di Roberto Bugliani
Nei giorni scorsi ho avuto l’opportunità d’essere ricoverato in ospedale. Fortunatamente, niente a che vedere col nemico del momento, anche se la sua invisibile presenza s’avvertiva dappertutto, a cominciare dalle mascherine chirurgiche indossate da degenti e personale ospedaliero, protezione rafforzata, nel caso del personale medico, dalle ormai celebri Ffp2/3.
Perché ho definito “opportunità” questo mio ricovero, e non, di questi tempi, jattura? Beh, a dir la verità lì per lì l’avevo presa come una jattura. E ho imprecato contro la mala suerte. Ma col senno di poi sono giunto ad apprezzare il fatto che il ricovero m’abbia dato un’opportunità che altrimenti non avrei avuto. L’opportunità di ricevere un bagno di realtà. Come tanti, come tutti, fino a quel giorno avevo letto una quantità industriale d’analisi filosofiche, scientifiche, psicologiche del “fenomeno” pandemico, alcune condite con il sale del complottismo, altre col pepe del minimizzare. E tutte condotte da autoritas nei vari campi scientifico-accademici, volte ad analizzare il Fatto, a trasfigurare l’Evento. Ma il mio bagno di realtà ha avuto a che fare non col Fatto, bensì coi fatti, quelli minimi, i “fatterelli” che capitano al cittadino comune, il cittadino che anziché l’Evento si trova a dover fare i conti cogli eventi della sua quotidianità, il cittadino che non vive né a Hollywood né a Montecitorio, bensì in una banale città di provincia.
Intanto, il ricovero. Essere ricoverato in ospedale comporta l’assunzione d’un ruolo. D’un ruolo connesso all’istituzione. Lo status di ricoverato uno lo ottiene subito, basta esser portato in ospedale con un’ambulanza. Pronto soccorso, trafila sanitario-burocratica, e via. Il ruolo contempla invece un altro ordine di condizioni. Intanto, il ruolo presuppone una conoscenza e realizza una funzione sociale. La conoscenza riguarda sia la consapevolezza del proprio essere inserito in quel dato contesto sociale, sia il saper-fare, ossia assumere una data condotta corrispondente allo specifico luogo istituzionale. Tutto questo se il soggetto intende interagire positivamente con l’istituzione, cioè disporsi alla cura, e non fare l’attacco alla diligenza. Disporsi alla cura, il che vuol dire mettere a fuoco un aspetto della questione. L’altro concerne l’ospedale in quanto luogo d’incubazione di batteri e virus. Anche di questo il paziente deve avere consapevolezza. Dopodiché, avendo chiaro il proprio ruolo e i suoi conseguenti ambiti di pertinenza, il soggetto è in grado d’esercitare quella funzione sociale che la permanenza nel luogo richiede. In mancanza di ciò, l’istituzione ospedaliera diviene luogo d’ignoranza e d’arbitrarietà, in cui l’equivoco e il malinteso la fanno da padroni.
Il reparto. Avvenuto nel corso della cosiddetta “Fase due”, il ricovero è stato in un reparto misto: Ortopedia e Otorinolaringoiatria, nell’ospedale d’una città capoluogo non sede di facoltà universitarie, quindi coi limiti aggiuntivi che questa condizione conferisce.
Il girello. Il medico che mi visita mi consiglia di non affidarmi alla sola terapia: devo aiutarmi anche da me stesso. Mi trovo d’accordo e provo a mettere in pratica le sue parole. Che in sostanza sono un invito alla deambulazione nel corridoio del reparto.
Per poter camminare ho bisogno di qualcosa (o qualcuno, ma questo, realisticamente, lo escludo subito) che funga da tutor. Un girello farebbe al caso mio. Da qualche parte ci dev’essere, aveva detto il dottore, e promise che l’avrebbe cercato. Ma la giornata finì lì, e con essa la ricerca del girello. La mattina dopo decisi di mettermi sulle tracce del girello. Consultai, senza alcun esito, gli infermieri a portata di mano (o di voce), fino a che la mia quête attirò l’attenzione d’una addetta alle pulizie. Sapeva dov’era l’unico girello disponibile del reparto (ripeto: Reparto Ortopedia, non “Tarallucci e Vino”) e me lo portò. Appena fatti un paio di giri, un infermiere venne a riprendersi il girello. Serviva altrove, ad altri pazienti. Per fortuna, fu così gentile da riportarmelo dopo l’utilizzazione, cosicché potei esercitarmi tra una requisizione e l’altra, perché del girello, essendo single più d’un prete cattolico, vi fu bisogno altrove varie altre volte.
La staffa per la flebo. Io avevo bisogno di flebo, e la flebo ha bisogno d’una staffa a cui venire appesa. Ma nella stanza che condividevo con un altro paziente la staffa per la mia flebo non c’era. Come da copione standard in queste situazioni, un infermiere parte alla ricerca. Fa ritorno con aria vittoriosa reggendo una staffa dall’asta metallica avvolta da scotch trasparente in corrispondenza della manopola per lo scorrimento, così incerottata che pareva anche lei ricoverata in quel reparto, una nostra sorella, insomma, anziché un autorevole “strumento sanitario”.
Le stampelle. Un paio di giorni dopo il suo ricovero per un profondo taglio a una gamba, il mio compagno di stanza viene dimesso. Saranno i tempi eccezionali, ma la tendenza prevalente è quella di sbolognare il prima possibile i degenti, se non lamentano complicazioni. Raccomandazione: deve usare le stampelle per uscire dal reparto e raggiungere la macchina dei parenti in attesa. Ma per poterlo fare è stato costretto a telefonare alla moglie e chiederle che si procuri lei un paio di stampelle, perché il reparto ne era sprovvisto. Dell’uso alternativo d’una carrozzina nessuno del personale avanzò l’ipotesi, evidentemente non ce n’erano (al momento?). Mi ripeto: ci troviamo sempre nel reparto Ortopedia d’un ospedale pubblico, non in quello “Pizza e Fichi”.
Ciliegina sulla torta. Per tutti i giorni che è durata la mia degenza, la lampadina dell’unico bagno del reparto è sempre rimasta fulminata. Ovviamente la luce del bagno la notte non c’era.
Ho così terminato il modesto bouquet di piccoli episodi, fatterelli, eventi minimi che da degente ho dovuto affrontare. Per cui la domanda conclusiva, a coronamento, è: Come siamo arrivati a questo punto? Come abbiamo potuto cioè accettare o tollerare che in un reparto Ortopedia qualsiasi possano mancare girelli e stampelle e forse carrozzine, le lampadine dei bagni restino fulminate ad libitum, le aste per le flebo siano loro stesse bisognose di flebo perché non stanno in piedi? La risposta tranchant, almeno fino a qualche decennio fa, avrebbe potuto essere: E’ la democrazia rappresentativa, bellezza!
Ora non la è più. In un certo senso, è subentrata una questione di “calendario”. Siamo nel 2020. E una tale risposta poteva darsi fino, poniamo, agli anni Ottanta del secolo scorso. Per essere pignoli, diciamo che avrebbe potuto darsi fino al dicembre 1978, data del “profetico” discorso critico di Giorgio Napoletano alla Camera dei Deputati sull’entrata dell’Italia nello SME (incredibile, eh?, come la denuncia di Napolitano sulle criticità del sistema monetario unico si sia avverata, mentre il PDS-DS-PD si sia nel frattempo riposizionato agli antipodi). Dopo d’allora, in gioco è entrata la variante del “vincolo esterno”. Altrimenti detto, s’è progressivamente imposta quella ideologia politica trasversale la cui adesione al progetto unionista si basa sulla volontà della classe politica nazionale di de-responsabilizzare se stessa aderendo alle agende della globalizzazione e del neo-liberismo. Si tratta dell’odierna democrazia caratterizzata dalla sostituzione d’un’agenda politica propria con progetti politici definiti altrove (Vulgata: “Per disciplinare gli italiani, ci vorrebbe la Troika!”). Di quella democrazia in nome della quale il 18 novembre 2011 i partiti politici in modo unanime (con eccezione del gruppo parlamentare della Lega, che votò contro) hanno espresso la fiducia al neo-governo “tecnico” Monti, consentendo, sostenendo e approvando le politiche di rigida austerità economica che venivano chieste al paese al fine di rinnovare e rafforzare i suoi vincoli esterni.
