
di Donato Salzarulo
MISERICORDIA, LIBRI SUL PODIO E FIORI GIALLI PER FRANCESCA
Mercoledì. Al di là della vetrata, il cielo è di piombo fin dalle prime luci dell’alba. È di piombo e piove. Cosa posso fare?
Attendo il prelievo giornaliero, la puntura di eparina, la misurazione della pressione e della saturazione, la manciata di pillole mattutine.
Attendo l’arrivo della signora che mi lascia sul tavolo il mezzo bicchiere di tè e i frollini. Attendo il dottore alto alto con la tuta bordeaux, seguito dalla studentessa in medicina col grembiule bianco, che mi farà la visita.
Poi cos’altro attendo? Niente.
Guardo ogni tanto il cellulare. Leggo la chat dei miei amici Solidali e Democratici, quella dei miei amici bisaccesi che per lo più tacciono.
Leggo i saluti mattutini e serali, saluti immancabili di mio cugino Donato e del mio amico Michele.
C’è anche qualche amica che ogni tanto mi chiede come sto. Una, addirittura, ha detto che verrà a visitarmi. Non ci posso credere.
Nella città dove il tempo è denaro, dove l’imperativo del lavoro è più importante della circolazione sanguigna, dove tutti hanno sempre qualcosa da fare, figurarsi se il gesto cristiano di visitare gli ammalati possa avere corso. Non ci credo. Non verrà a visitarmi.
La misericordia è una parola che si sente pronunciare in chiesa e che gli italiani scolarizzati incontrano nei Promessi Sposi, ma la pratica sociale corrispondente è sconosciuta ai più. È rimossa.
Viene da ridere quando sento dire da chi non è venuto a visitarti, che l’ha fatto per non disturbarti, per rispettare la tua privacy.
Privacy?!… Negli anni che stiamo vivendo ci sarebbe ancora la privacy. Vabbé.
Non sarebbe più onesto dire che desideriamo stare il più lontano possibile dalla fame, dalla malattia e dalla vecchiaia. Sono condizioni che sappiamo bene cosa annunciano.
È della morte, della morte odiosa che non vogliamo parlare, è questa che non vogliamo evocare in nessun modo.
A mezzogiorno il mio compagno di stanza fragile e scheletrito mi abbandona. Improvvisamente vedo arrivare la moglie e la figlia.
«Come mai qui a quest’ora?»
«Dobbiamo trasferirlo a Cologno, in un hospice…Hanno trovato lì un posto»
«Ho capito…»
Quando vanno via li saluto con un velo di mestizia.
E continuo ad essere mesto un po’ più tardi, quando al tavolo comincio a mangiare solo solo, senza neanche più lo strano borbottio del compagno alle mie spalle.
Eccolo qui, ancora lo scorfano. Novità assoluta della mia alimentazione. Dovevo ricoverarmi in ospedale per scoprirne la bontà.
Cosa fare, dopo aver mangiato? Come trascorrere la giornata? Quante volte passeggiare tra camera corridoio e soggiorno, soggiorno camera e corridoio? Non posso farlo molte volte. Dopo tre o quattro giri, mi sento stanco. Ho bisogno di sedermi o di mettermi a letto. La polmonite è una brutta bestia.
In una condizione simile come trascorrere il tempo? Chattando? Ma io non ho questa abitudine. Anzi evito sistematicamente scambi prolungati in chat di cui pure faccio parte. Li evito, perché, dopo due o tre turni di messaggi, ho l’impressione che si capisca fischi per fiaschi. Anche con gli amici gli scambi tendono a ridursi all’essenziale.
Che fare, quindi? Riposare o stare lì seduto a sfogliare i giornali. Quelli di ieri non li ho ancora guardati. Allora mi metto comodo e comincio col Manifesto per passare successivamente al Corriere della Sera, subito dopo alla Repubblica e, infine, al Fatto quotidiano. Faccio due sedute. Ognuna di un’ora.
Fra una seduta e l’altra, passeggio avanti e indietro nel corridoio fino al soggiorno.
Vano è pensare di incontrare persone desiderose di scambiare quattro chiacchiere con me. Quest’attività è riservata alla visita serale dei familiari che, per altro, stasera non verranno. Festeggeranno Francesca incoronata dottoressa in “amministrazione, controllo e finanza aziendale”.
