
di Umberto Bertolini
Questo Convegno è stato sponsorizzato dal Ministero della Cultura, Direzione generale di Educazione, ricerca e istituti culturali. L’Associazione capofila è “La Giubba” APS, che gestisce il Museo Italiano dell’Immaginario Folklorico di Piazza al Serchio e altre iniziative culturali. L’idea deriva dall’Associazione di studi storico-antropologici “Leone Verde APS”, presieduta dalla prof.ssa Sonia Giusti, dal Laboratorio di antropologia sociale “Ernesto De Martino”, nonché da altre organizzazioni che fanno capo all’Università di Cassino e del Lazio meridionale qui rappresentata dalla prof.ssa Floriana Ciccodicola: l’ Osservatorio Memoria storica, Intercultura, Diritti umani e Sviluppo sostenibile (MinDS) intitolato a Luciano Dondoli e il Laboratorio di Antropologia, Pedagogia e Attività Sportive (LAPASS). Al Convegno hanno aderito anche l’I.C. di Piazza al Serchio, che ha messo a disposizione la sede, e il Comune dello stesso centro che ha patrocinato l’iniziativa.
Il tema proposto è molto denso e il titolo stesso ci obbliga a riflettere sul significato di un convegno che ha per oggetto l’educazione civica. Per introdurre l’argomento cercherò di parafrasare il titolo e di definire il focus attraverso alcune coordinate: la vera conoscenza, sia essa scientifica o umanistica, non si limiti alla sola acquisizione di informazioni, ma conduca a una maggiore responsabilità e partecipazione civica, promuovendo il pensiero critico, che è essenziale per comprendere il mondo circostante e prendere decisioni consapevoli. Attraverso il pensiero critico, infatti, le persone imparano a valutare le informazioni, a comprendere le complessità del mondo e a prendere decisioni informate. La conoscenza, in sostanza, non può essere fine a sé stessa, ma deve tradursi in un impegno attivo verso il miglioramento della società.
Trasferendo tali concetti nella didattica, cioè in un campo di esperienza che mi è familiare poiché vengo dal mondo dell’istruzione, vorrei osservare che uno degli obiettivi generali della scuola è da sempre quello di favorire un apprendimento volto a far crescere degli uomini e dei cittadini. Una duplice funzione, dunque: formare individui competenti e dalla “testa ben fatta”, per dirla con Morin1, per quanto sta nelle possibilità e nelle capacità di ciascuno, e nello stesso tempo aiutare la costruzione di competenze e abilità di tipo sociale e affettivo per relazionarsi con gli altri. Il tema del convegno è questo in sintesi: come la cultura umana, scientifica e umanistica, possa dare una mano a costruire uomini e cittadini degni di questo nome. Ricordava il Ministro Fioroni in una sua direttiva che gli scienziati tedeschi che lavoravano nei campi di concentramento erano pur sempre scienziati intellettualmente dotati e ben preparati; tuttavia, l’educazione dell’individuo è compiuta e realizzata se coloro che escono dalla scuola abbiano competenze e conoscenze non solo finalizzate a conseguire interessi personali, attività e profitti per sé, ma anche indirizzate al rispetto della collettività e ad una partecipazione attiva, corretta e consapevole all’interno della società. Teniamo presente che una partecipazione civile attiva non è solo quella politica o amministrativa, ma anche adesione ad un’associazione, ad un gruppo di volontariato, ad una squadra di calcio, insomma è partecipazione alla società in senso lato, nei vari settori e aspetti, purché sia consapevole e realmente impegnata.
In definitiva, chi deve pensare a costruire un cittadino dotato di conoscenze, responsabilità e partecipazione civile? La Scuola (risposta ovvia) è stata indicata in ogni tempo come la principale struttura per raggiungere questo fine. L’istituzione scolastica è sempre stata investita di queste tematiche e non di rado le sono stati affidati incarichi esorbitanti l’ambito strettamente educativo. Ogni qualvolta si è presentato un problema sociale la scuola di riflesso ha dovuto farsene carico: quando è arrivata la pandemia da Covid, ad esempio, le si è chiesto di fare educazione sanitaria e ciò si è verificato in molti altri casi, per cui la scuola è diventata il luogo dove impattano tutte le emergenze. È evidente che questo non può funzionare. Poi c’è un altro aspetto che io ho sempre criticato ed è l’dea che sia sufficiente dire le cose perché queste vengano capite e tradotte in azione. Se ci riflettiamo, comprendiamo che non è così: non basta infatti che nella scuola si parli per mezz’ora di un certo argomento perché chi ascolta lo assimili in profondità facendolo proprio; tale convinzione purtroppo è molto diffusa a tutti i livelli ed ha prodotto come conseguenza l’introduzione nella scuola di varie “educazioni” ritenute con buona ragione formative (educazione alla legalità, all’affettività, alla pace, alimentare, ambientale, stradale, ecc…). Potremmo ragionevolmente unificare tutte queste educazioni sotto un’unica sigla, l’educazione civica, come tanti rami che si sviluppano dallo stesso tronco.
Ora accennerò ad alcune direttive ministeriali relative all’ educazione civica nella scuola, partendo dall’ultima che è in discussione in questi giorni nelle scuole del primo e del secondo ciclo di istruzione: si tratta delle “Linee guida per l’insegnamento trasversale dell’educazione civica”, emanate dal Ministro dell’istruzione e del merito Valditara, che vanno a sostituire le precedenti e, guarda caso, “si configurano come strumento di supporto e sostegno ai docenti anche di fronte ad alcune gravi emergenze educative e sociali del nostro tempo”2. In questo documento si dedica alla sola attività dell’educazione civica una grande quantità di pagine, rispetto a documenti analoghi che riguardano tutte le discipline, come ad es. le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (2012), e si arriva a precisare nel dettaglio le ore da assegnare alla materia: la legge prevede infatti che all’insegnamento dell’educazione civica siano dedicate non meno di 33 ore per ciascun anno scolastico. 33 ore in un anno significa che la scuola, nell’esercizio dell’autonomia didattica3, può organizzare quelle ore come vuole: potrebbe concentrarle tutte in un mese, se ritiene che questo sia utile per l’apprendimento dei ragazzi, oppure può distribuirle in vario modo secondo necessità, o anche diluirle un’ora per settimana, secondo un criterio che quasi tutti, suppongo, sceglieranno, o almeno adotteranno a maggioranza. In questo caso diventerà la solita ora canonica che si disperde in quanto poco produttiva. Al di là delle buone intenzioni si ritornerà, presumo, al vecchio sistema – ricordo i primi tempi in cui insegnavo l’educazione civica – quando in fondo al libro di storia c’erano alcune pagine sulla Costituzione e si presentava via via qualche argomento di quell’appendice. Se già allora quel tipo di approccio serviva poco o niente, oggi sarebbe più che mai improponibile e sterile.
Spostiamo l’attenzione ai tempi passati e procediamo alla lettura di alcuni passi, estrapolati da Comenius4 (il grande intellettuale che nel XVII° sec. gettò le basi della moderna pedagogia) e dai Programmi di studio per le Scuole Elementari del 1945, che riflettono nell’orientamento pedagogico i principi dell’attivismo di John Dewey. Ho scelto questi frammenti, distanti l’uno dall’altro e anche dalla scuola che si fa oggi, ma sempre attuali e proponibili, che condensano la sapienza di lunghi trattati. Del resto, se vogliamo parlare di educazione civica potremmo risalire fino ai latini o ai greci, consapevoli che il tema è molto antico. Ho l’impressione che le discussioni che stiamo facendo siano nuovissime e vecchissime, e questo vale soprattutto per l’educazione nel suo complesso; nel mondo contemporaneo cambiano le condizioni e gli strumenti dell’apprendimento, inoltre sono mutate certe variabili esterne, tanto che potrebbe apparire nuovo ciò che nuovo non è. Tornando a Comenius (lui sì che era “nuovo” per il suo tempo), scriveva tra l’altro queste parole: “Bisogna perciò provvedere quanto è possibile a stabilire con esattezza l’arte di istillare nell’animo nostro la morale e la devozione vera, e a introdurle nelle scuole affinché queste siano davvero, come sono chiamate, officine d’uomini”5. Nell’ espressione “officine d’uomini”, quali dovrebbero essere davvero le scuole, si avverte la passione del riformatore e anche la dignità di un progetto di formazione dell’individuo capace di forgiare il carattere, le virtù morali, le doti più nobili. Così di seguito: “L’arte di formare i costumi ha sedici canoni principali, dei quali il primo è: Nella gioventù si devono piantare tutte le virtù, senza eccettuarne nessuna”6. In quest’ultimo passo Comenius assegna alla scuola il compito prioritario di coltivare fin dalla più tenera età i sani comportamenti e le doti spirituali, che nella sua prospettiva cristiana vengono a coincidere con le virtù cardinali, oggetto di una successiva trattazione analitica7. Nel titolo del mio intervento ho utilizzato il termine ‘ovvietà’ e anche i passi che ho appena citato sono ovvii, nel senso che per la maggior parte di noi sono discorsi fin troppo ragionevoli e condivisibili. Ma si tratta – a me pare – di enunciazioni apparentemente così ovvie che vengono date per scontate e nessuno si preoccupa di metterle in pratica. Comenius, lo ricordiamo ancora, è quel pedagogista lungimirante che già nel ‘600 prefigurava un modello di scuola pubblica obbligatoria per tutti, quindi è bene rileggerne i testi cercando di apprezzare la visione organica del percorso educativo in tutta la sua modernità.
Veniamo ora ai Programmi di studio per le Scuole Elementari del 19458, emanati quindi prima della stesura della Costituzione e finalizzati alla ricostruzione civile e morale del paese dopo la riconquistata libertà. Sono di una estrema semplicità, apparentemente, e danno indicazioni molto operative; ne ho scelto un passo per mostrare come certe impostazioni (combinare l’istruzione con le istanze civili e morali) siano state ancora una volta predicate nella scuola e da sempre siano trascurate. Si legge nel capitolo “Educazione civile, morale e fisica”: “La scuola, ordinata secondo il sistema razionale della libertà disciplinata, deve svegliare nei fanciulli il senso individuale della responsabilità e destare in essi il bisogno dell’ordine, del rispetto, dell’aiuto reciproco, in breve delle virtù civili, sociali e morali”. Oltre a questi principi generali – chi lo volesse potrebbe ancora oggi tradurli nella realtà scolastica – si davano indicazioni di metodo: si proponeva cioè un modello comunitario di scuola attiva, che non privilegiasse discorsi astratti ma azioni concrete. L’apprendimento avveniva sotto la guida del docente che doveva dare il buon esempio, non a parole ma con i fatti (rispettando le regole, mantenendo l’ordine…), tuttavia l’allievo diventava il vero artefice della sua formazione. Infatti si raccomandava di far lavorare i bambini in maniera costruttiva, in contesti concreti, e di affidare loro compiti di gestione democratica della vita scolastica: “Sarà per questo utilissimo promuovere la spontanea e diretta collaborazione degli scolari nel governo della classe, affidando a gruppi, scelti preferibilmente dagli stessi discepoli, incarichi speciali di pulizia, di ordine e di organizzazione, o lasciando la scolaresca libera di prendere decisioni in merito, anche attraverso le forme del referendum e della vera e propria iniziativa (per esempio: proporre l’attuazione di un particolare lavoro scolastico)”.
Allo spirito innovatore di quei programmi purtroppo non seppe aderire la categoria dei docenti, disabituati nel Ventennio all’esercizio libero di una professionalità consapevole e ancora perlopiù legati agli schemi della scuola gentiliana. È interessante però notare che già allora si prevedevano attività come quelle che si sono realizzate in tempi più recenti in diverse scuole italiane e anche in quelle di Piazza al Serchio, dove funzionavano e funzionano ancora delle Cooperative scolastiche. Grazie a queste forme di organizzazione sociale si impara molto e si costruiscono abilità molteplici, come organizzare una votazione, esprimere una candidatura, partecipare ad un’assemblea, dare una finalità alla società cooperativa: coltivare prodotti, vendere e comprare merci, programmare iniziative, eventi e attività, fare indagini di mercato, redigere verbali, scrivere relazioni e molto altro. Insomma, è bene ricordare che il metodo attivo ed esperienziale dell’imparare facendo veniva già proposto nel lontano 1945 e con esso il principio dell’interdisciplinarità e l’utilità della cooperazione fra coetanei. In conclusione, il fatto che nelle scuole sia opportuno svolgere un’attività che unisca la conoscenza con il senso civico, con il sentimento di appartenenza alla collettività, con la responsabilità, con il rispetto, è ancora oggi un obiettivo tanto condiviso e dato per scontato nella teoria quanto trascurato e sottovalutato nella pratica.
E ora affrontiamo il capitolo dell’efficacia della scuola nella costruzione delle competenze di base del cittadino. Rispetto alle affermazioni di principio fin qui riportate, nella pratica osserviamo risultati molto deludenti. Con questa osservazione in negativo non intendo guardare solo il bicchiere mezzo vuoto, ma mi chiedo se dobbiamo accontentarci di percentuali tanto modeste di successo scolastico: infatti, se un 10% della popolazione studentesca riesce a raggiungere traguardi eccellenti (elaborare un pensiero formale ben strutturato, comporre testi coerenti e argomentare in modo efficace), il restante 90% consegue risultati non altrettanto apprezzabili. Sui livelli di apprendimento degli studenti è bene tener conto delle notizie messe a disposizione dalle Università che stanno accogliendo le ultime leve. Segnaliamo al proposito una ricerca triennale elaborata dall’Università di Bologna che si propone di analizzare la produzione scritta di un campione rappresentativo di almeno 3000 studenti provenienti da varie sedi, al fine di predisporre strumenti didattici atti a rafforzare le competenze linguistiche che siano risultate più deboli nel sondaggio9. Inoltre, uno studio specifico sui temi di maturità ha evidenziato che molti studenti universitari italiani incontrano difficoltà non solo nella scrittura accademica, ma anche nella gestione delle competenze di base, come la coerenza testuale, la grammatica e l’ortografia10. Studi di questo genere nascono dall’esigenza di monitorare, attraverso una solida base statistica e con evidenze scientifiche, una situazione di impoverimento linguistico finora solo percepita. Sappiamo infatti che tanti giovani universitari si segnalano per eccellente rendimento e per creatività, viaggiano in tutto il mondo e ovunque vengono apprezzati, vincono concorsi e borse di studio facendo ricerche di pregio negli atenei. A fronte di una ristretta “avanguardia” studentesca così promettente abbiamo però una percentuale troppo alta – non ancora quantificata – di ragazzi privi di un’adeguata preparazione scolastica, quindi più esposti a lavori precari, allo sfruttamento economico, alla disoccupazione. E ciò significa destinati ad una condizione di svantaggio economico e culturale che finirà per limitarli fortemente nel godimento dei diritti di cittadinanza.
Voglio ancora segnalare un libro che parla del rapporto tra educazione, disinformazione e democrazia, di Mario Caligiuri, professore di Pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria, pubblicato nella scorsa primavera con un titolo eloquente, “Maleducati”11, nel senso etimologico di “educati male, mancanti di corretta educazione”. L’autore fa un’analisi critica della situazione italiana, che dal 1945 risente degli effetti combinati di un deficit di istruzione e di un basso livello di informazione, e lancia delle domande che sono le stesse che si pone questo convegno: cosa succede ad una società nella quale non viene assicurato un adeguato livello di istruzione? Cosa accade ad una persona che manca degli strumenti essenziali per comprendere il mondo? Come si fa a garantire il funzionamento di una democrazia quando chi la abita non è messo nella condizione di poter offrire il suo contributo?
Per dare una risposta concreta a queste domande abbiamo a disposizione dei dati, relativi al mese di settembre, pubblicati dall’Ocse, che forniscono una statistica della situazione educativa nei paesi membri. Osservando questa prima carta tematica, che illustra la distribuzione dei laureati in varie zone dei paesi dell’OCSE nel 2023, notiamo che nei territori dove si addensano i pallini rossi e arancioni abbiamo la più bassa percentuale di laureati. Tale condizione vede coinvolti soprattutto paesi del Mediterraneo come Italia, penisola balcanica e Turchia. In Italia non si supera mai il 30% dei laureati, mentre il nord dell’Europa è abbastanza compatto e presenta percentuali più alte, così come, fuori dall’Europa, l’Australia, il Giappone e la Corea del sud; la Nuova Zelanda invece è più simile a noi per quota di laureati, oltre che per la forma del territorio. Questo è il dato oggettivo, poi si dovrebbe precisare cosa significa nelle varie realtà il diploma di laurea: essere laureati non significa automaticamente essere competenti, ma il titolo rappresenta comunque un indice approssimativo di cui tenere conto.
Un’altra tabella quantifica i cittadini dell’OCSE fra 25 e 34 anni che non hanno conseguito il diploma di scuola secondaria superiore. Si parte dal Sudafrica, che ha oltre il 50% di giovani che in quella fascia di età non hanno il diploma di scuola superiore, e si arriva alla Corea del Sud, dove la popolazione che ne è sprovvista raggiunge appena il 7-8%. Per ogni stato membro vengono accostati e comparati due dati, relativi al 2016 e al 2023, che rilevano una eventuale crescita dei valori nell’intervallo temporale tra le due annate. L’Italia non è fra gli stati più svantaggiati, ma si colloca comunque fra i paesi che hanno un minor numero di diplomati. Pensiamo al punto di partenza di questo intervento: le intenzioni sono buone, le riforme scolastiche danno indicazioni valide, ma se le competenze non vengono ben costruite a livello didattico, traducendosi in buone pratiche, evidentemente qualche conseguenza ne deriverà.
Un altro dato, del 2021, riguarda la spesa per l’università suddivisa per numero di studenti, sempre nei paesi OCSE. Anche in questo caso vediamo che l’Italia si posiziona tra le nazioni che stanziano meno finanziamenti per l’istruzione universitaria. Non è un dato che vale anche per gli altri ordini perché, se controllassimo la spesa erogata per la scuola primaria, vedremmo l’Italia balzare molto più in alto; infatti, in proporzione spendiamo molto per il primo ciclo di istruzione, un po’ meno per la secondaria e molto poco per l’università.
Verifichiamo ora la capacità di lettura, cioè le competenze di base legate alla lettura e comprensione del testo: se guardiamo la rilevazione sulla media Ocse relativa a tutta l’Europa (Andamento nel tempo dei punteggi medi), notiamo un generale peggioramento in tutto il continente, quindi il fenomeno non è solo italiano. Qualcuno afferma che la causa è stata il Covid; ma se è vero che la pandemia può aver contribuito, i dati mostrano che la flessione è cominciata nel 2012 quando l’emergenza sanitaria non esisteva ancora. La disaffezione alla lettura è un problema cronico degli italiani adulti12 e spesso è conseguenza di un addestramento non completo alla lettura nei primi anni di scolarizzazione. In quei primi anni – dai 6 agli 8 principalmente – decisivi per la costruzione delle abilità di partenza, è fondamentale curare la pratica della lettura, intesa come decodifica corretta e veloce dei caratteri di un testo scritto, su un supporto cartaceo o su uno schermo. Questo risultato si può ottenere con un costante allenamento quotidiano che faciliti da una parte una lettura di tipo tecnico (dalle sillabe ai grafemi complessi, alle parole e alle frasi), dall’altra una lettura approfondita ed espressiva fatta per comprendere il testo; apprendimento tecnico ed esercizio logico dovrebbero insomma procedere di pari passo ma in tempi distinti, per far sì che l’automatismo corretto e veloce si consolidi senza essere rallentato dal ragionamento logico. Tenendo appunto distinte le due abilità della lettura veloce e della comprensione profonda, si possono raggiungere sincronicamente una lettura fluida e una riflessione sui significati del testo.
Sulla scrittura abbiamo pochi dati e di fonti diverse. Abbiamo fra l’altro a disposizione le prove Invalsi, somministrate nelle classi ogni anno a partire dal 2005-2006, che hanno messo in luce difficoltà significative nell’area della scrittura. Molti studenti italiani faticano a strutturare testi in modo logico, a rispettare le regole grammaticali e ad esprimere concetti complessi con chiarezza. Gli studenti spesso risultano incapaci di argomentare in modo articolato e preciso, mostrando una competenza limitata nella produzione di testi sia argomentativi sia espositivi13. Anche l’indagine PISA (Programme for International Student Assessment) condotta dall’OCSE, conferma che gli studenti italiani presentano competenze di scrittura inferiori alla media europea14.
Si tratta di informazioni disponibili da tempo e sempre confermate, che parlano di un settore di vitale importanza da troppo tempo avvolto nel torpore, che non trova una via d’uscita dalla crisi che lo paralizza; sembra caduta nell’indifferenza generale pure la possibilità di tentare la risalita, studiando attività didattiche efficaci e in molti casi ormai testate. Può essere utile la lettura di un testo (J. Hattie, Apprendimento visibile, insegnamento efficace) che passa in rassegna quindici anni di ricerca relativa alla sperimentazione di metodi, strategie e tecniche efficaci per potenziare l’apprendimento in classe15. Un tale spiegamento di esperienze e di buone pratiche dovrebbe aver lasciato delle tracce positive e molti seguaci. Eppure già negli anni 2003-2004 la Ministra Moratti segnalava la crisi del sistema a tutti i docenti riuniti in un’assemblea nazionale on line. Allora i dati raccolti riguardavano i ragazzi di 14-15 anni e oltre alla lettura e scrittura si registravano livelli bassi nella matematica, disciplina che oggi ha recuperato terreno; tanto che la Ministra proponeva come rimedio di lavorare più a fondo sui ragazzi di quella stessa fascia di età, trascurando il fatto che le carenze nella lettura/scrittura/calcolo rilevate intorno ai 15 anni erano da mettere senz’altro in relazione con problematiche ben precedenti. Io credo che di fronte a dati come questi, resi pubblici da molto tempo, sia intervenuta una specie di sordità che ha impedito di affrontare i problemi con la dovuta attenzione. Di conseguenza, una percentuale significativa della popolazione sta crescendo in una povertà educativa preoccupante. Non è un discorso che vale per tutti: esistono ragazzi che vanno bene, e sono quelli che andrebbero bene in ogni condizione della scuola; ci sono insegnanti che riescono a dare moltissimo, lavorando con personalità, energia e competenza. In compenso ci sono situazioni di difficoltà che sembrano resistenti ad ogni modifica.
Sul versante dei genitori, mi pare che da parte di alcuni ci sia un atteggiamento controproducente per cui non vogliono sentirsi dire che il figlio non va bene a scuola, preferendo ignorare il problema piuttosto che prenderne atto e collaborare con i docenti al superamento delle lacune. La mancanza di dialogo genera sfiducia e una sostanziale incomprensione nei rapporti scuola-famiglia, di fronte alle quali non pochi insegnanti reagiscono in modo uguale e simmetrico. Quel ch’è peggio, noto che una parte dei docenti, spero minoritaria, tenta di risolvere i problemi didattici con un aggiustamento dei voti al rialzo per accontentare i genitori e tacitare ogni protesta.
Tornando ai programmi del ’45, insisto a dire che sono stati estremamente innovativi e varrebbe la pena di resuscitarli. Leggendoli attentamente si apprezza anche il fatto che hanno anticipato il tema della personalizzazione e hanno messo in evidenza il pericolo del livellamento delle classi. Per l’apprendimento della lettoscrittura, ad esempio, non veniva prescritto un particolare metodo, ma si raccomandava di tenere sempre sotto controllo il progredire di tutti gli alunni, anche con l’organizzazione di gruppi omogenei, senza pretendere di livellare la classe. Ecco un altro pregiudizio che ha penalizzato il nostro sistema scolastico: quello di ritenere che tutti i ragazzi dovessero raggiungere gli stessi obiettivi attraverso un insegnamento standardizzato, come se nella classe non esistessero livelli diversi di partenza, stili cognitivi e tempi di apprendimento differenti. Ebbene, i programmi Washburne prevedevano già che l’insegnante gestisse le attività finalizzandole ad ogni alunno in base alle sue capacità, caratteristiche e necessità, senza ‘appiattire’ la classe su di un unico livello. Eppure le neuroscienze e la psicologia cognitiva, col far emergere le basi organiche dell’apprendimento, stanno gradualmente smantellando molti dei preconcetti che hanno ostacolato un rinnovamento complessivo della mentalità in chi lavora nella scuola.
Un altro aspetto che a mio avviso andrebbe corretto è la valutazione dell’impegno. Il fatto che uno studente si impegni è positivo, perché è un indizio di serietà e costanza che meriterebbe una voce distinta, un indicatore a sé nella scheda di valutazione, da inserire nel voto in condotta. Se io mi impegno nella matematica ma non so nulla della materia, non devo prendere otto solo perché mi applico allo studio con serietà. Nella scuola capita sovente che si scambi l’impegno con i risultati, premiando il primo a scapito dei secondi, oppure al contrario sanzionando lo scarso impegno con un voto basso che penalizza le doti intellettive dello studente: ad es. se un ragazzo ha un’intelligenza vivace ma non ha nessuna voglia di studiare, allora gli diamo un voto inferiore rispetto a quanto meritato. Neanche questo fenomeno, torno a dire, è diffuso in tutti gli ambienti e fra tutti i docenti, ma si avverte a livello nazionale e si aggiunge all’insieme delle piccole cose che tolgono credibilità alla scuola.
In conclusione, con questo discorso ho voluto dire che la volontà dell’educare l’uomo e il cittadino è presente da sempre nella scuola, ma non siamo riusciti davvero a declinarla, calandola nella didattica in modo efficace e percentualmente significativo. E soprattutto, quello cui stiamo assistendo ora è un progressivo peggioramento delle competenze di base. L’apprendimento risulterà facilitato se l’alunno sarà messo nella condizione di procedere negli apprendimenti a piccoli passi e per gradi di difficoltà crescente, scalando le tappe di un curricolo verticale ben strutturato16. L’opinione generalmente diffusa è invece quella di considerare prioritaria la costruzione del pensiero formale (imparare a ragionare) senza vedere la necessità di rafforzare le competenze di base della lettoscrittura. Sarebbe come, per fare un esempio concreto, se volessimo imparare a guidare un’automobile cominciando dalle tecniche complesse della guida sportiva invece di prendere confidenza con i pedali, il cambio, il volante. Trascurare le competenze di base è come costruire un edificio su fondamenta deboli e i risultati sono già evidenti, come ci confermano i dati più aggiornati. Dal 1945 ad oggi, le varie riforme e indicazioni ministeriali non hanno prodotto i risultati attesi: da una parte le politiche educative non hanno accompagnato e coordinato adeguatamente il processo di rinnovamento e, dall’altra, gli operatori della scuola in generale non hanno avvertito l’urgenza del cambiamento, reso ancor più necessario da una rivoluzione tecnologica che chiede professionalità, abilità e requisiti nuovi.
Un fatto è certo: sulle basi della formazione scolastica tutti dovrebbero avere ormai un’opinione chiara, un’impostazione metodologica seria, invece i responsabili dell’educazione, contro ogni regola di buon senso, non hanno ragionato abbastanza a fondo sulle fondamenta dell’edificio. È quello che abbiamo chiamato “ovvietà trascurata”. Ma se accettiamo che le competenze di base, già così depresse, crollino ulteriormente fino al punto da cui sarebbe poi difficile risalire, possiamo prevedere che nei prossimi anni solo una piccola percentuale di persone riuscirà a costruire quelle conoscenze che sembrano scontate ma che consentono una partecipazione pienamente responsabile alla vita sociale e civile.
– Questo articolo è tratto da Quaderni di Storia, antropologia e scienze del linguaggio, n. 20, 2G Print Lab Roma che raccoglie gli Atti del Convegno tenutosi a Piazza al Serchio (Lu) – 28 settembre 2024
Note
1 E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.
2 MIM, Linee guida per l’insegnamento trasversale dell’educazione civica, D.M. n.183 del 7 settembre 2024. Il decreto richiama la Legge 20 agosto 2019, n. 92 (Introduzione dell’insegnamento scolastico dell’educazione civica) e le precedenti Linee guida adottate in via di prima applicazione con D.M. 22 giugno 2020, n. 35.
3 Introdotta con la L. 59/1997 (riforma Bassanini) art. 21 e regolamentata dal D.P.R. 275/1999.
4 J.A.Komenský (Comenius), Didactica Magna, 1628-1632 (versione latina del 1638). Lo stesso autore raccolse i suoi scritti didattici in Opera didactica omnia, 3 voll., 1637.
5 Qui si rinvia alla traduzione italiana: G.A.Comenius, Didattica magna, Remo Sandron Editore, Milano-Palermo-Napoli, 1924, p. 280.
6 Ivi, p. 281.
7 Ivi, cap. XXVIII (“Disegno della scuola materna”), par. XIX, pp. 336-338. Alla scuola materna Comenius affida la prima costruzione dell’etica.
8 D.M. 9 febbraio 1945 e D.L. 24 maggio 1945, n. 459. Alla stesura dei nuovi Programmi collaborò il capo della Commissione alleata, colonnello Washburne, pedagogista fautore della scuola di John Dewey.
9 Il progetto UniverS-ITA, Università di Bologna, 2024, rappresenta il primo tentativo di studiare la lingua degli studenti e delle studentesse universitari/e su solide basi statistiche e in un quadro unitario che integri le prospettive tipologica, sociolinguistica, sociologica e didattica. La convergenza di tali prospettive sarà possibile grazie alle competenze trasversali alle quattro unità.
10 E. Biffi, M. Chimienti, Competenze linguistiche degli studenti universitari: uno studio sui testi scritti, Università di Bologna, 2019.
11 M. Caligiuri, Maleducati. Educazione, disinformazione e democrazia in Italia, Luiss University Press, Roma, 2024.
12 G. Solimine, L’Italia che legge, Laterza, Bari-Roma, 2010. Cfr. anche Solimine, Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia, Laterza, 2014.
13 Il Rapporto Prove INVALSI 2024, consultabile on line, nelle conclusioni ci dà queste informazioni sugli esiti del primo ciclo d’istruzione: “Per le prove di Italiano e Matematica nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado si assiste a un complessivo stallo dal 2021, dopo un netto calo rispetto ai dati precedenti all’emergenza da Covid-19. Se, da un lato, ciò può essere interpretato come segnale di un’incidenza pandemica con effetti più contenuti rispetto alle sue prime fasi, dall’altro lato denota la fatica del sistema a trovare soluzioni efficaci nel medio-lungo termine per poter tornare a valori pre-pandemici”. Nello stesso rapporto si sottolinea ancora una volta il divario tra Nord e Sud (talvolta tra Nord, Centro e Sud) e l’elevato rischio di dispersione scolastica, soprattutto nelle regioni meridionali. Cfr. anche il Rapporto Prove INVALSI 2023: Le competenze degli studenti italiani.
14 Vedi Risultati di OCSE PISA 2018 (https://www.invalsiopen.it/risultati-ocse-pisa-2018/) e 2022 (https://www.oecd.org/en/about/programmes/pisa/pisa-publications.html). Per l’anno in corso cfr. OECD, Education at a Glance 2024: OECD Indicators, OECD Publishing, Paris.
15 J. Hattie, Apprendimento visibile, insegnamento efficace. Metodi e strategie di successo dalla ricerca evidence-based, Erickson, 2016.
16 Comenius, Didattica magna, op.cit., scrisse pagine fondamentali sul rispetto della gradualità dell’apprendimento, sulla necessità di procedere adeguandosi alle capacità degli allievi, sull’esperienza diretta delle cose attraverso i sensi, sul fatto che non bisogna insegnare le parole staccate dalle cose. Sottolineò l’importanza di salire per gradi dal semplice al complesso, ad imitazione della natura: “La natura non fa salti, ma va avanti gradatamente” (Fondamento VII, p. 185). Principio che applicò anche alla stesura dei suoi manuali di latino: diceva di aver inventato una scaletta, sui gradini della quale si può salire, senza cadere e senza provare vertigini, dai rudimenti della lingua fino alla piena padronanza.