Paralleli inquietanti tra ‘crudeltà’ diverse

di Rita Simonitto

Ieri sera ho rivisto, per l’ennesima volta, un film di Pietrangeli del 1965 “Io la conoscevo bene” (*) e, rivedendolo – come accade sempre quando possiamo ritornare sopra alle opere d’arte – ho preso contatto con una realtà inquietante che non atteneva solo alla palese denuncia fatta dal regista soprattutto verso il mondo del cinema che in quegli anni, dietro il miraggio di una vita facile ed enfatizzata dai rotocalchi, ‘bruciava’ senza pietà gli incauti che vi si volevano avvicinare senza le dovute protezioni. Ma rappresentava sotto traccia una allucinante fiera delle crudeltà, un catalogo delle varie forme di abbrutimento a cui può pervenire l’essere umano quando, stanco di sacrifici e di patimenti, si fa sedurre dalle sirene del facile successo. Non una scena, non un fotogramma sono esenti dall’evidente spietatezza che permea ciò che viene rappresentato,  a partire dalla stessa protagonista Adriana (una strepitosa Stefania Sandrelli), inconsapevolmente impietosa verso la propria persona, incapace di salvaguardare la sua intimità, impossibilitata quindi a proteggersi, a difendersi e pertanto facile preda di personaggi senza scrupoli. Dalle canzoni selezionate (e che fanno da accompagnamento tragico a questa storia), ai dettagli delle tenerezze che questa fragile fanciulla è in grado di dedicare agli altri più deboli di lei (ad esempio nei confronti di un bambino che lei tiene in custodia) fino al ticchettio dei suoi zoccoli estivi che arrivano all’orecchio dello spettatore come tante fucilate: tutto concorre a sottolineare la crudezza nella quale la ragazza è avviluppata.

Ma la domanda che lo spettatore si può porre potrebbe essere di questo tenore: perché Adriana non si ribella? Era solo lei la portatrice dannata di questa ‘inconsapevolezza’? Ragion per cui è molto facile darle addosso, considerarla una sciacquetta, una amorale e, di conseguenza, condannata a precipitare sempre più nella bolgia infernale nella quale si è infilata?  O c’erano anche altri personaggi trascinati nello stesso girone, dove si vendeva l’anima al diavolo per ottenere un po’ di ‘visibilità’, un po’ di “apparire come sostituto dell’essere”? 

O si trattava invece della cinica indifferenza che stava avanzando in una condizione di degrado di umanità e cultura, in un sistema declinato sull’onda del boom economico e che escludeva violentemente quelli che non riuscivano non solo a competere ma a munirsi di abbondante pelo sullo stomaco? Al pari di Adriana , ma non pregnanti come il suo personaggio che attraversa come un monito tutto il film, ci sono altre figure costrette a non fermarsi mai in un processo di svendita continua di loro stessi, come Baggini (U. Tognazzi) il quale, su un tavolino improvvisato davanti ad un pubblico salottiero, di intellò e di borghesia rampante, privi di qualsiasi pudore e sensibilità, mima, battendo di punta e tacco, il rumore e il fischiare di un treno che corre nei  vari momenti del tragitto, ora veloce e ora tortuoso, rischiando in questa impegnativa performance – lui non è più tanto giovane – di morire di infarto.

O chi rischia di essere massacrato in un ring di  periferia, come Bietolone il quale, per poter raggranellare i soldi necessari per mettere su un piccolo negozietto, accetta di fare incontri di boxe in cui necessariamente deve andare KO. 

Vite a perdere per le quali lo spettatore si indigna, ma che nello stesso tempo pensa “ma perché non fanno nulla per uscire dalla loro condizione?”.

E, magari, sotto sotto, solidarizza con lo scrittore il quale, pur abusando della ingenuità di Adriana si autoassolve, in un certo senso, perché “la conosce bene”, è in grado di saperla descrivere (con spietatezza e non con compassionevole dolcezza) come una figura inconsapevole di sé e del mondo, su cui scivola via sempre tutto. Salvo alla fine sembrare ricredersi pensando che forse lei è più genuina di molte altre che si vendono per interesse mentre lei è generosa, si dà per niente, così come canta Sergio Endrigo nel suo brano “Mani bucate”. Come se, in un certo qual modo, la volesse ‘riscattare’, né più né meno di come fanno coloro che sfruttano le persone fragili però, nello stesso tempo, ne elogiano le qualità, senza però rispettarle. 

