di Antonio Sagredo
Questi due testi di Antonio Sagredo – Lamentazioni elaborato nelle ultime settimane, L’Arrabìco, “racconto lirico-epico picaresco” inedito risalente al 1977-1981 – sono una meditazione poetico-narrativa, autonoma e indifferente al tempo storico, sulla Morte. Attingono ad un immaginario continuamente indagato – brindisino ma anche boemo (per la formazione e gli studi dell’autore-, nel quale su un piano di finzione teatrale s’impongono immagini paurose e terrorizzanti: di malattia, di rituali funebri o magici, di miserie e rivolte sociali represse nel sangue. Ci vorrebbe uno studioso di Ernesto De Martino per penetrare nei meandri di questi testi e coglierne il senso arcaico e apocalittico, che – guarda le coincidenze che la storia dispettosamente propone! – l’epidemia/pandemia da coronavirus di queste settimane sta rimettendo in moto. In mancanza di tale guida, il lettore provi ad indovinarne uno suo anche approssimativo. Pescando magari analogie con il suo di immaginario. [E. A.]
Lamentazioni (brindisine)
la Morte che io cerco non esiste la Vita che io cerco non esiste Possa il condannato condurmi sul luogo della mia esecuzione. Io vengo da un luogo che non è /stato mai/più una necropoli. Là dove tenebre e luce non hanno mai avuto un senso: qui, io forse vivo. Quel che restava del caos non mi era dato. Che non mi sia data mai più l’offerta di una terra che già conobbi. Viveva soltanto per bende insanguinate. Che io non possa mai più amare la vita che ho già vissuto. Sulla via le mie orme mi hanno già preceduto. Non può esistere la luce che non ha la mia visione. Io mi ripresi da dio tutto ciò che m’aveva tolto: la quiete. Il dono del mio sembiante nello specchio non è mio e non è per me. Che la mia carne si rigeneri soltanto nello specchio che non mi è noto. Né la luce e né la oscurità chiedono il mio conforto. Sul mio volto tu contempli il suo riposo. Le leggi che io conosco un dio me li ha sottratte. Da nessuna aurora e da nessun tramonto attendo le mia forma. La mia nascita che non ha senso se: prima o dopo il tempo. L’eternità che non sa lo spazio in cui si rigenera il tempo. Sottrarre la Terra agli universi tutti? Non cambia nulla. Per gli universi è così trascurabile che se non esistesse (davvero?), nemmeno il suo sole s’accorgerebbe della sua assenza; e non dico mancanza. Questa maschera che non conosco mi dà quiete. Non conosco che la Visione di cui non faccio parte, ma sono essa stessa di cui non sono limiti e confini. L’unico libro che conosco e l’”Unico”, quello da cui sono fuori e dentro al tempo stesso e allo spazio stesso, quello che non racconta del Nulla se non il Tutto. È il Volto che mi gira intorno, ed io intorno a lui, e che lo specchio non riflette, come se fosse lui o io stesso il solito luogo delle esecuzioni che nessuno conosce e a cui tutti agognano. L’anima a cui dovrebbe appartenere il mio corpo (o il contrario – per me questo è indifferente) sono costruzioni insensate, generate entrambi insensatamente e non sapremo mai da chi… forse il cerebro ne ha bisogno per sopravvivere a se stesso. E porto i miei occhi in giro, come le tracce dei miei passaggi ovunque, in/con uno stato mentale che non sa il prima o il dopo… né dello spazio e né del tempo. E per questa sorta di stato di cui sono e non sono consapevole che escon fuori le mie parole, che se colme di visioni, tracimano… La testimonianza di me che non m’appartengo! Le lamentazioni che scaturiscono e di cui non sono responsabile e né consapevole. Io tra le ceneri non sono che un corpo desiderato. Ma non so da chi. Dagli altari nessuna offerta mi giunge se non quella che mi fu negata al principio e alla fine della mia presenza inattuale. Anche le distruzioni evitano di incontrami durante il (mio) supplizio: temono le (mie) catastrofi interiori, i luoghi delle sofferenze a me non ignoti: anche questo è uno dei miei tanti stati mentali che talvolta mi fanno visita. Gli inquisitori temono le rivolte delle Purificazioni e i viventi che mi giungono dopo le loro ceneri… per rigenerarmi! Non so cosa sia il Mistero (davvero?, mi urla il clown!), né prima e né dopo il concepimento, ma la sua mortalità, per questo, non mi offre un senso. Come le (mie) notti e i (miei) giorni mi sono ignoti, poiché non conosco alcuna soglia che sia dietro o al di là di essi stessi. La Notte dei Rimorsi, come le (mie) parole non restituite ai viventi… e poi? La Notte dei Conforti, come le (mie) parole iniziate ai ricordi… e poi? Mi ricordo un tramonto quando d’un tratto chiesi aiuto ai Morti, perché soltanto la loro parola mi poteva rigenerare la Visione.
