di Ezio Partesana
L’identità non è un dono di natura. Se è vero che ogni ente fisico è unico, per sostanza e attributi, la fragile permanenza che chiamiamo “Io” è il risultato di più di un processo, nel disordinato mondo, di libertà e repressione che non una proprietà dell’essere umano in sé.
Un neonato deve fare i conti con un coro di sensazioni e organizzare sinteticamente le prime categorie di spazio e tempo, prima ancora che i suoi organi siano ben sviluppati, e immagazzinare queste esperienze secondo un ordine verosimile. Nel frattempo impara a simboleggiare, secondo una grammatica che, dicono, è iscritta nel nostro cervello.
Alcuni bisogni vengono soddisfatti, altri repressi; figure concrete – un sasso, un seno, un suono – e astratte – il sonno, la lingua – si incaricano di far camminare il pargolo sino all’ingresso del mondo, inciampando il meno possibile. Ma le richieste della realtà non si limitano a una ragionevole disposizione di piacere e dolore, ci sono azioni che non devono essere compiute perché sono sbagliate, brutte o indecenti. Non importa quali siano gli impulsi che premono per uscire, un’altra forza, almeno altrettanto potente, impone che vengano bloccati e diretti verso altro, meno inquietante, meno ferino. Non è bene che tu uccida il bambino che ti ha sottratto il gioco, e non puoi picchiare tuo padre per ogni divieto. Fattene una ragione.
Fingere che la ragione umana (animali e piante non hanno questo problema) non sia frutto di uno scontro con la natura esterna e interna, è come immaginare le leggi del moto senza un punto fisso, almeno ipotetico, fermo in sé; e no, la “Teoria della relatività” non fa eccezione.
“Perché io sono io e non sono tu?” si domandava il bambino di Peter Handke, attonito di fronte al fragile groviglio dell’anima che aveva appena scoperto di avere. Lo stupore del soggetto che si scopre identico con se stesso riflette, in qualche modo, lo sforzo che fu un tempo necessario per separare l’Io da tutto il resto, e che si ripete, quasi letteralmente, ogni volta che un singolo essere viene al mondo.
Se il principio di individuazione garantisce l’unità della coscienza, almeno nella sua forma elementare, non determina però alcuna qualità specifica; un’ape sa cosa deve fare per il bene suo e di tutto l’alveare, un uomo no. Il bambino di Handke deve ancora imparare che la società che gli ha concesso in eredità di essere un individuo è la stessa che gli imporrà, subito dopo, di conformarsi a un ruolo, a una funzione.
Le figure pubbliche alle quali conformarsi sono da lungo tempo in vendita. Quel che è mutato dai tempi nei quali si poteva comprare una nomina cardinalizia o la patente di esattore è che oggi le forme di esistenza, le omologazioni consentite, sono liberamente in vendita, anima del commercio per scaffali vuoti.
È inutile lamentarsi di una gioventù violenta e superficiale quando la iscrizione al mondo è disponibile quasi solo in forma di merce, e cioè di un valore astratto che può, anzi deve esistere in forma di scambio; non si tratta di omologazione ma di commercio. Al posto del rito di iniziazione dove l’adolescente doveva sconfiggere un drago alato, ci sono oggi in vendita decine di mostri già morti e pronti all’uso. Non c’è alcuna differenza tra l’etichetta che segnala la fonte del soddisfacimento e la posa erotica dell’adolescente che incita alla violenza, il sacrificio di sé in nome della disperanza è accolto e voluto come unica forma di liberazione acquisibile.
La forma merce però è astratta, scrisse Marx, solo fino a quando è un feticcio, vale a dire una cosa che sta al posto di ben altro. È così che gli emblemi di una società a misura di sfruttamento luccicano in galleria: basta volerlo. Il momento della riflessione – il tarlo della coscienza – è sostituito dalla disponibilità di atteggiamenti che immediatamente certificano l’identità e i diritti del povero (in senso pieno) individuo. Non appena si svela il meccanismo della produzione, tuttavia la merce torna a essere quel che era: un prodotto del lavoro travestito da equivalente universale.
Una identità definita come valore d’uso non è una novità, la servitù, le conversioni forzate, i gradi militari, l’abito dei giudici, sono esempi di oggettivazione del soggetto in una forma socialmente riconosciuta, anche esteriormente. Solo che mentre quelle non potevano essere scambiate, queste odierne lo sono quotidianamente nel grande magazzino digitale dell’acquisto e della vendita. Le identità disponibili sono feticci e dunque merci perfette, non serve più quasi neanche produrle.
Pasolini aveva ragione almeno in questo, che una rapina a mano armata in un sobborgo della Capitale non finge proprio nulla, l’esaltazione di forme esteriori d’apparenza come nucleo del sé, invece, falsifica tutto e non è niente. Il rovesciamento antropologico è completato: il sentimentalismo è tutto, la ragione è il nulla. Gridare è meglio di sapere, soffrire conviene piuttosto che analizzare, l’orrore – come in una parodia della catarsi aristotelica – è più vero di quel che la filosofia di Orazio possa mai immaginare tra cielo e terra.
Criticare la vacuità delle forme coatte di identificazione sarebbe come rimproverare la damigella di un quadro dell’Ottocento perché il suo vestito è sciupato: prendersela con una forma come se questa non avesse, dentro di sé, alcun contenuto. Bisognerebbe invece fare come l’accorto commerciante di Von Kleist e per ogni cavallo chiedere: di chi è? Quanto costa? Perché nel mondo che tutto vende anche il Sé, incarnato in modelli pubblicizzati, ha un produttore, un costo e un valore.
Astrarsi: nel vento, nel ciuffetto di foglie sui rami di cui si ricopre la quercia, nel sole candido che forse domani ritorna, e scintillerà sul mare. Tutto questo non ha un prezzo ed è lontano da sé, che è identico a nulla, fin che dura.
Fare tesoro, infatti, dell’astensione, della denatalità, del consumo.
Forse per ripartire?
Un libro che si sforza di presentare una versione psicologicamente concreta della identità umana è quello di Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi.