
di Anna Leone
Nei dintorni di Fortini. Un libro di Ennio Abate sulla memoria e il conflitto
Analizzare un libro come Nei dintorni di Franco Fortini. Letture e interventi (1978-2024), Edizioni Punto Rosso, 2025 di Ennio Abate significa confrontarsi con un’opera che è insieme testimonianza, diario intellettuale e esercizio critico. Non un semplice omaggio a Fortini, ma un corpo a corpo con la sua figura, un’esplorazione delle contraddizioni che il poeta, saggista e intellettuale marxista portava con sé e che lo hanno reso una presenza ineludibile per chiunque si sia interrogato sulla funzione della letteratura e della politica negli ultimi decenni.
Un libro di attraversamenti
L’idea di “dintorni” è la chiave interpretativa più feconda del libro. Abate non si limita a ricostruire la figura di Fortini, ma lo osserva da prospettive multiple: da lettore appassionato e militante di periferia, da interlocutore polemico, da poeta che, pur condividendo alcune tensioni fortiniane, se ne discosta per sensibilità e per biografia. Il libro raccoglie riflessioni, interventi critici, testimonianze e documenti che coprono un arco temporale vastissimo, dal 1978 al 2024, in un continuo lavorio di lettura e riscrittura, un metodo che Fortini stesso avrebbe approvato.
La struttura segue un’organizzazione tematica: dagli incontri con Fortini nella Milano degli anni Ottanta (Un filo tra Milano e Cologno Monzese), ai saggi sulla sua poesia e critica letteraria (Per rubare bene le ciliege), ai contrasti con altri intellettuali (In dialogo e in polemica). Ampio spazio è dato alla riflessione sulla polis e sullo smarrimento della sinistra, fino agli ultimi omaggi poetici e al ritratto della moglie Ruth Leiser. L’impressione è quella di un movimento centrifugo, in cui ogni capitolo si collega agli altri per echi e rimandi, creando una mappa complessa del pensiero fortiniano e del suo impatto.
L’intellettuale periferico e il “maestro a distanza”
Uno degli assi portanti del libro è il concetto di periferia. Abate non è mai stato un intellettuale organico, non ha fatto parte delle élite culturali e accademiche che hanno gestito l’eredità di Fortini; è rimasto ai margini, insegnante nelle scuole superiori, animatore di riviste indipendenti, osservatore critico di una sinistra in declino. Questa condizione di marginalità è per lui una posizione e una postura di pensiero, che lo avvicina e al tempo stesso lo separa da Fortini.
Centrale è l’epistolario tra i due. In una lettera del 1978, Abate chiede consiglio a Fortini su un bollettino da fondare con altri compagni. La risposta del poeta è netta: evitare la teoria politica astratta, scrivere con rigore, rivolgersi a un pubblico concreto, “essere spietati”. È un Fortini che diffida delle “formule libertario-comuniste”, consapevole che “di proletariato si era parlato a vanvera”. Da questa distanza, il dialogo si sviluppa tra il rispetto e il disaccordo, fino a toccare le ferite aperte della lotta armata e della dissociazione negli anni Ottanta.
Abate non nasconde mai il conflitto con il suo maestro: ne ammira il rigore e la lucidità, ma ne avverte anche la rigidità, il sospetto verso le nuove forme di antagonismo. Il Fortini che emerge dal libro è più inquieto e sfaccettato di quanto non venga spesso rappresentato.
Oltre Fortini: una riflessione sulla sconfitta
Tuttavia Nei dintorni di Franco Fortini non è solo un libro su Fortini, bensì un libro sulla sconfitta. Quella del comunismo, del ’68, delle speranze di una generazione. Abate si confronta con i detriti di un passato che ha rifiutato di archiviare e, proprio per questo, si ritrova spesso in polemica con la cultura dominante, con chi ha “scelto di accomodare o cancellare” certe esperienze. In questo senso, tale opera è anche una difesa della memoria, non in senso nostalgico, ma come sforzo di traduzione di una “lingua morta” che potrebbe ancora dire qualcosa al presente.