Quella democrazia in nome della quale il quotidiano l’Unità del 13 novembre 2011 ha titolato “La Liberazione” la cacciata del “tiranno”, che corrispondeva al primo giorno dell’incarico a Monti. Quella democrazia in nome della quale la sera del defenestramento orchestrine improvvisate hanno suonato in allegria per le strade di Roma. Quella democrazia condizionata per la cui implementazione s’è resa necessaria la letterina dei due presidenti (l’unione fa la forza) della BCE all’Italia (5 agosto 2011), l’uscente Jaen-Claude Trichet e l’entrante Mario Draghi, perché la continuità d’intenti fosse assicurata. Quella democrazia dimidiata per cui la Bce nei giorni d’agosto 2011 provvide a calmierare l’acquisto di titoli di Stato italiani stimolando lo spread a fare il “lavoro sporco” che è chiamato politicamente a fare (almeno dal 2011, da quando cioè i cittadini sono stati messi traumaticamente al corrente della sua esistenza).
Insomma, e sempre a voler essere pignoli, in queste condizioni, e a queste condizioni (condizionalità, per i diversamente italiani), non saprei dire se oggi la nostra possa ancora considerarsi a pieno titolo una democrazia rappresentativa.
E ancora, tornando all’oggi, mi chiedevo, dal mio piccolo punto d’osservazione ospedaliera, come il governo abbia potuto parlare di potenza di fuoco da mettere in campo quando l’unico girello del reparto (Ortopedia, ripeto, non “Volemose bene”) continuava a essere ferocemente conteso dai suoi ammiratori, l’asta per la flebo era sul punto di tirar le cuoia, le stampelle s’erano fatte più introvabili del Sacro Graal e il controcanto della lampadina fulminata nell’unico bagno del reparto suggellava tristemente il tutto? Sinceramente di quella “potenza di fuoco” non m’è arrivata non solo l’eco d’una scaramuccia, ma neppure quella dei clic-clac di sereniana memoria.
Così, mi racconta più cose l’asta malconcia per la flebo (“ah, se potesse parlare!”, aveva commentato ridendo un’infermiera) che non gli articoli di denuncia sui giornali (ogni tanto ancora qualche giornalista si salva l’anima colla sua brava denuncia) che dal punto di vista macroscopico snocciolano cifre: 72.000 posti letto tagliati negli ospedali pubblici dal 2000 al 2012; 42.800 dipendenti ospedalieri a tempo indeterminato in meno dal 2010 al 2018; dal 2007 al 2017 i posti-letto per mille abitanti sono passati da 4,3 a 3,6, ecc. No, ripeto: sono piuttosto le stampelle modello El Dorado o le vicissitudini del girello solitario a darmi il polso della situazione attuale, e non soltanto in quanto figure del degrado della cura e della deprivazione degli strumenti sanitari, ma, seguendo la strada indicata da Voltaire secondo cui “un colpo di cannone sparato in America può diventare il segnale d’una conflagrazione in Europa” (è il principio del battito d’ali d’una farfalla espresso in Essai sur les moeurs), mi parlano dello stato qualitativo dell’attuale democrazia partecipativa, il cui esercizio dev’essere reso compatibile coi vincoli e le agende politiche esterne.
Come? Cosa dite? Carl Schmitt? Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione? Mi spiace, ma qui queste voci non sono pervenute. Quello che ho visto, e imponente, da qui è l’attacco alla sanità pubblica, condotto attraverso le piccole cose, quelle che accrescono disagio e sofferenza nel paziente. E in quanto all’attacco alle libertà costituzionali, mi metterò gli occhiali per poter riuscire a scorgerlo.