Quindi, dopo tre giri, torno a sedermi e, alla fine, mi chiedo:
«Cosa salverei di ciò che ho letto? Quale articolo metterei in una cartella eventualmente per rileggerlo?»
I candidati sono una decina, ma ho deciso di metterne sul podio non più di tre. Novanta articoli al mese per dodici fanno mille e ottanta. Un tomo…
I premiati di oggi sono Maurizio Viroli che presenta sul Fatto quotidiano il suo libro «Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli» (Laterza, 2024).
«Quello di Niccolò era il sorriso di un uomo buono. Sì, un uomo buono. Lo scrivo senza alcuna esitazione, consapevole di andare contro una tradizione di cattive interpretazioni che lo hanno presentato come un uomo cinico, irreligioso, subdolo, ambizioso, falso, perfido. Benché sia vecchia di secoli e florida anche ai nostri giorni, nell’opinione colta e nella mentalità dei più, non ha alcun fondamento.»
Bando, dunque, all’aggettivo “machiavellico” nel senso di «volpino, diabolico, astuto, cinico, opportunistico, spregiudicato, subdolo» (dal dizionario Treccani).
«Buono sì, santo no. Invece di fuggire o dominare la passione amorosa si abbandonava a essa senza alcun rimorso. Non resisteva neppure alla meno nobile ‘foia’, il semplice desiderio sessuale. Forse aveva relazioni omosessuali, o almeno dichiarava di averle. Senza contrizione alcuna rivela di ricorrere spesso alle bugie, e non esita a dichiarare che a chi governa Stati è lecito mentire, se necessario. In chiesa andava poco. Dubito che si confessasse. Lo fece, forse, in punto di morte. Amava la buona tavola, il vino e i dolci. Basta questo per giudicarlo cattivo? Secondo me no.»
Anche secondo me. E possiamo chiudere qua il promemoria di quest’articolo. Tutti coloro che, in qualche modo, hanno a che fare con Machiavelli, per ragioni culturali, professionali o politiche, sono avvisati.
Nella pagina 18, nel retro di quella dedicata a Machiavelli, si può leggere il secondo articolo da “salvare”. Si tratta di un’intervista ad Amos Gitai, regista, sceneggiatore, produttore cinematografico israeliano.
Al teatro Argentina di Roma presenterà, dall’otto al dieci Ottobre, “House”. È una pièce dedicata a una Casa di Gerusalemme ovest e ai suoi diversi proprietari: un ginecologo palestinese, un umile famiglia di ebrei algerini, un noto economista israeliano.
La Casa rappresenta simbolicamente l’unico posto al mondo che ospita insieme palestinesi, israeliani, iraniani, libanesi ed europei.
«Al cuore, c’è il tema della memoria, non dell’utopia; cito spesso Picasso che, sotto i bombardamenti nazisti, si preoccupava di dipingere. Ma cosa c’entra la pittura con la realtà? Per me l’arte lascia una traccia storica, ha un valore testimoniale, vive nella e per la memoria. Lo stesso fanno il teatro e il cinema che creano un dialogo, una connessione profonda con gli spettatori, non ridotti a consumatori passivi di notizie.»
Per Amos Gitai «l’arte non può cambiare istantaneamente la realtà, ma lavora nel tempo lungo della riflessione e della memoria», con la sua capacità di farsi testimonianza ed elaborazione di idee può contribuire a cambiarla.
«Dobbiamo incoraggiare gli spettatori a ripensare, a riflettere. Il discorso pubblico oggi è intossicato dall’informazione veloce: ogni gruppo – israeliani, palestinesi, europei…- spesso vuole una risposta univoca e immediata che non esiste. La situazione è complessa, piena di contraddizioni: occorre uscire dal paradigma manicheo che contrappone persone angeliche e bastardi, il bene e il male.»
Vero. Il guaio è che la guerra vive e si alimenta col paradigma manicheo di amici / nemici. «Quando gridano i cannoni, le muse restano silenziose.» Ma Amos Gitai, non si arrende. «Io insisto sulla memoria: non un sentimento nostalgico, ma un dispositivo che consente di orientarci, di darci un senso, una direzione. Certo, viviamo un momento buio, difficilissimo, e il teatro non lo può cambiare; servono adeguati leader politici. Non si può delegare all’arte la risoluzione delle guerre, ma il teatro può proporre una visione più ottimistica del futuro. Speranza.»
