguita, dopo un decennio, dal libro di poesie intitolato Paesaggio con serpente. Nel 1994 vedrà la luce l’ultimo, mirabile, libro di poesie dal titolo Composita solvantur. Vasta, osmotica e tecnicamente approfondita è la disamina che Abate dedica alla complessiva produzione poetica di Fortini, analizzata nelle diverse fasi senza mai deflettere dalla norma del rigore critico e con una costante attenzione alle vicende storiche da cui tale produzione scaturisce.

   A questo proposito, va preso in considerazione il discorso sulla religiosità di Fortini, che – come sottolinea Abate riportando il giudizio di Alessandro La Monica – è problema delicato e complesso per due ordini di motivi: – la com­presenza in Fortini di varie influenze: dell’ebraismo, del protestantesi­mo valdese a cui aderì da giovane, del cattolicesimo filtrato attraverso figure come Noventa, Manzoni, Augusto Del Noce e autori capitali come Tommaso d’Aquino, se non anche attraverso i moralisti francesi del Seicento (sempre via Manzoni); – la contraddittorietà tra queste istanze reli­giose e il pensiero marxista, che gliele fa rileggere in senso storico-materialistico. In realtà, siffatte compresenze e contraddizioni sono il suggello della sua originalità nel panorama culturale italiano, come dimostra, riguardo al significato (non solo religioso e teologico ma) storico e filosofico del dogma della transustanziazione, la geniale ritraduzione in termini marxisti, che di tale dogma opera Fortini. La tradizionale celebrazione, in chiave protestante, della figura di Martin Lutero si lascia infatti sfuggire, secondo Fortini, un aspetto fondamentale, che costituisce però il limite storicamente invalicabile e filosoficamente decisivo della ‘confessio fidei’ del riformatore sassone. Illuminante è, in merito, quanto osserva lo stesso Fortini, il quale, nel delineare la sua “via al marxismo” partita dall’ebraismo paterno e passata dal protestantesimo valdese, si è soffermato su un punto capitale della riforma luterana, ossia sulla negazione della presenza reale del corpo di Cristo nell’ostia consacrata.

   È questo un punto che merita di essere approfondito, andando oltre la celebre ‘boutade’ di Voltaire che, nel tratteggiare sarcasticamente le differenze tra cattolici, luterani e calvinisti rispetto all’eucaristia, soleva dire che i primi ingeriscono il corpo e il sangue di Cristo (transustanziazione), i secondi il corpo e il sangue assieme al pane e al vino (consustanziazione) e i terzi soltanto il pane e il vino (in ricordo della sacra cena). Orbene, la disputa, come è noto, concerne la presenza simbolica o non simbolica (quindi reale) del corpo di Cristo nella eucarestia e, più in generale, nella nostra vita, talché, alla luce della visione cattolica della transustanziazione, una persona, un oggetto, un evento è “quello che è” e nel contempo è “allegoricamente” altro, il che significa che esistono livelli d’interpretazione degli eventi biblici che sono al tempo stesso prefigurazione, profezia ecc. (su questo assunto si fonda, tra l’altro, il criterio dell’interpretazione tipologico-figurale della Divina Commedia, applicato in modo geniale dal grande filologo tedesco  Erich Auerbach, tanto apprezzato da Fortini). Avviene pertanto che l’esistenza concreta, singola e temporale, trova la sua ragione in un ‘al-di-là’ di essa, in un “adempimento” (parola chiave del lessico fortiniano), di cui essa è solo l’anticipazione. Così, l’idea di un’identità che si deve realizzare sia sul piano storico sia sul piano extratemporale è qualcosa che, secondo Fortini, trova conferma non solo nel dogma cattolico della transustanziazione, ove l’ostia è ostia e corpo di Cristo (e ha perciò un significato allegorico), ma anche in tutt’altro campo, ad esempio nella sfera della cosiddetta psicologia del profondo, dove, come nel sogno, una persona o una cosa è quella ed è altro. Concepire questo tipo di contraddittorietà è certamente insostenibile per la logica formale, non per la logica dialettica: basti pensare al valore della merce così come è analizzato da Marx nella prima sezione del primo libro del Capitale, valore che, a livello della singola merce, si sdoppia in valore d’uso e valore di scambio. Sennonché, esaminando la posizione di Lutero, Fortini afferma che il riformatore sassone aveva torto, nel senso che porre il rapporto tra simbolo (ostia) e cosa simboleggiata (sacrificio di Cristo) equivale ad anticipare la divisione interna alla personalità umana, rappresentata in modo paradigmatico dal verso di Goethe che fa dire a Faust nel suo poema: «Zwei Seelen wohnen, ach! in meiner Brust», che in italiano si traduce nel modo che segue: “Dentro il cuore, ah, mi vivono due anime”, laddove Goethe precisa: “e una dall’altra si vuole dividere”. Una divisione, per l’appunto, che è essenziale al mondo borghese in quanto mondo della scissione. In tal senso, parafrasando il famoso aforisma crociano, anche il marxista Franco Fortini non può non dirsi “cattolico”.