Semmai, a giudicare com’è andato il passaggio da “Fase uno” a “Fase due” dell’emergenza, direi che il celebre aforisma di Schmitt di cui sopra, vada cambiato. Alle misure di contenimento, segregazione, chiusura (lockdown, in barbarish) messe in atto dal governo, la Confindustria ha risposto sempre scalpitando. In sostanza, non è mai stata d’accordo. Nella fase uno, quella della chiusura di tutte le attività commerciali e produttive non strategiche, la gente moriva col coronavirus (pochi, sembra, per coronavirus). Chi moriva di solito era anziano, dall’organismo già debilitato da consistenti patologie pregresse, e l’infezione da coronavirus non faceva che anticipare il decorso “normale” di quelle patologie croniche nell’organismo (beh, a volte lo anticipa di anni, ma non è questo il punto, al netto, beninteso, dei diretti interessati). Quindi il cuore della catena cara al capitale, produci-consuma-muori, s’era fermato, la produzione crollata, il consumo languente (beh, non è che tutti ci hanno perso, il settore di punta del capitalismo globalizzato, quello delle multinazionali farmaceutiche, della grande distribuzione, del websoft, dei pagamenti elettronici, ha visto incrementare fatturato, anche del 30%, e profitti, anche di 1/3), perciò la catena andava ripristinata. Visto peraltro che la maggior parte delle vittime apparteneva e appartiene al ceto anziano della popolazione, ossia cittadini usciti dai processi produttivi che consumano meno d’altre categorie sociali.
Dopodiché, lo scalpitio dalla Confindustria s’è trasferito ai presidenti di regioni la cui religio è il lavoro. E la Fase 2 è iniziata. Per meglio dire, è stata aperta come la scatoletta di tonno di cinquestellesca memoria. Colla differenza che i pentastellati sono diventati loro stessi la scatoletta, mentre Confindustria e Regioni hanno l’apriscatole adatto.
Volendo trarre una morale dal nostro apologo, pur restando nell’allegoria, direi che il sovrano non è più colui che decide sullo stato d’eccezione, ma colui che toglie lo stato d’eccezione.
Un medico mi consegna il foglio di dimissioni. Il mio bagno di realtà è finito. Un’opportunità, avevo detto. Così è stata.
Una testimonianza bellissima, tragicamente esilarante in alcuni passaggi, amaramente vera. Mi impegno a divulgarla
@ Franco Romanò
Grazie!
Questo interessante intervento di Roberto Bugliani rappresenta veramente un documento importante. Non soltanto per i suoi contenuti ma anche per la forma: est modus in rebus!
Si tratta di una lettura piacevole che ci permette di mantenere viva la bellezza e la potenza del linguaggio, oggi ampiamente sottovalutate e/o dimenticate.
La capacità, del tutto personale, di saper mitigare con fine ironia anche le situazioni più difficili, come quelle in cui si può trovare un paziente (oggi lo chiamano ‘utente’!) in una situazione di debolezza e di bisogno, certamente non gravissima, per cui necessita comunque di attenzione e non improvvisazione, ci porta pian piano ad entrare in contatto con l’esistenza di due mondi che non comunicano tra loro, replica attualissima del tragico Teatro dell’Assurdo di Beckett. Due mondi, quello ‘Alto’, circoscritto nella spasmodica gestione del potere (spasmodica perché c’è sempre un qualche Altro al di sopra, rappresentato dai “condizionamenti dei vincoli esterni”), e quello Basso, la realtà del quotidiano, ingegnosa e volonterosa, che è ‘umana’ senza che ci debba essere nessuno che lo imponga come proclama.
