
di Donato Salzarulo
DEDICA PER LA DOTTORESSA E CHIAVI DI LETTURA PER LEOPARDI
Giovedì mattina, verso le nove, la dottoressa Secci viene a salutarmi. Oltre a ringraziarla, le regalo il libro e le scrivo sotto i suoi occhi la dedica: «Alla dott.ssa MARTA SECCI che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita. Grazie alla sua viva intelligenza, alla sua curiosità, alla sua generosità e alla sua umanità. Con profonda stima.»
Scrivo con una penna biro e senza occhiali. Dopo la rimozione della cataratta all’occhio sinistro vedo molto bene da lontano, non altrettanto da vicino. La grafia è un po’ esitante. Lei è contenta e sorride.
Se ne avessi bisogno, le chiedo se può visitarmi privatamente. Mi risponde di no perché è una specializzanda. Mi lascia l’indirizzo di posta elettronica dell’ospedale e ci salutiamo.
Giovedì, quando lei arriva, ho già fatto tutte le abituali operazioni mattutine. Mi risulta strano, però, il fatto che, ancora a letto, prima dell’alba, l’infermiera passa a farmi un prelievo.
«Ma oggi devo essere dimesso. Perché mi fate questo prelievo?»
«Non lo so. Io faccio ciò che mi ordinano di fare».
Rimango in silenzio.
Dopo aver salutato la dottoressa, giro per il corridoio. Nessuno sa niente delle mie dimissioni. Telefono a Giuseppina in attesa di mie notizie per sapere a che ora venirmi a prendere. «Cara, ho l’impressione che il giovedì, lo trascorrerò ancora qui.» Infatti. Quando il dottore, in divisa bordeaux, passa a visitarmi, ne ricevo conferma.
Giovedì diventa un’altra giornata di ricovero da vivere. Non ho, purtroppo, i giornali di mercoledì. La moglie non è venuta. Dovrei tornare sulle pagine di quelli di martedì e non ne ho nessuna voglia. Non ho più neppure il computer. Allora mi arrangio con il cellulare. Navigo un po’ fra i miei siti preferiti.
Su “La letteratura e noi” trovo un articolo su Leopardi di Roberto Contu. Titolo: «”Segno di grandezza e nobiltà”. Giacomo Leopardi oltre gli automatismi didattici». Mi abbandono senza ritegno al piacere dei pensieri.
Gli “automatismi didattici” sono quelle formule per cui se evochi Machiavelli pensi subito al “fine che giustifica i mezzi”; Pirandello, invece, è “quello delle maschere”. Leopardi è quello dello “studio matto e disperatissimo”, del “pessimismo storico e cosmico”, e così via. Contu sa che gli adolescenti amano il grande poeta recanatese. Vorrebbe, però, che si andasse oltre le formule invalse nella scuola. Sul piano biografico vorrebbe che non si riducesse Leopardi alla sola dimensione della sofferenza, delle disgrazie fisiche, delle famigerate due gobbe, del “tutto il resto è noia”, ecc. Da qui la proposta di «un utilizzo a più largo respiro dei testi biografici» e richiama la «bella e comunque nota lettera a Paolina da Pisa, nella quale emerge uno sguardo sereno sul presente, attaccamento alla famiglia, senso di rinascita». Oppure «si pensi anche a un documento meno noto e di certo non canonico come la lettera al fratello Carlo da Roma del 6 dicembre 1822, che nella sua schiettezza mostra un Leopardi che ha sempre avuto poca cittadinanza nella vulgata scolastica ma che avrebbe se non altro il merito di disincrostare certi ritratti a una dimensione». Il brano della lettera, che Contu riporta, parla delle difficoltà di approcciare le donne romane.
Oltre allo slargamento e rinnovamento del racconto biografico leopardiano, occorrerebbe porre maggiore attenzione anche sulla partecipazione del giovane recanatese alle polemiche della fine degli anni Dieci, quelle sul classicismo / anticlassicismo.
Il nostro poeta si inseriva con veemenza e vitalità in uno dei dibattiti culturali più significativi di quegli anni. L’impressione che se ne ricava è di avere di fronte «tutt’altro che un recluso dei libri, appiattito dal tedium vitae dell’esclusione, una sorta di hikikomori ottocentesco, quanto un giovane che pur nella penuria della rete comunicativa era riuscito a far risuonare la propria voce tanto in alto da non poter essere ignorata.»