DA “L’Arrabìco”*
Arrabbìco nel suono e anche nel significato richiama l'Arabia (Oriente), quasi alla Pierre Lotì: oppure un vagheggiato e nostalgico Oriente alla C. Bene (in: Nostra Signora dei Turchi)
tubercolosi, vaiuolo, seborraggìa, strongilòsi…
…io vengo per trovare il modo di far ritornare i miei esiliati
Amatissimi, dal sanatorio, questo eterno bianco folle cielo, malattia di petto al privilegiato cuore, lì, in fondo alla via Appia s’iniziò quel calvario strano: commercianti vinicoli uniti ai miserabili dell’Asilo di Mendicità, affetti da vaiuolo, i superstiti…ne morirono 55, agonizzanti dapprima per ostentar la fede che li vide unici testimoni invocanti l’Addolorata, strettiti nell’estasi, butterati dal suo viso lacrimoso, pugnali: sette.
Invano quell’anno si cercò d’evitarlo, i bambini hanno chiesto asilo, misericordia adulatoria, egoismo ardente, ceri all’alba brindisina dopo la notte messapica, eufisti tutti della parola, flastri dell’ispirazione e dell’elevazione, suisti della finzione, impausabili a forza di cedere.
Scopelisti, adagiavano con parsimonia i teschi lungo la via decimata dai coriandoli, cappuccini una volta all’anno, all’occasione martiri suilli se si volesse, maschere! ridere a masticare giummare con al vento le carie dei loro sogni, giollarìa tragica si trionfava di gioppini ingozziti, nicchiando ai crocicchi la parvenza gionica d’un tempo.
Nievi di Lucina, docèti incalliti dalla vana dialettica, donne dall’aspetto deìparo sbucavano dalle vie laterali, lùmiche dal feto urlante e stròfolo, livido violaceo brillava il ventre, celando un secondo volto giallastro e bernoccoluto.
Il cielo, stròmico, allontanava gli scarlatti inutili d’oriente, affogandoli con lo strepito di una moltitudine infinita di stròlaghe isteriche, con le mandibole degli scarìti impazziti, coi penosi fischi dei chiurli e delle morigiàne. Funeree surnie sbattevano le ali alla luna stracca e starnazzata, come angeli nel periodo della flussione rossa.
Verdi puttini, incuranti della seborraggìa, erano avvolti da favolosi scìtali e da scintillanti lucìlie attratte dall’abbondante secrezione, accarezzati da isadelfi e giumerri descrivevano, quasi antichi dottor sottili, innumerevoli varietà di conchiglie…
…inorgogliti dalla loro parte fingevano involati la posa di chi si sa destinato “ah, si dissanguavano d’impotenza!” ah, povero nonno, si rivolse esperanzoso ai medici, con le occhiaie bruciate da tantissimi tramonti: questi teatri che presagiscono la rugiada, di notte inconsueti spettri in fiamme!
e…
…e inseguito da quella donna, tutto un rosario nero dalla mattina alla sera, riscaldava la sua secchezza con la carbonella di mandorle, ignorando che anche fasci di sarmienti lentamente bruciavano per lei in quell’inverno, e i bambini che lo volevano di neve, sulle strade, strillavano! Le soglie delle chiese erano deserte, dottore “già che è qui, dia un’occhiata al mio bambino, non so cos’abbia, forse si tratta di angina” e i pini, altissimi! nel cortile della scuola frignolavano di tra gli aghi… il recinto di rombi di pietra era… bianco!