Quindi Bugliani ci porta dentro una esperienza personale, in cui non solo osserva, dall’interno, una realtà quasi minimale, lontana dalla luce dei riflettori al pari di quella lampadina spenta (metaforicamente interpretando, sui ‘cessi’). Ma di questa realtà si fa interprete partecipante, anziché denunciatore seriale del cattivo funzionamento della sanità pubblica, ultimamente martoriata dallo tsunami del Covid19. Documentando il tutto (con una precisione senza sbavature e che, proprio per questo, senza intenti polemici di sorta, sarebbe da far circolare per capire come mai ci siamo finiti dentro questo baratro) al fine di permetterci di imparare dall’esperienza onde evitare di farci cadere nuovamente nell’errore.
Lo ringrazio quindi molto per il suo equilibrio, oggi tanto propagandato e richiesto, ma mai soddisfatto, che ci permettere di imparare senza ideologiche faziosità
@ Rita Simonitto,
grazie a te per il commento molto puntuale. Un unico motivo di rimpianto: se avessi saputo che oltre a ricoverato godevo dello status di “utente”, avrei chiesto all’amministrazione di farmi avere (immantinente) in camera un televisore. Così non avrei perso tutti quei talent show che allietano le serate degli “utenti”!
Eh, no, caro Roberto! Il trucco sta lì, nel continuo e progressivo distanziamento che c’è tra il ‘nome’ e ‘la cosa che viene rappresentata’, in beffa al ‘politicamente corretto’! Tu non avresti potuto ‘pretendere un bel niente’! Eri ‘paziente’ a tutti gli effetti, solo che questo non si può dire perché quel termine crea discrimine di ‘inferiorità’, mentre gli utenti sono (sarebbero) tutti uguali! E, soprattutto, neutri, senza individualità alcuna.
Ringrazia Dio (se c’è), o Allah (se c’è), ma soprattutto l’umanità vera e il buon senso realistico di quegli infermieri che ti hanno seguito, se ne sei uscito indenne. A volte uno entra per una unghia incarnita e non ne esce più!
Buon decorso della convalescenza!
Sì, meglio ringraziare cose concrete come buon senso e umanità vera degli infermieri che mi hanno seguito. Comunque, anch’io ci ho messo del mio per uscire a razzo, unghia o non unghia…
Per un confronto tra ospedalizzati (in tempi diversi) rimando al mio “Diario d’ospedale 1977
https://www.poliscritture.it/2019/11/30/diario-dospedale-1977/
e al racconto di Rita Simonitto: Das Ding. Rovesciamenti di prospettiva
https://www.poliscritture.it/2014/06/27/das-ding-rovesciamenti-di-prospettiva/
Il ricovero di un personaggio: Michel Foucault
SEGNALAZIONE
Gli ultimi giorni di Foucault
Eric Favereau
http://www.sagarana.it/rivista/numero25/saggio1.html?fbclid=IwAR3FIoSoXQA8U1YRMgw0HscP5_d08u5k6c0085nFJAANGBQY4YfQryE2wbQ
Stralcio:
l ricovero è stato decente ?
Ero molto sensibile alla questione dei rapporti di potere in ospedale. Li ho provati duramente.
Per esempio ?
L’inizio. Una domenica, Michel ha avuto una sincope a casa. Non riesco a rintracciare i suoi medici curanti. Suo fratello, chirurgo, se ne occupa, lo ricoverano vicino al nostro domicilio. Il lunedì successivo, riusciamo a trovare i medici curanti. Subito, l’ospedale di quartiere pensa solo a sbarazzarsi di questo malato ingombrante ed è previsto che sia trasferito alla Salpêtrière. Manifestamente, i suoi medici avevano fatto in modo che Michel non fosse ricoverato in un reparto troppo segnato dall’Aids. Scartano l’ospedale Claude-Bernard e il reparto dove era Willy Rozenbaum. Si arriva alla Salpêtrière nel giorno di Pentecoste. Ci aspettavano per la sera e noi arriviamo prima di mezzogiorno. Come un cane in chiesa. Michel era estremamente stanco, non mangiava più, sfinito. Restiamo bloccati nel corridoio. Ci dicono: “ La camera non è pronta, vi aspettavamo per la sera.” Bisogna richiedere una sedia, poi un po’ da mangiare, non mi ricordo una tale disattenzione.