Il più ingombrante automatismo didattico che andrebbe aggredito e superato è quello del pessimismo (termine del tutto assente nei testi leopardiani). Sotto questo profilo appare necessario «un approccio più complesso e meno dicotomico al rapporto tra ragione e natura, tra felicità e illusioni che sono poi i veri temi di questa annosa e abusata questione.» Da qui la necessità di avvalersi maggiormente di quel “cantiere a cielo aperto che è lo Zibaldone”, ma la strada più diretta «sarebbe forse quella di prendere realmente in carico la questione del materialismo leopardiano, della sua genealogia», ricostruendo «il filo rosso che lega Leopardi ai maestri che l’hanno preceduto in tal senso (da Tasso a Machiavelli, da Galileo a Foscolo), e nel nostro caso, a quello che può essere considerato il capostipite di questa genìa, ovvero Lucrezio».
Assai interessanti diventano, a questo punto, i confronti che Contu effettua tra alcuni passi della lirica di Leopardi e il De Rerum Natura di Lucrezio, nella recente e meravigliosa traduzione di Milo de Angelis. Li riprendo tutti perché più circolano, meglio è.
Ecco alcuni celebri versi del Canto notturno:
Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato
Questi, invece, sono i versi tratti dal libro V (222-227) del De Rerum Natura
E il bambino? È come un naufrago gettato su una spiaggia
dalla furia delle onde. Resta lì per terra, nudo, senza una parola,
non sa fare nulla da solo, ha bisogno di tutto. Appena la natura
lo strappa tra mille sofferenze dal grembo materno e lo getta
sulle spiagge di luce, riempie l’aria con le sue urla disperate,
come è giusto che sia per uno destinato a sventure di ogni genere.
Questo è un famoso pensiero (LXVIII) leopardiano:
Il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, della terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana.
Questo pensiero si può accostare a quest’altro passo del Libro III (1053-1059) dell’opera di Lucrezio:
D’altra parte gli uomini sentono di avere nel profondo
del loro cuore un peso che li schiaccia, un peso estenuante
ma non riescono a capire il motivo di questo tormento,
di questo macigno maledetto che continua a opprimerli.
Se gli uomini lo capissero, non vivrebbero in questo modo,
ignorando per lo più quello che vogliono, continuando
a cambiare luogo, come se così potessero disfarsi del loro peso.
L’ultimo esempio di calco che Contu richiama riguarda la celebre sentenza del Canto notturno:
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell’esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors’altri; a me la vita è male.
Questa sentenza può essere accostata ad un altro memorabile passo del Libro III del De Rerum Natura:
Così ciascuno tenta di fuggire da se stesso. Ma non può farlo,
e a questo “se stesso” resta attaccato suo malgrado e lo odia:
è un malato che non conosce il motivo del suo male.
Se lo vedesse con chiarezza lascerebbe tutto il resto
e si impegnerebbe innanzitutto a conoscere la natura delle cose:
c’è di mezzo l’eternità, non il breve spazio di un’ora,
quell’eternità nella quale i mortali dovranno trascorrere
tutto il tempo che resta da vivere dopo la loro morte.
Grazie a quest’ottimo articolo l’immagine di Leopardi ai miei occhi si fa indubbiamente più prismatica.
Leggo volentieri anche i commenti e mi trovo d’accordo con quello di Eros Barone che scrive: «ritengo che il nostro paese sarebbe migliore se il grande poeta nazionale, il poeta che tutti amano dopo e nonostante la scuola, fosse (anche) Manzoni e non (soltanto) Leopardi.»
Sono d’accordo con lui. L’anno scorso ho dovuto condurre col mio amico Arminio una vera e propria opera di convinzione per poter parlare di Manzoni al Festival “La luna e i calanchi” di Aliano.
Per punzecchiarlo, gli recitai più volte i versi di Patrizia Valduga, tratti da Corsia degli incurabili:
Sì sì! tenetevi la vostra luna!
Il gobbo l’ha talmente sputtanata
che non vederla più è una fortuna.
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai?
Tu senti che domanda scriteriata…
Povera luna, che ha da fare mai?
Tutti gli adolescenti segaioli,
con l’acne che gli dà le depressioni,
adorano Leopardi, lune e duoli,
adorano se stessi, pelandroni…
Io preferisco Pascoli e Manzoni.
E con questa simpaticissima poesia di Valduga, posso andare a mangiare: lenticchie, cicoria lessata (da condire) e mela.