…per strade sonnolente e nevose… Sconosciuta!
Sognare invano, loro “non perché avessero amato, ma perché avendo amato credettero senza capire” nonno “tu, li tramutasti in insegne se non addirittura in spoglie!”.
Una volta si poteva vivere, e si viveva, di amenità.
Oggi, l’assassinio non è più letteratura.
I vecchi non sono mai stati vecchi: semplicemente non sono mai nati.
Le maschere se ne vanno, desideri, carne mai amata, violata sarebbe vissuta e morta ancor giovine.
Se fosse possibile amare, davvero sentire, entrare, il custode è via, guattiscono i cani malati di strongilòsi sotto gli ulivi. UCCIDERE LA MERIDIONALITÀ!
….nella casa in cui chi vi entra è privo di luce
(pagg. 41-42)
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morice, piorrèa, piocianìna
Più di tutti, i cittadini dei rioni antichi e centrali della cittaduzza, gli sciabbicoti e gli schiavoni, qualcuno della contrada Montecristo, più numerosi quelli delle Colonne, si riunivano ad ogni partenza e arrivo dei bastimenti. C’era chi arrancava lungo la discesa Dorotea, chi sbucava da dietro il Palazzo Azzolino, chi di corsa affrettandosi usciva dalla Domus Margariti. Giungevano a frotte quelli della chiesa di San Pietro degli Schiavoni: una internazionale di albanesi, di slavi e di greci, alias italiani cenciosi, abbruttiti dalle chianze ovunque per tutto il corpo, dalla diffusissima morice, dalla sbandierata piorrèa, scolando la piocianìna sul corso principale già colmo dei liquami intestinali e renali che i carri luridi – uh, le caratizze! – andavano rovesciando ad ogni ambio mal controllato dei muli su quel lastrico sconnesso e maleolente del lungomare. Si sperava nell’avvento dell’acido fènico!
(pag.36)
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la malaria
Brento scalpitava, desiderosa e scontenta di non veder ancora giungere gli esiliati Cappuccini: da quattro secoli assiepati sotto la cadente Porta Napoli e raggrumati sotto i torrioni di San Giorgio e di San Giacomo, immiseriti e indotti a mendicare agli stranieri dell’entroterra torno alla chiesetta della vergine Addolorata, poi denominata della Pietà, non a caso.
Si dovette aspettare, come sempre, come sempre!, l’avvento della malaria per cacciare gran parte di quella miseria vivente soffrente squallente, e procedere, dopo, al ringraziamento fuori le mura: metèci e coscritti accoccolati in un nuovo convento, divoti ad una nuova chiesa, e non a caso della Risurrezione del Signore, non dei disgraziati.
E’ diventata oscura la contrada
nessuno che passi più da queste parti.
A vederli, una processione lunghissima, come ai tuoi funerali, nonno!
Vorrei sapere almeno la ragione
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formeremo tanti concertini
di buona carne di vaccino
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malattie veneree varie
L’appuntamento era al parco della Rimembranza.
Là ci attendevano gli artigiani dei marmi e del ferro e alcune infocate clitennestre: cosparsi i capelli di belli uomini selvatici e di pulsatille fissavano impazienti i globi e, strizzando gli occhi emaciati, tentavano di aizzare a donneare, turbinando e giostrando, casuali passanti sotto i siliquastri in fiore, ancheggiando e strappando petali continuamente di rosolacci scarlatti e sfottendoli con bocconi erotici, a grappoli di lugliènghe stramature e ammuffite…e cantavano, cantavano corali porcini (delicatissime strofette d’amore!) tragici o sentimentali, nostalgiche loro tacchettando, a strocco a strocco, con orrendissime scarpicine colorate vari passi di danze, mentre il belletto, per il sudore, se ne calava giù lungo le gote scarnificate dal laborioso fattibello e bellofottere quotidiano.
Terribilmente sfilacciate, quali maschere che nessun teatro crudele mai conobbe, la pioggerelluzza nemmeno improvvisa riuscì affatto a cancellare dai volti amabili e amanti le stampigie che già s’erano incise, immortali, e, all’occasione, volando esse intra gli olivastrelli neruzzi delle loro fantasie pulite (desideri impunibili che un potere elargisce) masticavano quantità inverosimili di querciole, come ad allontanare un’imminente malattia o febbri varie, risapute.