La fiera delle crudeltà, dicevo.

Poi, finito il film, ne ho visto un altro che però non era un film bensì la realtà. Un programma televisivo in cui si rappresentavano scene di attualità dove non c’erano persone deboli, indifese, incoscienti di loro stesse, pronte a buttarsi alla cieca nella mischia del facile guadagno e quindi facilmente turlupinate, violentate da figuri squallidi e prevaricatori.

Qui le persone che sfilavano davanti agli occhi erano ben altre, dotate di ben altra consapevolezza sia dei diritti che dei doveri. Scene che gridavano vendetta al cospetto di Dio (se Dio ci fosse o non avesse cambiato anche lui casacca girando il volto da un’altra parte!):

1) lavoratori ridotti alla fame perché o licenziati, per mancanza di lavoro, o messi in cassa integrazione senza vedere ancora un euro a sostegno della loro anomala e forzosa condizione.

2) piccoli imprenditori che fino a poco tempo prima avevano portato avanti con successo la loro attività e che l’emergenza Covid19 aveva messo in ginocchio, senza che il governo avesse preso nei loro confronti delle opportune misure di salvaguardia. Ma non solo per permettergli di sopravvivere ‘economicamente’ ma anche ‘moralmente’ nel senso che, riconoscendo le loro capacità pregresse di aver contribuito al benessere di questo paese, spinti dalla gratitudine, si sarebbe fatto di tutto per favorire la loro ripresa.

3) partite IVA che si sono rifiutate dignitosamente di chiedere l’elemosina di un eventuale indebitamento bancario a tassi agevolati  per il mantenimento delle loro attività produttive senza avere, di contro, solide prospettive di continuità.

4) commercianti che, sfiduciati al massimo a fronte di decisioni improvvide e di misure che palesavano la totale assenza di cognizione delle dinamiche che guidano la realtà economica e sociale del paese, hanno rimesso le chiavi dei loro negozi, delle loro attività commerciali nelle mani di coloro che avrebbero dovuto saperli amministrare e invece loro stessi preda della insipienza e ossessionati dai ventilati fantasmi di recrudescenza del virus se si fossero allentate le restrizioni. 

5) e, rispettosi comunque delle istituzioni – che bellamente li avevano trascurati  – persone in fila (ceti medio/piccoli ormai ridotti alla fame) costrette a ricorrere al Monte di Pietà per impegnare le loro piccole cose, i ricordi legati a ricorrenze importanti, anelli di fidanzamento o matrimonio, collanine, monili che avevano segnato date significative della loro vita, al fine di poter tirare avanti con pochi spiccioli di ricavo.

Una specie di folla non facinorosa, che però mostrava le ferite subite ingiustamente da governanti incapaci. Il Coronavirus non è il colpevole di tutto questo ma il tramite drammatico che ha fatto evidenziare ed esplodere tutta questa infamia. Anche se il parallelo tra terremoti e virus non è adeguato, l’unica cosa che li accomuna riguarda la loro imprevedibilità, però qualche insegnamento lo dobbiamo trarre. Perché certe zone terremotate (es. Friuli, Emilia/Romagna) si sono risollevate e ripartite mentre dall’Aquila in giù continuano a vivere ancora nel degrado ambientale e produttivo?

Per queste ragioni è di portata ben più tragica fare l’accostamento alle figure laide che, nel film “Io la conoscevo bene”, sghignazzando si prendevano gioco, con crudeltà inaudita, di chi non era in grado di difendersi e che quindi il velo squarciato su quelle miserie sollecitava la repulsione immediata nello spettatore che avrebbe voluto entrare dentro lo schermo – come presentato nello stupendo ‘corto’ di P. P. Pasolini “Che cosa sono le nuvole” (1967), quando gli spettatori irrompono sulle tavole della rappresentazione teatrale, quando sentono le bugie del perfido Jago nei confronti di Desdemona scatenando l’ira funesta di Otello – e punire i responsabili di tanto scempio.