    Ovviamente Abate concede largo spazio, oltre che all’attività poetica di Fortini, all’attività saggistica, nell’ambito della quale vengono ripresi, discussi e approfonditi   i suoi libri più felici: Dieci inverni: 1947-1957Verifica dei poteriI cani del Sinai, Saggi italiani, Questioni di frontiera, Insistenze, Attraverso Pasolini. Scritti che contenevano, oltre a ragionamenti complessi, spesso di eccezionale densità, invettive e moniti a volte sferzanti, che lasciavano il segno su correnti di pensiero, mode culturali, posizioni politiche, ideologie del potere o funzionali ad esso. L’autore del libro in parola non omette di indicare le allergie di Fortini, che – va detto – erano assai ampie, ma in realtà corrispondevano perfettamente a quel “lungo Termidoro”, ancora in corso, le cui tappe furono rappresentate, prima, dalla sconfitta del Sessantotto e poi dalla dissoluzione dell’Urss. Su questo punto è sicuramente lecito obiettare all’autore del libro qui recensito che non si tratta di un “fallimento”, come egli scrive usando una dizione apologetica, ma della sconfitta di un tentativo grandioso di mutamento dei rapporti umani e sociali, la cui validità prospettica resta immutata in quanto è inscritta nelle contraddizioni oggettive del modo di produzione capitalistico e nella dinamica sempre più regressiva dell’imperialismo. Insomma, basta citare alcune di quelle allergie – considerava Calvino un astuto stratega del proprio successo, in Eco vedeva un sapiente inventore di formule, di Cacciari, definito “ultimo Cainita”, non sopportava il vezzo di civettare con Nietzsche e il pensiero negativo – per capire che Fortini era una rarità, come dimostrano sia il suo radicale rifiuto della cultura di origine, che era poi quella ebraica, sia le sue obiezioni alla politica dello Stato di Israele, che erano durissime. [6]

   E poi vi è il discorso più importante di tutti, il discorso che costituisce il “basso continuo” del libro di Abate: Fortini e il Sessantotto. Leggendo soprattutto i Quaderni piacentini si nota il passaggio di Fortini da un originario entusiasmo a una delusione definitiva. Il suo approccio iniziale al movimento dei giovani fu molto forte: durante una manifestazione fiorentina per il Vietnam – sarà stato il 1966 – Fortini pronunziò un discorso in versi che ebbe molta risonanza fra i militanti. Vi si stabiliva una stretta relazione fra le lotte dei vietcong e le rivendicazioni operaie in Occidente: un’equazione destinata a entrare nel senso comune giovanile. Molto meno fervida fu poi la sua partecipazione allo sviluppo concreto del movimento, e la ragione è che non amava protagonismi di carattere politico, non accettava di atteggiarsi a ‘leader anziano’ (come risulta anche dallo scambio epistolare tra Abate e Fortini, citato all’inizio).

   Poi c’è stato il Fortini professore, di cui, seguendo la traccia di Abate, merita di essere ricordata, al di qua della docenza universitaria, la fondamentale esperienza di insegnamento negli istituti professionali. Così, un giovane, che ebbe la fortuna di essere suo allievo, ricorda il professor Franco Fortini, insegnante di italiano alle scuole superiori, che in un’epoca di scapigliato anticonformismo sessantottino entrava in classe con il suo impeccabile completo blu, su cui risaltavano ancor più gli argentei capelli e la montatura dorata degli occhiali: un professore che dava del lei, mentre gli studenti avrebbero voluto dare del tu a tutti i docenti. Lo stesso giovane, che confessa di non aver capito molto delle lezioni di Fortini, esposte nondimeno con trascinante eloquenza e intarsiate di aneddoti personali, ricorda che l’insegnante-poeta talvolta leggeva i suoi versi agli allievi, versi scritti magari la sera prima, dopo aver corretto i compiti. E confessa quanto gli piacevano quelle immagini incise, nitidamente classiche, quella poesia che, pur nella severità della forma, non dissimulava né le occasioni della sua origine né il bisogno, così fortemente sentito dal poeta, di riportare sulla pagina i problemi e i conflitti della realtà esterna. [7]