La parte più attuale è forse quella finale, in cui Abate riflette sulla possibilità di un’uscita dall’impasse, sulla poesia come esodo, sulle forme di resistenza culturale in un panorama sempre più frammentato. Qui il suo percorso si distacca maggiormente da Fortini: meno sicuro delle coordinate teoriche marxiste, più incline a esplorare le vie laterali della scrittura e dell’esperienza individuale.
Un libro prezioso
Scritto con il rigore di un intellettuale che non ha mai ceduto alle semplificazioni, Nei dintorni di Franco Fortini è un libro prezioso per chiunque voglia ripensare il rapporto tra letteratura e politica, tra memoria e presente. Non vuole essere un testo celebrativo, ma un laboratorio critico, un archivio vivo di domande, un’opera che si interroga senza sosta sul senso di un’eredità.
Se la sinistra intellettuale oggi appare smarrita, incapace di formulare una visione all’altezza del disastro contemporaneo, il libro di Abate ricorda che il pensiero critico non è mai neutrale, che ogni parola deve essere scelta con necessità, e che nessuna verità è data una volta per tutte. Per questo Nei dintorni di Franco Fortini, oltre ad essere un omaggio a un grande scrittore, è un esercizio di Resistenza.
***
SUI CONFINI DELLA POESIA
«Sui confini della poesia» si trova in «Nuovi saggi italiani 2» (Garzanti 1987). E’ una lezione tenuta da Fortini presso l’università del Sussex nel maggio 1978. Il testo non è di agevole lettura, anche perché rivolto ad un pubblico di studiosi. Usa espressioni concentrate e le tesi non vengono spiegate ricorrendo ad esempi. Questi sono gli appunti che ho steso dopo una ennesima lettura e avendo in mente la questione del rapporto problematico poesia/moltinpoesia.
Tu scrivi, noi scriviamo. Tra pochi anni o decenni le parole che usiamo saranno sconquassate «dal contesto feroce che la storia contemporanea gli prepara». Ci avete mai pensato?
Fortini ci pensava. Questa sua lezione era proprio sulle «alterazioni subite dalla recezione delle opere letterarie nel corso della loro esistenza temporale». E aveva come bersaglio polemico non tanto lo strutturalismo, corrente di pensiero novecentesco alla quale riconosceva «eccellenti risultati» ma l’abbandono della «dimensione storica negli studi letterari», sostituita diceva dal «chiacchiericcio nevrotico dell’industria culturale».
Subiamo – per Fortini «da circa dieci anni», per noi ormai da un cinquantennio circa – «quella che viene chiamata la “crisi del marxismo”».
Ne abbiamo percepito gli effetti dai giornali che ci hanno imposto per anni l’argomento. O notando la scomparsa dalle vetrine delle librerie di certi autori sostituiti da altri. O seguendo le interviste più frequenti ad X invece che a Y.
Fortini accennava anche alla «ripresa d’interesse per la cultura dell’esistenzialismo tedesco (Heidegger, quindi, e Nietzsche), per quella della crisi e della negatività (ossia per l’arte e il pensiero viennese degli anni Dieci) e per la cosiddetta Scuola di Parigi, arco assai ampio che va
da Lacan a Derrida, da Bataille a Foucault».
Taluni hanno considerato il mutamento una liberazione positiva da un modo di pensare troppo rigido, ma è più probabile che sia avvenuto un disastro culturale. Che ha comportato «frustrazione sociale e politica» nelle forze operaie e intellettuali a cui ci eravamo legati, la cancellazione di una prospettiva (quella di «rovesciare gli equilibri di potere del ventennio precedente», la «perdita di memoria del passato» (soprattutto quello prossimo) anche nelle «esistenze individuali», una «sfrenata manipolazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa» per «distruggere l’avvenire sostituendolo col “sempre eguale”».
Di riflesso, nel campo della letteratura, della poesia e della critica letteraria, per Fortini c’è stata una «brutale divaricazione di posizioni: vitalismo esasperato, che si potrebbe chiamare neosurrealista […] oppure formalismo esasperato, indifferente agli aspetti referenziali», che hanno portato alla «progressiva scomparsa degli “oggetti” artistici e poetici», che ancora alludeva ad «un fondamentale “problema della vita”» (Lu-kács) e alla perdita della loro «latente funzione pedagogica».
Non è, dunque, più possibile la «via estetica all’umanesimo», conclude Fortini. Quella prospettiva è stata radicalmente distrutta dalla «realtà socioeconomica del presente». Invece di rammaricarsene, si domandava «se tale distruzione non sia [stata] benefica»; e se, cancellando «due secoli di estetica borghese», non si riproponesse in altri termini rispetto al passato il «tema antichissimo e futuro» della pienezza della vita o delle «sue più profonde possibilità».
Salto la parte del saggio in cui Fortini si diffondeva, seguendo Jakobson, in «precisazioni terminologiche» e puntualizzava i concetti di testo (letterario o poetico) e di contesto, quest’ultimo inteso come «l’ambiente e l’insieme delle determinazioni socioculturali»; e vado al punto che oggi ci riguarda, come poeti o scrittori o moltinpoesia.
Lo riassumerei così: scrivere poesia, prosa o fare arte significa dare forma a qualcosa che è informe. Ciò comporta caratteri severi di sforzo e di progetto. Banalmente: fatica, studio. Più rigorosamente, Fortini diceva: «organizzazione, volontà, ascesi, selezione», insistendo sul fatto che «il valore di ogni forma è anche etico-politico» e non, dunque, soltanto estetico. Poiché la forma «si oppone in generale alla proliferazione “produttiva” dell’inutile» e, specificamente oggi, alla «dissolutio vitae della produzione capitalistica e della sua fabbrica di spettri», che i mass media diffondono incessantemente. Oggi poi quel pubblico borghese, che aveva «una familiarità esistenziale con le lettere e le arti» e si era educato ai valori dell’arte e della poesia, è stato sostituito da un pubblico eterogeneo di acquirenti e consumatori di «prodotti dell’industria culturale di massa». In esso possiamo trovare sia persone ancora attente agli «aspetti tecnico-retorici delle lettere e delle arti» e altre che hanno perso ogni capacità di distinguere tra «letteratura, contro letteratura, Vulgåliteratur, insomma fra “opere d’arte” e “opere di consumo”». De te fabula narratur, o moltinpoesia! Leggiamo, dunque, questo brano del saggio:« Le classi oppresse e sfruttate […] dagli oggetti del discorso poetico o artistico […] guardano ai contesti, al caos storico in cui sono immerse. Oppure, dal fondo della sala schermiscono gli austeri ascoltatori delle prime file. O magari si abbandonano ad una forma qualsiasi di oppio culturale, di alta e bassa poesia, Hölderlin o la canzone di jukebox; forma, certo, ma ormai forma vuota (anche quella del classico se letto senza prospettiva) cui l’ascoltatore offre il proprio sangue senza riceverne». Ai moltinpoesia forse non piacerà. Chi accetta, oggi, di pensare alle «classi oppresse e sfruttate» o di essere classificato in tale categoria? Su dieci poeti o moltinpoesia che ho incontrato, ancora sette o otto continuano a vedere la poesia come attività nobile e spirituale che permette di distinguersi proprio dalla massa. O cercano nella poesia, se non un valore assoluto, una nicchia, un ultimo luogo non ancora invaso dai processi di disgregazione sociale. Sciocco sarebbe ironizzare su queste credenze. Fortini ammette che lui pure, ancora pochi anni fa, era convinto che «la forma poetica avesse una sua autonoma forza liberatrice».
Ma proprio in questo scritto ha posto un problema. E io lo riassumo ancora e un po’ l’aggiorno in forma di lezioncina polemica così: mentre voi poeti (e moltinpoesia, aggiungo io) state a «formare» le vostre opere d’arte, altri stanno dando forma alla «vita medesima» di tutti. Dice niente la parola «biopolitica»? Dicono niente le guerre? No, non vi dicono niente. Avete dato per fallita ogni «ipotesi di una trasformazione degli uomini» e volete occuparvi – innanzitutto o soltanto – di dar forma alle vostre opere, alle vostre poesie. Ritenete che il «grido» della poesia non debba restare inascoltato, ma gli altri gridi dei torturati, dei profughi, degli immigrati affogati nel Mediterraneo non li sentite più.
Allora il discorso con voi è chiuso. Chi, però, ancora li orecchiasse questi vecchi discorsi, potrebbe chiedere: non c’è rimedio a questa crisi della poesia e della vita? Bisogna abbandonare poesia e arte e sostituirle con qualche altro valore? Non sono le conclusioni a cui arriva «Sui confini della poesia». Fortini vi delinea una via possibile, che spiega anche il titolo del saggio stesso. Bisogna pensare dice la ricerca poetica come «tensione ad inglobare, affrontare ed elaborare quel che sta oltre le frontiere della forma poetica», spingersi verso il fuori (della poesia) e non verso il dentro. Soltanto così «l’opera proprio perché chiusa potrebbe essere arma a comprendere la realtà aperta e informale». La poesia, lasciando perdere «la sovversiva promessa di felicità» ad essa associata, «se si porta ai propri confini, riaffermerà l’esigenza che gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza».(*79 )Non bisogna smettere di provarci. (2020)
(*79) Su forma e informe. Adorno ebbe piena fiducia nel valore della forma in arte e in poesia. Essa, indipendentemente dal contenuto, che può essere ordinario o straordinario e – in termini politici – reazionario o rivoluzionario, se raggiunge una alta qualità, una coerenza, una tensione fra le sue parti, nega o stravolge il quotidiano, ciò che si ripete o viene accettato per abitudine. Va, insomma, oltre il «linguaggio logorato e della vita inautentica» (quello odierno dei mass media, per intenderci). Fortini proprio in« Sui confini della poesia» arriva, invece, alla conclusione che la forma non riesce mai a negare o a sovvertire questa quotidianità (capitalistica) e al massimo si contrappone ad essa soltanto come un «grido» (Schrei), il «grido dell’arte». Per lui, dunque, la poesia ( o la forma-poesia) resta qualcosa di ambiguo e contraddittorio, non può mai essere un valore assoluto (o in sé). Non approva, dunque, chi nell’estetica, nella poesia o in un «eccesso permanente di attenzione sociale agli eventi letterari, poetici e artistici» cerca una redenzione o salvezza o evasione (dalla storia, dal capitalismo). Prima o poi questo sforzo «incontra delle frontiere», incontra quello che respinge proprio per farsi poesia, forma: il contesto appunto, il contesto storico-ideologico, che «sempre più chiede di entrare [nella sua immediatezza]in rapporto col testo», di non restarne fuori. Mentre poi per Adorno la totalità (l’integrità umana) è perduta per sempre e non più riconquistabile nella vita sociale, Fortini resta fedele all’idea di Lukács che gli uomini abbiano «la capacità di «formare» non più solo opere d’arte ma la vita medesima»; e sono quindi capaci di andare «oltre l’uso della vita cui ci costringe il lavoro alienato». E se questa prospettiva, che era del socialismo, fosse fallita per sempre? Allora Fortini ammetteva che avrebbe avuto ragione il pessimista Adorno. E che l’arte e la poesia resterebbero soltanto «grido» e non il primo possibile gradino verso una vita a cui la volontà umana può dare forma. Resterebbe, come la religione, «il cuore di un mondo senza cuore», «il sabato di un villaggio senza domenica», la «prova di una ripetuta sconfitta umana». Un dubbio: oggi siamo forse a questo punto?
- L’articolo di Anna Leone è ripreso con leggere variazioni grafiche da Zerho Negativo (qui)