Nel tunnel di metà settembre (14)


di Donato Salzarulo

SIMONE WEIL, IL SOGNO SU MIO PADRE E GAZA LASCIATA SOLA

Post prandium aut stare aut lento pede deambulare. Molte volte ho sentito ripetere dal mio amico Michele questa locuzione latina della scuola medica salernitana. Allora passeggio lentamente in corridoio. Do un’occhiata al paesaggio urbano dal soggiorno e, dopo tre giri, mi stendo con la vestaglia sul letto. Tiro un po’ su lo schienale e riapro il libro di Giancarlo Gaeta sul cristianesimo alla svolta dei tempi. Sono al capitolo «Simone Weil, anomalia di una conversione.»
Ho cercato spesso di fare amicizia coi libri e i pensieri di questa filosofa francese, di origine ebraica. È la sua biografia che mi attrae, quel suo modo di vivere i problemi degli operai, dei contadini, dei poveri, degli sventurati. Insegnante di filosofia, divideva il suo stipendio coi disoccupati. Poi decide di lasciare l’insegnamento e di lavorare in alcune fabbriche metallurgiche di Parigi per comprendere, sulla propria pelle, la condizione operaia. Partecipa alla guerra civile spagnola e alla resistenza antinazista. Ammalatasi di tubercolosi, muore a solo 34 anni.
Dopo una visita ad Assisi e un soggiorno nell’abbazia benedettina di Solesmes, Simone approfondisce la sua esperienza cristiana. Infatti, nella sua «Autobiografia spirituale», sostiene di essere rimasta, fin dalla nascita, sempre all’interno di questa esperienza.
Da qui il problema che Gaeta si pone: Weil si è mai convertita al cristianesimo? E se si, che tipo di conversione è stata?
Sicuramente non è stata una conversione «nell’accezione agostiniana di azione trasformatrice della grazia, tale da determinare un netto salto di qualità da una vita nel peccato ad una vita rigenerata nella verità della rivelazione cristiana» (pag. 195).
Proprio perché Weil afferma di essere rimasta sempre all’interno di un’ispirazione cristiana; questo anche senza porsi il problema dell’esistenza di Dio, dal momento che, a suo parere, mancano i dati per risolverlo e, comunque, la sua risoluzione è inutile.
Il nostro compito, secondo Weil, è «adottare l’atteggiamento migliore nei riguardi dei problemi di questo mondo» (pag. 196). Seguire i comandamenti rappresenta per lei un impulso interiore a cui non è lecito sottrarsi «anche se ordina di fare cose impossibili». Illuminante questo suo passo dei «Quaderni»:
«L’espressione dei comandamenti di Dio nei testi sacri non è data che come oggetto per l’attenzione. Ma vi è propriamente comandamento solo a partire dal momento in cui un’eco risponde loro nel cuore, vale a dire un impulso.» (citazione in nota a pag. 196).
Per la filosofa e mistica «non c’è discontinuità tra i vertici della sapienza dell’antichità precristiana e l’evangelo; al contrario la vocazione cristiana discende dalla vocazione greca e la conduce a perfezione grazie all’incarnazione, in cui “l’idea di mediazione ricevette la pienezza della realtà”» (pag. 197).
La grazia non crea una frattura nell’esistenza dell’individuo perché l’errore è caratteristico della condizione umana. Egli, comunque, potrà attingere alla verità, se fa tutto il possibile per volgersi verso di essa.
Questa è la scoperta fondamentale di Simone Weil:
«la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue facoltà naturali sono quasi nulle, penetra in questo regno della verità riservato al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d’attenzione per attingerla.» (pag. 197).
È opportuno notare che Weil parla di desiderio di verità. Verità che comprende anche «la bellezza, la virtù e ogni specie di bene» (pag. 197). Se ogni persona, desiderandolo, può volgersi verso la verità-bene, la conversione appare nella vita di Simone Weil come «un lungo processo di formazione interiore saldamente orientato verso la conoscenza.» (pag. 198) Una conoscenza da conquistare con il corpo e con la mente. Così è «sotto il segno della Croce» che si apre per lei «una dimensione ulteriore del reale, percepita attraverso la sventura subìta e accolta» (pag.199).
Il contatto con un misero villaggio di pescatori portoghesi nel 1935 è per lei sconvolgente:
«Le mogli dei pescatori andavano in processione intorno alle barche con dei ceri in mano, e innalzavano canti sicuramente molto antichi, di una tristezza straziante. Non vi è nulla che possa darne un’idea…Là ho avuto all’improvviso la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro.» (pag. 199)
Gaeta ritiene questo episodio rilevante per due aspetti:
«Simone Weil percepisce la forza operante della fede cristiana in persone che accomuna a sé in qualità di sventurati; d’altra parte intuisce che la fede cristiana è in rapporto indissolubile con la sventura, in particolare con la sventura della degradazione sociale, al punto che d’ora in poi il cristianesimo le apparirà “per eccellenza la religione degli schiavi”» (pag. 199-200)
Verso la fine del 1938 Simone Weil, in una situazione di grande sofferenza fisica, sperimenta un incontro con Cristo e fa un’esperienza mistica della realtà personale di Dio. Ciò ha indubbiamente un peso considerevole nella successiva, intensa riflessione religiosa, il cui motivo dominante sarà la ricerca dell’uomo da parte di Dio:
«Nel Vangelo non si parla mai, salvo errore, di una ricerca di Dio da parte dell’uomo: in tutte le parabole è il Cristo che cerca gli uomini, ovvero il Padre li fa condurre dai suoi servitori. Oppure un uomo trova come per caso il regno di Dio e allora, soltanto allora, vende ogni cosa» (pag. 200)
La fede è adesione al movimento di discesa di Dio nella creatura. Se è vero questo, per Weil, la riflessione religiosa deve concentrarsi su questo rapporto d’amore.
Pertanto credere non significa per lei accettare obbligatoriamente i dogmi nella loro formulazione ecclesiastica. I misteri cristiani – la Trinità, l’Incarnazione, la Redenzione, l’Eucarestia, i sacramenti, gli insegnamenti evangelici – rappresentano per lei delle espressioni essenziali della verità perfetta e inesauribile. Verità di cui le «altre religioni hanno indubbiamente colto altri aspetti o gli stessi che il cristianesimo ha espresso nella forma più alta». Non per questo il cristianesimo «può identificarsi con la Verità, che è una persona, il Cristo, non una dottrina e tanto meno un’istituzione.» (pag. 201-202).
La verità trascende i confini di qualsiasi confessione religiosa. Per questo Simone Weil non entrò nella Chiesa; non entrò anche perché la concezione tradizionale dell’universalismo cristiano taglia fuori molte realtà:
«Tutta l’immensa distesa dei secoli passati, eccetto gli ultimi venti; tutti i paesi abitati da razze di colore; tutta la vita profana nei paesi di razza bianca; e nella storia di questi ultimi, tutte le tradizioni accusate di eresia, come la tradizione manichea e quella albigese; tutto ciò che il Rinascimento ha prodotto, troppo spesso degradato ma non completamente privo di valore.» (pag. 203)
In conclusione per Simone Weil: «Non c’è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l’errore. Non: ciò che non è cristiano è falso; ma tutto ciò che è vero è cristiano.» (pag. 203).
Lo spirito di verità è sempre operante. Occorre desiderarlo e riconoscerlo.

Sto lì a ripassare mentalmente il capitolo di Gaeta sull’anomala conversione di Weil per interiorizzarlo, quando vedo apparire sulla porta della camera mia moglie e mia sorella.
È arrivata l’ora dei parenti. È arrivata senza che neanche me ne accorgessi. Se non si può conversare, leggere è quasi sempre un ottimo modo per trascorrere il tempo ed entrare nei pensieri prodotti da altri.
Mi piacerebbe investire Giuseppina e Tina con una veloce sintesi dell’esperienza di Weil, ma sarebbe una violenza. Perciò preferisco parlare d’altro, preferisco che mi raccontino la loro giornata di ieri a Pavia, i momenti commoventi della proclamazione di Francesca a dottore, come con formula ufficiale scandiva la presidentessa della commissione. Cominciano a raccontare e, mentre raccontano, arrivano le figlie, arriva Giuseppe e faccio gli auguri alla mamma e al papà della laureata; il racconto diventa corale. Ognuno o ognuna ha da precisare, formulare, riformulare, aggiungere qualcosa all’avvenimento. Bellissima. È stata una bellissima giornata. Memorabile. Peccato che io non abbia potuto partecipare.
«Babbo, però, adesso che esci andiamo al ristorante. Andiamo a festeggiare a quell’agriturismo dalla parte di Rodano, dove andammo l’anno scorso per il compleanno della mamma. È un bel luogo. Non costa neanche molto.»
«Sì, tesoro, non preoccuparti…».
Un’ora passa veloce. Piano piano i familiari cominciano a salutarmi. Tina va via con Michela e Giuseppe. Lucia ha la macchina. Giuseppina anche. Ma lei rimane con me. Lei mi fa compagnia mentre ceno, e mi saluta prima che scenda il buio della sera.

Rimasto solo, prendo i giornali che mi ha lasciato sul comodino. Ma prima di sfogliarli, mi ripeto mentalmente le proposizioni fondamentali del capitolo letto e riletto su Weil:
L’esperienza di Weil non è stata caratterizzata da una conversione agostiniana.
Lei si è sentita fin dalla nascita all’interno di un’ispirazione cristiana.
Per quanto filosofa, non ha pensato che per credere fosse prioritario porsi il problema dell’esistenza di Dio. Per lei non è un problema risolvibile e, se anche lo fosse, la sua risoluzione sarebbe inutile perché è fondamentale affrontare i problemi del mondo.
Nei confronti dei testi sacri e dei comandamenti non occorre avere un atteggiamento di obbedienza formale o intellettuale. Conta più l’impulso, il fatto che, una volta letti, abbiano un’eco dentro di noi.
Tra la filosofia greca, la sapienza pre-cristiana e quella cristiana non c’è discontinuità, ma approfondimento. Il cristianesimo col concetto di incarnazione introduce un elemento fondamentale nel rapporto tra essere e divenire, tra mondo delle idee e realtà. L’approfondimento nei confronti del cristianesimo da parte di Simone si verifica con l’episodio del villaggio portoghese. È un episodio fondamentale perché le permette di comprendere come il cristianesimo sia legato alla sventura, alla sofferenza, sia la “religione degli schiavi”.
L’esperienza mistica dell’incontro con il Cristo. Il desiderio di verità. La nostra condizione è quella dell’errore.
Non sono le persone che cercano Dio, ma Dio che cerca le persone. Questo è il rapporto d’amore.
Il desiderio di verità non si soddisfa abbracciando una dottrina o entrando in un’istituzione, ma incontrando Cristo. Egli è la verità. Il cristianesimo non può identificarsi con la verità. Questa è perfetta e inesauribile. L’universalismo cristiano non può definirsi tale se esclude tutta la sapienza pre-cristiana, l’esperienza di altre religioni, le tradizioni eretiche, il Rinascimento, i non credenti.
Dopo questo ripasso mentale, rimetto i giornali sul comodino, e vado fare una bella passeggiata in corridoio. Nel soggiorno forse incontrerò una donna assai intelligente e gracile, con i capelli corti e folti, divisi da una riga in mezzo alla testa, con gli occhialini rotondi sul volto.

La notte di giovedì sogno mio padre. È in canottiera bianca e pantalone marrone scuro. Si sta vestendo. È nella casa di Bisaccia, quella di via Vescovado, dove ho trascorso la mia fanciullezza, la mia adolescenza e parte della mia gioventù. Precisamente è nel sottano. Io arrivo, proveniente non so da quale viaggio, mi affaccio sulla soglia della porta e lo saluto. Lui mi risponde sorridendo col suo baffetto. Scendo le scale e ci salutiamo. In un angolo vedo la camicia che deve indossare. Ha un fondo di colore azzurro con foglie verdi e margherite bianche. È una camicia che dubito possa indossare mio padre. Infatti è per me fonte di prolungata meraviglia. Parliamo. Sembra che io sia arrivato lì per prenderlo e partire insieme verso Milano. «Aspetta», mi dice, «dovrebbe arrivare anche tuo fratello». Da dove non si capisce. Il sogno finisce così. Apro gli occhi e, oltre la vetrata, vedo la fascia di luce del giorno che sta arrivando. Il sogno era piacevole, non mi ha turbato.
Sto in ospedale, domani sarò dimesso. Al momento, mi sono salvato. I due cari morti vogliono che li porti con me. È strano che non si sia fatta vedere anche mia madre. Io tutti li porto con me, io sono il loro ponte tra il regno dell’invisibile in cui sono finiti e il visibile in cui, pur con gli acciacchi, io ancora m’aggiro. Mio padre, mio fratello, mia madre sono gli sventurati che, insieme a tantissimi altri, Weil avrebbe difeso.
Ho vissuto più di una settimana con un compagno di stanza che portava sulle sue spalle la croce del Calvario. L’ho tenuto sempre d’occhio. Anche mentre cercavo compagnia nei pensieri di altri morti o di altri vivi, più o meno famosi. Ho fatto del mio meglio per parlargli, per scrutarne i bisogni che poi erano quelli, facilmente immaginabili, della pulizia, del nutrimento, del restare a letto coperto, del non cadere attaccandosi alla sbarra. In compagnia di morti o di semivivi, il delirio del dramma amoroso della prima e della seconda notte mi appariva come un segno profondo di vita. Una storia d’errori, un desiderio profondo di verità.

Rileggendo in questi giorni ciò che ho scritto in autunno, non posso non pensare alle guerre in corso e, soprattutto, a ciò che sta succedendo a Gaza.
Su La Repubblica del 24 marzo Rita Baroud, una giornalista di 22 anni, che tiene sul quotidiano un suo Diario da Gaza, ha scritto il pezzo che di seguito riprendo, con commossa partecipazione e umana fraternità.

A NOI INSEGUITI DALLA MORTE RESTA IL SILENZIO

Non c’è più alcun sogno qui – le cose più amate sono svanite, nessuna voce resta per esprimere i nostri desideri.
Quando abbiamo cercato, tutto ciò che abbiamo trovato erano minacce e singhiozzi soffocati.
Quale sogno potrebbe mai restare, ora che siamo dinanzi a questa totale vacuità?
Resistiamo alla disperazione con il silenzio, resistiamo al desiderio con il silenzio, e al silenzio resistiamo con altro silenzio.
Massacri senza fine e un popolo sepolto vivo sotto le macerie del silenzio.
Sopravvivere è divenuto lotta – persino illusione.
Sopravvivere è impossibile, la morte giunge in molte forme.
La scena a Gaza oggi è puro tradimento.
Un popolo assediato, esausto, affamato, braccato – anche mentre fugge la morte.
Ogni angolo di questa terra grida e ogni bambino porta negli occhi una sola domanda:
Perché siamo lasciati soli?



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