Mentre qui, di fronte a questi drammatici scenari, a fronte di questi abusatori odierni, non solo i protagonisti ma anche gli ‘spettatori’ – i quali, pur partecipandovi emotivamente, possono essere esterni alle singole specificità  -, si trovano a vivere dentro una specie di spaesamento, come se tutti fossimo paralizzati. Ma da che cosa? Come mai accade questo?

Siamo paralizzati dai toni pacati, ipnotico/suasivi al limite dell’indurre una specie di intorpidimento dei sensi, con cui vengono propinate le rassicurazioni da parte di chi ci s-governa, in ciò accompagnati da una riduzione della ampia gamma verbale di cui la lingua italiana dispone a soli due (dico ‘due’) “tempi”: la forma perifrastica “stare + gerundio” (= stiamo facendo) e il futuro (= faremo).

Se indubbiamente è crudele (molto crudele) abusare di una persona inerme che non può difendersi, qui siamo di fronte ad una crudeltà ancora più efferata, che va oltre l’umano: si rende inabile qualcuno di valido, lo si massacra per poi poterne abusare.

Significa fare scempio della bellezza del ‘saper fare’ per fare posto a regressive dipendenze: tu mi mantieni e io dovrò essere a tua disposizione!

E’ poi è anche una crudeltà doppia in quanto, mascherandosi dietro una disponibilità, una promessa che si sa che non potrà mai essere mantenuta, si inibisce ogni possibilità di contrastare (perché ogni contrasto viene recepito come una forma di disobbediente ingratitudine), non si dà modo di replicare, di ribellarsi perché le speranze che le proprie richieste vengano finalmente esaudite tendono a prevalere sulla rabbia. E’ la situazione più tremenda (e più patologica!) in cui uno si possa trovare perché, pur intuendo che quei messaggi non porteranno a nulla di buono e di concreto, pur tuttavia si continua a sostenere la fiducia che qualcosa accadrà, preparandosi così ad una agonia lenta e senza remissione. Come nella favola della rana nella pentola. (**)

Infine, lo specchietto per le allodole del “siamo tutti sulla stessa barca” ci porta a farci dimenticare che sarà sempre chi ha il potere sulla barca a trarne vantaggio e non i poveri ‘mozzi’ i quali, se va bene, riusciranno a salvare solamente la loro pellaccia!

Se il regista Pietrangeli ha avuto la capacità di rappresentare con coraggio quello sfacelo a cui si stava andando incontro in quella stagione, sarebbe necessario oggi un regista che fosse in grado di rappresentare questo strazio, questi corpi martoriati che ormai stanno popolando la nostra quotidianità. Ma credo sia molto difficile riuscire a rappresentare in forme efficaci questa sottile, tremenda e inaudita crudeltà che ci annichilirà, perché ne siamo ormai tutti contagiati e non riusciamo a mantenere la giusta distanza per poter descrivere tutto questo cataclisma.

(*)Trama

Adriana è una ragazza molto giovane e di umili origini della provincia di Pistoia che si trasferisce a Roma, dove cerca di farsi strada nell’ambiente dello spettacolo. La sua ricerca, talora faticosa, la porterà a conoscere numerosi personaggi che, con maggiore o minore fortuna, fanno parte di quel mondo. I quali, chi più chi meno, si approfitteranno anche sessualmente di lei senza mantenere le promesse fatte e lasciandola sola, al suo tragico destino finale.

(**)

La favola narra di una rana che tuffatasi in una pentola d’acqua appena messa sul fuoco, sente che è tiepidina e quindi nuota piacevolmente, a suo agio. Ma, pian piano, la temperatura dell’acqua incomincia a salire, eppure la rana ci sguazza ancora volentieri e pensa che può starci dentro ancora per un altro po’ e poi saltare fuori. E così via fintantoché l’acqua diventa eccessivamente calda togliendo al piccolo animale ogni forza per poter saltare e uscire da quella situazione che si è trasformata in un incubo. E così finisce bollita.

Rita Simonitto

Conegliano, 03.05.2020

Nota
Questo articolo è stato pubblicato anche su Conflitti&Strategie

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