Io non sono regista né sceneggiatore, ma capisco i problemi sollevati da Amos Gitai. Le parole chiave sono “testimonianza”, “memoria”, “dialogo” (io direi anche “mediazione”), “speranza”, che non sia cieca, anche se la cecità può donare «una realtà aumentata». Così sostiene Luigi Manconi nel suo ultimo libro «La scomparsa dei colori» (Garzanti, 2024), recensito da Claudio Magris sul Corriere della Sera. Siamo arrivati quindi al terzo articolo.
«Manconi ha scritto un libro autobiografico […] in un senso tutto particolare; parla delle cose piccole o grandi che gli accadono e gli aprono finestre sulla realtà; del suo rapporto con chi non ha perduto la capacità di vedere e con chi l’ha perduta. Combattendo la sua battaglia con calda e ironica consapevolezza, Manconi aiuta a liberare se stessi e anche gli altri intorno a lui dall’incomunicabilità, senza alcun rimuginare ideologico ma con la naturalezza di un uomo vivo e pronto ad incontrare gli altri che non vedrà, e talora anche quelli che a loro volta non lo vedranno, in uno scambio che è l’essenza dell’umanità. “Il cieco riuscirà a vedere chi non vede”.»
Non so se lo scambio sia l’essenza dell’umanità. Sicuramente lo scambio fra me e gli articoli “salvati”, compresi quelli letti e non salvati, mi ha aiutato a trascorrere un po’ di tempo in questa camera d’ospedale. Non solo. Il fatto più importante è che mi ha regalato un’iniziale nuova visione di Machiavelli col suo sorriso buono, la consapevolezza della difficoltà in cui un artista come Amos Gitai lavora e, infine, l’aumento di realtà che una condizione giudicata negativa (e sicuramente lo è) può produrre se chi vive quella realtà l’affronta con “piglio avventuroso”.
Sto mettendo sul podio i miei articoli da salvare, quando verso le 17,30, sul cellulare, Laura comincia a mandarmi il video e le foto della proclamazione di dottore, affermano proprio così – per Francesca. Sono commosso e mi dispiace tanto non poter essere lì a congratularmi con la mia bellissima nipotina. Sorridente nel suo completo jeansato, con la tesi di laurea nella sua mano destra, il bouquet con fiori gialli nella mano sinistra e in testa la corona d’alloro, con rose gialle e fiori sempre gialli. Mi dicono che questo è il colore dei laureati in materie economiche. Non riesco a crederci. Ho già due nipoti laureate: Laura e Francesca. Il terzo, Edoardo, è al quarto anno di liceo scientifico.
«La vita è una ruota che gira» diceva mio padre. Anche mia madre, in verità. Ma non ho mai capito bene cosa volessero dire. Forse pensavano al tempo ciclico delle stagioni: nel senso che Francesca sta vivendo la sua primavera ed io, che sono già coi piedi nell’inverno, ho vissuto la mia primavera più di mezzo secolo fa. Ed ora devo soltanto accontentarmi del ritorno della primavera come stagione. Quella della vita: la mia proclamazione di dottore in pedagogia, la mia gioventù mi rimangono dentro come un “passato imminente” (così direbbe D’Avenia).
Può darsi pure che il detto voglia significare che la vita si comporta come una roulette. Restando alla metafora, ogni nostra scelta (è scelta anche la non-scelta) diventa una puntata fortunata o sfortunata. Se le puntate sfortunate sono tante, si esce dal casinò del mondo con un pugno di mosche in mano. Se non lo sono, guadagni qualcosa e vivi i tuoi giorni con un pizzico di gioia. Probabile però che il significato sia più pessimista: partiamo dal Niente e ritorniamo al Niente.
Mentre spremo le meningi per immaginare ipotesi interpretative di un detto sentito non soltanto sulle labbra dei miei genitori, Marzia, prima figlia di mio fratello Peppino, più giovane di me e morto, purtroppo, più di cinque anni fa, varca la soglia della camera e, con occhi e labbra sorridenti, «Ziiiooo», mi dice, «coome staaai?»
«Beene », le rispondo, «Vieeni, vieni qua»
Si avvicina verso di me e ci abbracciamo.
«Come mai qui, con tutti gli impegni che hai?…»
«Zio, so che stasera sei solo, perché sono andati tutti alla festa di laurea di Francesca. Io non potevo andarci e allora sono venuta a trovarti e a farti compagnia durante la cena.»
«Che pensiero gentile…grazie.»
Così dalle 17,30 alle 19 impegno una stimolante conversazione con mia nipote, che s’informa sulle mie attività estive, sul mio libro su Fortini, sui nostri parenti bisaccesi e su mille altri argomenti familiari.
Al momento opportuno, quando la signora lascia sul tavolo il vassoio con la cena serale, mi invita a sedermi al tavolo, mi dissigilla i vari contenitori coi cibi e mi condisce l’insalata (cicoria Milano o scarola?… Non ricordo bene) che accompagna due fette di arrosto.
Ad un certo punto squilla il suo cellulare. È Lorenzo, il figlio. Non trova la madre in casa e vuole sapere dov’è e quando torna. Gli risponde che è dallo zio Donato e che tornerà presto. Infatti, non appena finisco di mangiare, mi saluta con calore ed affetto e s’affretta verso casa.
Dopo cena, passeggio un quarto d’ora per il corridoio, poi torno alle mie attività. Sono solo. Tra poco l’infermiera eseguirà le solite operazioni serali. Io mi metto a pensare a domani mattina, quando verrà la dottoressa Secci a salutarmi.
Cosa regalo alla mia “salvatrice”? Posso cavarmela con i soli ringraziamenti verbali? Venerdì, quando mi spinse con la carrozzina e mi portò dall’ambulatorio dell’amica, le rivolsi un fiume di ringraziamenti; forse ora servirebbe qualcosa di più tangibile. Ma cosa?
I miei non ci sono. Martedì sera non potevo dire alla consorte o alle figlie di portarmi la classica scatola di cioccolatini, di biscotti o non so cos’altro. Mercoledì non sarebbero venute in ospedale. Io non sono uomo che fantastica sui regali. Nove volte su dieci, i miei oggetti preferiti sono libri. Sul comodino ho una copia di quello che ho scritto su Fortini.
Se glielo regalo con una bella dedica sulla fortuna che ho avuto ad incontrarla, la prenderà bene o male? Come giudicherà questo gesto? Le farà piacere o no? Per una mezz’ora nel cervello si accumulano perplessità.
Alla fine mi dico che le farà piacere. Vero che io sono un “letterato” umanista, mentre lei una dottoressa di medicina interna, vero che tra di noi ci sono delle differenze abissali, vero che la professione di medico rende probabilmente le persone più “pratiche”, però è anche vero che lei è una donna e le donne, da quel che si dice, sono più romantiche e sognatrici degli uomini (sicuramente lo sono più di me). Marta nel cuore avrà senza dubbio un posto per la poesia e per i sogni. È vero, il mio libro tratta argomenti tutt’altro che scontati e banali. Forse anche un po’ difficili. Ma sono alla sua portata. Potrà ancora una volta dar prova di curiosità. Poi, diciamola tutta, cosa c’è di più tenero e “femminile” che spingere un vecchio uomo nella carrozzina? Cosa c’è di più filiale? Sono convinto che Marta abbia il cuore aperto alla poesia e apprezzerà il mio gesto. Non solo. Sono convinto che il dono le dirà qualcosa di me, qualcosa che lei forse vuole sapere. Non sarebbe stata altrimenti così attenta al racconto delle mie malattie passate, al mio respiro. È la sua professione, si dirà. Vero. Ma c’è modo e modo di esercitarla. Non so. Proprio non so.
In preda a tutte queste perplessità, mi torna in mente una famosa poesia di Wislawa Szymborska
AD ALCUNI PIACE LA POESIA
Ad alcuni?
cioè non a tutti.
E neppure alla maggioranza, ma alla minoranza.
Senza contare le scuole, dov’è un obbligo,
e i poeti stessi,
ce ne saranno forse due su mille.
Piace?
ma piace anche la pasta in brodo,
piacciono i complimenti e il colore azzurro,
piace una vecchia sciarpa,
piace averla vinta,
piace accarezzare un cane.
La poesia?
ma cos’è mai la poesia?
Più d’una risposta incerta
è stata già data in proposito.
Ma io non lo so, non lo so e mi aggrappo a questo
come all’àncora d’un corrimano.