Mi si fa notare che non era neanche registrato. Mi reco allo sportello. Al ritorno, una nuova sorvegliante mi accoglie, gentile, scusandosi, dicendo che la camera non era pronta, ma che tutto si sarebbe sistemato. Michel viene messo subito in una camera confortevole. Poco dopo, sento un medico chiedere a un’infermiera : “ La camera è stata disinfettata per bene? ” credo di capire che la risposta sia negativa, che si era perso del tempo. Forse due giorni dopo, Michel ha un’infezione polmonare; nel reparto, inizia a circolare l’ipotesi che fosse stato infetto nell’ospedale. È trasferito nel reparto di terapia intensiva.
Si vede bene come funziona: una sorvegliante che non sa dire che la camera non è disinfettata e che si doveva solamente aspettare, poi un’altra che aveva capito, nell’intervallo, che si trattava di Foucault. Si può supporre che il capo-reparto fosse stato avvisato e, alla fine, Michel viene sistemato troppo presto nella camera, tutto questo in ragione di educazioni gerarchiche. È tutto il gioco di rapporti di potere in un servizio ospedaliero e tutto il gioco dei rapporti di verità che inizio a scoprire.
Uno degli aspetti che emergono da questa intervista a Daniel Defert sugli ultimi giorni di Foucault, è il saper-fare.
Alla domanda “Si può improvvisare un sostegno di qualcuno che sta per morire?”, Defert risponde: “Esiste un savoir-faire che non avevo”.
Ma il saper-fare riguarda sia il visitante che vuole dare sostegno al malato, che il malato stesso (l’utente, @ Simonitto) nel corso della sua degenza in ospedale. E la costruzione di questo saper-fare, nell’istituzione ospedaliera odierna, viene lasciato all’intuito e all’attenzione dell’utente. Funziona così, ma non dovrebbe funzionare così.
Quando poi il malato è Carlo Emilio Gadda…
SEGNALAZIONE/PERLE CLINICO-LINGUISTICHE
Stralcio:
Stetti al Policlinico fino al 20 lunedì, e fui sottoposto a tutti gli esami:
sangue, urine, radioscopia del torace, radiocardiogrammi; oltre pressiome, peso ed esame oftalmico. Per sangue e urine tutto normale, anzi soddisfacente: la radioscopia e radiografia (lastra) ha rivelato dilatazione del cuore e dell’aorta, fatti artrosici alla colonna vertebrale, ma nulla di immediatamente pericoloso, pare. Il radiocardiogramma dà il noto “complesso di branca”, tipo Wilson. L’enfiséma polmonare già segnalato a opera di precedenti sanitarî e, se ben ricordo, di Suo Cognato il prof. Paolini, ha ricevuto conferma. Confermata la necessità di dieta a-sodica (senza sale) e misuratissima in tutto.
Praticamente sia la dieta, sia le infinite pasticche (sive “compresse”) mi
hanno ridotto senza forze: la diminuita pressione deprime psicologicamente e mentalmente, lasciandomi in uno stato di sconsiderata vacuità mentale: quel cervello da ragazza grulla che così poco si addice alle istanze del nostro lavoro. […] Altro tormento è il blocco delle funzioni organiche “basilari” (come dicono i sociologhi e i politici), che sembra tuttavia non preoccupare i terapeuti e gli iperterapeuti. La vecchia medicina galenica e pliniana se n’è ita.
Le ipotesi sono tre: una influenza a-tipica (cioè di ceppo ignoto asioafroide tra giallo ed eburneo): un avvelenamento da cibo deteriorato, non si può sapere se domestico o trattoriale, ma anche questo da retrogradarsi nel tempo, ad almeno 15-18 giugno: una febbre tifoide non avvertita.
(da Gualberto Alvino, Sei cose su Gadda, http://www.larecherche.it/public/librolibero/Sei_cose_su_Gadda_di_Gualberto_Alvino.pdf, pag. 46)