La fame, dunque, non di sogni, ma concretezza, immoralità eccessiva, quale eterno potere in mano ai bambini dal colletto bianco che noi osserviamo, ignobilissimi travets o pendolari… stanchiii, veramente stanchiii, che mai… mai uccidono il piacere interiore del martirologio a cui sottostanno, invece di sgozzare nella pazzia il cuore e volare via, via perdìo!
Stanchi se lo siete, a che aspettate?
Con il sedere incallito da cinque anni d’inerzia,
si sono arredati comodi salottini e camerette.
(pagg. 38-39)
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gli untori
Era necessario segnare a gesso o a catrame ogni trivio o comunque ripetere il segno convenuto con lo spugnone. Tortuosissima, la città, si prestava assai a siffatto maneggio, gioco infame, con gran fatica dei lavoranti, o almeno deporre un balascio o un cimofàme in quegli angoli delle chiese consacrati dai divoti misericordiosi a pisciatoi pubblici.
Era sparsa con dignità l’urina (disputavano contro gli aspersori!?) nei siti vanamente recintati a ferro battuto, serrati e protetti. Angoli dei palazzi anche, dove abitudinarie creature, in attesa d’elemosine, si scaricavano gementi: presenze decifrate perfino dal presule solitamente ubriaco, quantunque avesse tutte le dita inanellate d’ametiste. Similiava ad una istiura spaventata, sgomenta.
Ciò che temevano erano i cortili fin troppo assolati e i giardini di brillante verdombroso all’interno dei palazzi bugnati antistanti le chiese: spazi tali da misurarli all’istante; e anche il passaggio dei divoti timoravano da un androne all’altro, poi che frequentato e riservato era il cammino verso le entrate laterali delle cappelle per le interminabili confessioni segrete, es-sudate… infiammate!
…il canto delle lavandaie che sciacquano la Síndone.
Dalle Pentite, sporte in fuori onnipresenti e occhialute da San Sebastiano fin sulle torri campanarie, rischiavano, per le tentazioni esterne sempre accese e mai definitivamente con le orazioni e colle attrizioni sopite o distrutte dalla fede, d’essere nominati, acclamati e applauditi perfino.
Uno squallido marmoraro d’un tratto, risaputo un fastidioso rotacista, intonò una villotta giocando con le corde d’un polveroso tambùa, più in là un semaio gomiva cocciuto sul selciato lucido e giallino i semi inveduti, battendo le mani sulle appuntite bugne, mentre coi piedi rovinava i tabalacchi intarsiati.
Dal pròtiro invece uscì fuori il canonico cimeliarca tarantolato dalla fede, come un vecchio futurista (Mazza?) d’altri tempi, urlante per il rinnovato furto del tesoro della cripta che pure rendeva ogni anno di più famosa la cattedrale.
Sconvolgenti e fin troppo razionali queste Lamentazioni (brindisine e che diverranno picaresche e talvolta moresche nel racconto l’Arrabbìco come si denota in questi brevi passi qui presentati)… insomma che invece di consolare aumentano esponezialmente le inquietitudini e ti rimandano ad una metafisica testimonianza provinciale di altissimo valore. Non c’è che dire che questo acceso razionalismo non ha nulla di razionale, se mai l’opposto assume una concretezza che non lascia spazio ad alcuna pratica religiosa da cui non può che originarsi una fede da operetta. Anche l’ereticismo che tantissimo mi lega a questo autore non ha più valore qui, perché anche gli spazi infiniti sono insensati perché non esistenti in una mente sana. ——-
A leggere poi con tanta amarezza i corposi e deformanti passi dell’Arrabbìco (testo del 1971) si deve tenere presente come nella descrizione desolata e tragica dei personaggi aleggia, sovrastando ogni cosa, la presenza di un “barocchetto” appena accennato a Brindisi (privileggiando di questa cittaduzza le rivolte singole e delle masse), ma che dicendo poi di Lecce si entra nella piena agitazione di gorgiere seicentesche deliranti.
P. G.
…entrambe le composizioni di Antonio Sagredo mi sembrano molto suggestive… La prima, “Lamentazioni”, mi appare la confessione di uno spirito tormentato che, nel momento dell’estremo dolore, ribalta in capriole forsennate il senso e il non senso delle cose, come per un tentativo estremo di uscire dalla prigione del corpo, che non ci offre sufficienti e convincenti spiegazioni… La seconda, “Arrabbìco”, si presenta come un horror-burlesco, dal linguaggio arcaico e raffinatissimo quanto popolano. Una visione fuori dal tempo e nel tempo, vedi l’attuale pandemia, delle malattie piu’ orripilanti di cui è stato bersagliato da sempre il povero corpo umano…Sembra suggerirci l’idea di non metterla giu’ troppo lunga se anche oggi ne andiamo conoscendo la ferocia, quanto la bislacchia, nonostante tutta la nostra scienza. Come se la malattia e conseguente morte sia una sorta di Golem immortale, dai mille e piu’ volti, che la natura ha creato a difesa di se stessa …noi esseri umani piccoli piccoli
Sempre acuta la gentile AnnaMaria L
Saluto Te con affetto
grazie, Antonio Sagredo, e ricambio i saluti
Resto sconcerato dalla lettura… prima delle Lamentazioni (un dono prezioso dell’autore) e poi ancora più preziose alcuni passi di un suo testo “l’Arrabbìco” che pare non sia ancora edito; e, se così, perché non è stato ancora pubblicato visto che è un racconto scritto fra il 1977 e il 1981? (domanda che ovviamnete rivolgo all’autore, sperando in una sua risposta).
Dunque, queste Lamentazioni sono di una freddezza appassionata c he frastornano già fin dall’inizio… la lettura non è spedita affatto e ti costringe a fermarti più volte (come mi è capitato in passato, leggendo su vari blog i versi di Sagredo, che come più volta è stato scritto dacritici: o li accetti oppure è meglio lasciar stare)… più volte perchè l’autore ti scaraventa a centinaia di milioni di chilometri dalla Terra e come dice. è inconcepibile in altro luogo avere una idea di un Dio-creatore, poiché la terra nemmeno si vede!
Poi invece ti fa ricadere nella tristezza angosciosa e bella, terrestre, ma in maniera quasi burlesca mettendo in scena le realtà e le finzioni di cui è capace uno specchio che non sappiamo se finto o reale a sua volta.
Safredo gioca a nascondino drammaticamente, insomma ci sbaletra di continuo.
I passi invece del racconto picaresco l’Arrabbìco sono esilaranti, morbosi, violenti, comici.. insomma è mi pare questo racconto che davvero, nonostante lo stile inusuale e attraente dove il linguaggio profuso è carne viva e sofferto , bisognerebbe leggerlo interamente e perciò rinnovo all’autore di pubblicarlo al più presto.
Marcello Cortese
Potete scrivere tutto quello che volete, ma un fatto è certo: Antonio Sagredo è davvero un grande poeta con tutti i difetti che si porta addosso; l’ho incontrato due o tre volte e la prima impressione fu di delusione, ma dopo 5 minuti non riuscivo a staccarmene.
Snocciolò poeti – e io mi intendo da autodidatta- a me totalmente ignoti, e non tutti dell’area slava!
Quella sera, al cinema Scipioni in Roma, alla presentazione dei suoi “Poems”, furono memorabile per i versi che venivano recitati. Il conduttore era il regista Silvano Agosti
a cui associò al nome di Sagredo soltanto grandi nomi della poesia, e la sala era piena e i versi che accompagnavano i musicanti e non al conrario erano di una tale bellezza che non avevo mai ascoltato, e se ci fosse stato un attore più bravo a recitarli sarei entrta in deliquio come tanti altri, ma…
ma dunque quando la critica – di cui lui se ne infischia – se ne accorgerà?!
Poi andai anche alla serata di presentazione dei “Capricci”… altro straordinario evento… i versi erano davvero mostruosi!
Sagredo mi fui presentato da una poetessa, ricordo ancora quel momento…
MS Persico