   E infine vi è il profilo di Fortini educatore, che assume un crescente risalto a mano a mano che Abate, anche lui un insegnante e, in quanto tale, un educatore, svolge il filo rosso di una biografia che, come si è visto, è nel contempo un’autobiografia. Inevitabile, a questo punto, è citare la terza delle undici Tesi su Feuerbach, in cui Marx afferma che «la dottrina materialistica della modificazione delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze sono modificate dagli uomini e che l’educatore stesso deve essere educato». In altri termini, con il suo lavoro su Fortini l’autore ci fa capire, alla luce della dialettica marxiana, il significato più vasto e profondo, sia in senso filosofico che in senso politico, della lezione di Fortini, poiché anche l’educatore, se è un autentico educatore, deve accettare di essere, a sua volta, educato, senza mai dimenticare che «la coincidenza del variare delle circostanze dell’attività umana, o auto-trasformazione, può essere concepita o compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria». [8]

Note


[1] E. Abate, Nei dintorni di Franco Fortini. Letture e interventi (1978-2024), Milano, 2025.

[2] Entrando in una fabbrica, Fortini osserva: «Quando passi attraverso certi reparti dove i vapori chimici e la polvere delle mole ammazzano lentamente diecine di uomini, costoro non ti guardano con odio e neppure con curiosità: accettano. È inutile che tu dica a te stesso quale enorme progresso hanno compiuto questi operai e queste donne rispetto ai loro nonni e bisnonni di cento anni fa: resta che tu esisti e tutta la tua classe esiste sulla inumanità loro. Resta che per tutta la vita, i tuoi ozi, i tuoi pensieri, le tue letture, le poesie che scrivi e quelle che non scrivi [ … ] e i vagabondaggi nelle biblioteche si reggono sulla sottoumanità di una maggioranza, sia essa composta di questi operai o dei braccianti pugliesi».

[3] Ammonisce Fortini: «Non c’è eredità senza eredi, non si è eredi se non si sa di esserlo e se non ci si situa in prospettiva fra un ieri e un domani, un donde e un dove».

[4] Fortini si pone la domanda: «che cos’è la cultura?». E così risponde: «Nel parlare di cultura si è visto quasi soltanto il suo aspetto di riflessione critica e di vita intellettuale, secondo vuole l’idealismo; impallidito è il significato più antico di educazione, di qualità morale sottintesa alle qualità intellettuali; scompare la diffamata parola civiltà. Eppure la questione è proprio questa: è inutile ed impossibile parlar di cultura nuova, finché con ciò intendiamo il corpo tradizionale delle scienze morali e storiche. Per noi cultura è sinonimo di civiltà, la disputa guadagna ad allargarsi, e civiltà è, per noi, l’insieme dei modi nei quali, in un tempo e in un luogo, gli uomini producono».

[5] Scriveva Franco Fortini nei suoi “appunti di poetica” nel 1962: «Spostare il centro di gravità del moto dialettico dai rapporti predicativi (aggettivali) a quelli operativi, da quelli grammaticali a quelli sintattici, da quelli ritmici a quelli metrici (…) Ridurre gli elementi espressivi». La poesia deve proporsi la raffigurazione di oggetti (condizioni, rapporti) non quella dei sentimenti. Quanto maggiore è il consenso sui fondamenti della commozione tanto più l’atto lirico è confermativo del sistema».

[6] Scriveva Cesare Cases: «Tra gli intellettuali già di sinistra oggi solo Franco Fortini e pochi altri sembrano ricordarsi della verità che “omnis determinatio est negatio” e che l’uomo si definisce solo scegliendo e scartando».

[7] Un classicismo, quello di Fortini, vissuto polemicamente e contraddittoriamente, volutamente «strabico», come egli stesso ebbe a dire: un modo di guardare il futuro attraverso il passato.

[8] Come Fortini non mancherà di rilevare, sulla scorta di un’analisi del meccanismo capitalistico attuale (struttura e sovrastruttura), il conflitto di classe è l’ultimo dei conflitti visibili perché è il primo per importanza.

* Questa recensione viene pubblicata su Poliscritture con l’aggiunta di un paragrafo sulla produzione poetica di Fortini rispetto a quella apparsa il 15 febbraio 2025 su Sinistra in rete (qui)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *