di Rita Simonitto
Approfitto dello spazio che Ennio mette a disposizione di chi vuole partecipare alla vita di Poliscritture, non solo per integrare con alcune mie osservazioni la sua pur precisa e sensibile disamina al mio Libro di poesie, ma anche per mettere giù due veloci righe a proposito della apertura del lock down, a seguito del Coronavirus.
Se il Covid19 ci ha trovato impreparati quanto alla gestione sanitaria, adesso sarà importante che ci si possa attrezzare per fronteggiare un problema molto più vasto. Al collasso economico si aggiungono anche un collasso sociale e psicologico che l’isolamento forzato ha trascinato con sé, anche se ancora non se ne coglie la effettiva portata. Il malaugurato collante che ha fatto da motivo conduttore ai vissuti di questo difficile periodo, è stata la paura ancestrale di un nemico sempre alle porte, contro cui sembrava che non ci si potesse fare niente. E questo vissuto di prostrazione va ad inibire ogni spinta che si muova nella direzione della creatività e dell’attuazione di scelte responsabili.
L’isolamento sociale, la pesante penalizzazione di quel ‘noi’ che rappresenta il sale della nostra sopravvivenza anche come individui, smaterializzato alla percezione dei nostri sensi, ha reso ancora più difficili i momenti sociali di condivisione delle nostre paure, molto peggio di quanto accadeva durante la guerra quando nei rifugi, sotto le bombe, almeno ci si stringeva l’un l’altro e ci si rincuorava.
Quindi prestiamo attenzione a non cadere nuovamente nel tranello delle paure irrazionali: ciò non significa mollare la guardia ma essere anche fiduciosi dell’esperienza (anche se tragica) che ci siamo fatta e dei nuovi strumenti che potranno esserci di sostegno.
Voglio concludere con i versi di questa poesia, pubblicata nel libro collettaneo “Habere Artem” della Aletti Editore (2019).
Verità e bellezza Separa un cuore dal suo seme inquieto vento di ginestre. Volta dopo volta vibra sull’aria il solerte allarme che richiama echi lontani a dissuaderti che di senso ancora possa nutrirsi il passo delle illusioni. Ma nonostante tutto ancora hai aperto le mani lasciando che verità e bellezza riempissero la scena e ancora hai atteso che il pulviscolo d’oro impregnasse l’aria e rendesse fertile l’incontro. Eppure sai che così non fu e che così non è. Bellezza chiama forza e verità sgomento.
Ma entro nel vivo dei miei ulteriori commenti chiedendo l’attenzione del lettore su alcune rettifiche e precisazioni
Ringrazio nuovamente Ennio per l’attenzione che ha voluto prestare alla mia fatica, impegnativa (anche per chi legge), e di ciò mi sono sentita molto onorata.
Passo dunque avanti.
Rettifiche
1) Una prima rettifica, maggiormente doverosa, riguarda l’accostamento che Ennio fa fra gli asili-lager della mia infanzia a quelli dei bambini dei campi profughi a Lesbo: (“infanzia povera cresciuta in asili-lager da dopoguerra, accostabili a quelli in cui penano oggi i bambini dei profughi siriani a Lesbo.”).
Non c’è parallelo che tenga: l’infamia in cui vivono quei poveri bambini siriani è una tragedia che grida vendetta non al cospetto di qualche Divinità (assente) ma al cospetto dell’essere umano che non vede l’abominio nel quale è caduto!
La mia esperienza, per quanto drammatica, non aveva a che fare con quella tipologia di ‘lager’.
L’aspetto ‘lager’ stava nel metodo: a) nella cieca educazione all’obbedienza anche con pesanti e umilianti punizioni corporali non accettando la benché minima denuncia, nemmeno di palesi ingiustizie; b) ogni accenno alla creatività veniva fatto dolorosamente abortire sul nascere alimentando fantasie persecutorie, es. di portare dentro di sé parti diaboliche e di finire all’Inferno.
Il ‘lager’ è quando tolgono la dignità alla persona non soltanto dal punto di vista della costrizione fisica ma quando inibiscono la sua capacità di pensare. Questa, per me, è una forma perversa di tradimento, termine che ricorre di frequente nei miei versi.
2) Il mio attaccamento alla cultura contadina nei confronti della quale proverei nostalgia non accettando di averla perduta: “… anima contadina che non sopporta la brutale fine del suo rapporto fisico e sensitivo con la terra e la natura.”, non risponde alla mia esperienza. Amo la tradizione in quanto portatrice d’esperienza.
Il mio non è dunque un “attaccamento al passato”, al “mito”, alla “classicità”, alla “nostalgia delle mie tradizioni” (non dico ‘contadine’ ma ‘rurali’) nella disperazione che tutto questo si è perduto o auspicandone il ritorno, ecc. ecc. Ciò che vorrei sarebbe (utilizzo il condizionale!) un corretto lavoro di ‘lutto’ (per dirla psicoanaliticamente) per capire quanto del nostro passato (senza etichette di sorta, che già espungono a priori dei pezzi!) possiamo portarci dietro e dentro in eredità, in questo procedere malconcio che caratterizza il nostro presente. Ovvero il lavoro sulle “buone rovine”.
Ivi compresa anche la classicità.
Quindi non posso trovarmi d’accordo con la affermazione di Ennio che così scrive: “Io non ho mai pensato che la cultura (e la cultura classica in particolare, ‘alta’ o ‘bassa’ che sia) potesse essere la cultura di tutti. L’ho vissuta e tuttora la considero una proprietà esclusiva (ed escludente) di coloro che ne erano i veri eredi designati: le classi dirigenti borghesi e poi fasciste di questa Italia. Esse l’hanno potuto usare per i loro scopi”.
Perché mi dà l’impressione che Ennio sovrapponga e confonda il messaggio con il messaggero.
Quanto al lavoro sulle “buone rovine”, come le chiama Ennio (“a me pare – che Rita – non arrivi a sfiorare il presente storico e post-novecentesco. Non è più possibile, forse alcun legame. Ma ipotizzo anche che Rita questo presente l’abbia rimosso e non voglia più interrogarsi sulle sue “buone rovine” (anche del comunismo). Per lei si tratta soltanto di “illusioni perdute”. Su di esse ha messo anche lei una pietra sopra”), il lavoro sulle “buone rovine”, dicevo, va fatto con oculatezza, separando il grano dal loglio, essendo anche in grado di riconoscere la potenza delle illusioni, necessarie in una prima fase della lotta, ma che poi, dolorosamente, devono essere lasciare andare al loro destino.
La “cifra” personale
Facendosi precedere da una notazione di “area romantica” che accompagnerebbe le mie poesie e che “fa pensare ad un diario cifrato teso a un bilancio della propria educazione sentimentale giudicata un fallimento.”, Ennio poi continua : “In altri componimenti questa stessa anima è più direttamente di una donna che, vittima di abbandoni e tradimenti, ora esprime una sua fantasia di essere vampirizzata ora, che per lei “la vita è morte senza sudario”, rammemora delusa le città in cui in passato ha amato (o è stata ferita)”.
Personalmente non posso dire nulla se “area romantica” si o “area romantica” no, mi affido a chi ne sa più di me.
Posso comunque confermare che la mia cifra prevalente tende a ruotare attorno ad aree abbandoniche, stigmatizzando quelle situazioni foriere del tradimento che si nasconde dietro mentite spoglie, ma che nello stesso tempo, onde evitare che la poesia diventi il palcoscenico delle vicende personali, cerco di rappresentare situazioni in cui ognuno si possa riconoscere.
Per queste ragioni, la notazione: “rammemora delusa le città in cui in passato ha amato (o è stata ferita)”, certamente che la delusione c’è stata, e anche profonda, sarebbe assurdo negarla, ma, poiché non sono state le città a deludermi e ho continuato ad amarle, ciò mi ha permesso di superare meglio, anche se ci è voluto del tempo, le vicissitudini legate a quel trauma. Le ho salvaguardate e continuato ad amarle. E quindi, anche la notazione sul “bilancio della propria educazione sentimentale giudicata un fallimento” non risponde al mio sentire: anche se dolorosamente, ho imparato (a volte troppo tardi!).
Senza dubbio ho ‘toppato’, come si suol dire, imparando (appunto troppo tardi), che non era tanto l’oggetto dei miei investimenti (personale e politico) a mostrarsi poi deficitario bensì che il problema stava in me, mi fidavo troppo nelle mie capacità di comprensione, di tolleranza accettando il fatto che potessero non esserci riscontri: tutto ‘aggratis’ e nella luce abbacinante del sol dell’avvenir che avrebbe ripagato di tutto!. Queste modalità altamente diseducative (oltreché fiduciose nella mia onnipotenza) sono state quelle che mi hanno portata a correre sull’orlo dell’abisso!
Capisco anche perfettamente che tutto questo non possa essere esplicato, dilatato nella poesia.
Riprendo qui il “dilemma “antisurrealista” posto da Fortini: la poesia è “sogno fatto in presenza della ragione” o “ragionamento fatto in presenza del sogno”.36 ? E Fortini conclude : forse sarebbe più esatto dire che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno”. Fortini, però, pone il problema in modo antitetico (o / o:) e non complementare: senza il ‘dispiegamento’ attuato dalla ragione, il sogno rimane là, pur nella sua importanza perché attesta sì che un certo lavoro psichico a livello profondo viene fatto, ma è non spendibile ‘pubblicamente’, e quindi rimane sterile, non si arricchisce di nuovi input e non arricchisce il ‘noi’ di nuove stimolazioni.
Detto in altri termini, è come tenere le poesie nel cassetto.
Nello stesso tempo, scrivere le poesie non significa andare al confessionale. Oltretutto esse rappresentano solo aspetti parziali, frammenti della vita dell’individuo. Frammenti (o “Mannelle”, se vogliamo riprendere una metafora del mio libro) che possono circoscriversi unicamente attorno alla sua soggettività oppure avere un respiro più ampio. Ad esempio, rileggendo alcune mie poesie, non le pubblicherei più (non significa che le disconosca) ma, appunto, interessano solo me.
Gli aggettivi
Quanto agli aggettivi, a quello che Ennio definisce “l’opulenza degli aggettivi,34” citandone appunto alcuni in nota (34), vorrei fare questa precisazione. Per me l’uso ‘aggettivale’ non ha soltanto una funzione descrittiva ma, soprattutto quella di aggiungere altri significati, allargare l’orizzonte semantico. Faccio un esempio tratto da una famosa poesia di B. Brecht, In ricordo di Marie A. “Un giorno di settembre, il mese azzurro,/ tranquillo sotto un giovane susino/ io tenni l’amor mio pallido e quieto/ tra le mie braccia come un dolce sogno”.
Ora, quando il poeta utilizza l’aggettivo ‘pallido’, non si riferisce certo all’incarnato della fanciulla bensì a uno stato emotivo, a tutto quello che inerisce a quel momento di particolare intimità tra una donna (si suppone giovane) ed un uomo. Ma, nello stesso tempo, il poeta aggiunge un’altra notazione ‘quieto’. Una sintesi magistrale per portarci dentro il turbamento affettivo di quell’incontro. Ovviamente non è sempre così, ma c’è anche questa opportunità linguistica.
Sul Mito
E’ un tema appassionante, oggetto di molti confronti, fra Ennio e la sottoscritta.
Ma vengo alle affermazioni di Ennio.
a) (Rita) “Legge le vicende personali e storiche riportandole al mito, controllandole – direi – sul mito. Ne consegue un’accentuazione del rifiuto del “misero presente” e una sottovalutazione della descrizione “oggettiva” degli eventi o delle cose fatte o vissute. Fiducia nel mito significa soprattutto fiducia nel passato, nella tradizione”
… “Inoltre dubito soprattutto che il sapere mitico possa aiutarci a costruire un progetto di futuro di cui ci sarebbe bisogno. Dal mito ricaviamo un futuro-destino, fisso, statico, anche quando coglie verità profonde e costanti nei secoli della condizione umana. Perché il mito circoscrive o nega i possibili “salti” della storia. E a me pare che l’attaccamento al passato, che esso implica, finisca per prevalere o congelare la stessa storia in mito”.
Fin qui, Ennio.
Mi sento di rispondere in questi termini: il mito non ha nessuna pretesa di darci indicazioni per il futuro e le sue ‘verità’ non hanno quel valore ‘ipostatizzante’ assunto poi dalla mitologia fondativa religiosa cristiana. E’ portatore di aspetti parziali di verità, e quindi è uno strumento, il quale, per sua natura intrinseca, è sufficientemente versatile da farci scorgere diverse possibilità di utilizzo.
Pertanto, il mito non è un assioma ma si può aprire a molte domande, ipotesi e sfaccettature, SEMPRE tenendo conto che tutto questo deve confrontarsi poi con il presente, con il reale del qui ed ora. Il famoso suggerimento di Lenin “Analisi concreta della situazione concreta”, ma aiutati dal supporto dell’esperienza pregressa: non ci troviamo in una situazione da ‘tabula rasa’.
b) Ennio inoltre si chiede perché, nella selezione dei miti, non figura in pieno Ulisse (personaggio super inflazionato e che richiederebbe invece attente disamine differenziali) né Enea (che non può, in ragione del politically correct essere qualificato per quello che è stato: un faccendiere il quale, mascherandosi da timorato degli dèi, ha saputo portare avanti una politica ‘imperialistica’ (ante litteram).
Bensì Orfeo ed Euridice, Arianna, Perseo e soprattutto Cassandra. Miti forse poco conosciuti (e che forse sarebbe bene conoscere) tranne quello di Cassandra, ingiustamente accreditata come ‘portatrice di sventura’.
Come risposta così a tambur battente direi che sarebbe importante anche cercare di inoltrarsi in sentieri ancora non conosciuti. O no?
Quanto alla
notazione dell’aver io trascurato di considerare i “miti” dell’oggi (Pavese,
Fenoglio, Meneghello), io credo che quelle personalità pur eccellenti non
possono ancora assurgere alla tipologia del mito in quanto ancora appartenenti
al nostro secolo (testè trascorso) e ancora impastate di sovrastrutture (anche
ideologiche, se vogliamo) che ci impediscono di osservarle a tutto tondo.
Mi scuso con il lettore per essermi dilungata così
tanto in quella che avrebbe dovuto essere soltanto una veloce replica. Ma non
so quando e se mi potrà capitare un’altra opportunità di poter esprimere con
più ampiezza il mio pensiero.
APPUNTI
1.
Accolgo volentieri questa prima rettifica di Rita: tra asili-lager della sua infanzia e quelli odierni dei bambini nei campi profughi a Lesbo c’è grande differenza. Preciso, comunque, che l’accostamento non voleva essere un’equiparazione. E lo ritengo in parte valido per una semplice ragione: l’empatia per la sofferenza nei confronti di altri, specie se lontani e sconosciuti, deve pur trovare una base (o forse un alimento) in alcune esperienze che noi abbiamo vissuto, fossero pure oggettivamente minime rispetto a quelle di altri. Altrimenti si rischia uno sguardo neutro e forse indifferente.
2.
Tradizione, uso delle “buone rovine”, classicità.
Non saprei dire, anche dopo le precisazioni di Rita, se e quanto io e lei siamo vicini o distanti su tali questioni. Mi sentirei di concordare in pieno con lei quando scrive: «il lavoro sulle “buone rovine”, dicevo, va fatto con oculatezza, separando il grano dal loglio, essendo anche in grado di riconoscere la potenza delle illusioni, necessarie in una prima fase della lotta, ma che poi, dolorosamente, devono essere lasciate andare al loro destino.».
E, infatti, è quello che mi pare di aver fatto in tutti questi anni; sia con la mia “La polis che non c’è”; sia con la mia insistenza sulle “Insistenze” fortiniane; sia coi miei “disegnini” su “Le gioie dell’educazione cattolica “; e ora con il lavoro su “A vocazzione”, ecc.
I confronti possono essere antipatici. Ma si può negare che i risultati delle nostre rispettive elaborazioni del “lutto” – mie e di Rita (ma potrei fare altri nomi di amici e amiche ) – differiscono parecchio?
Prendiamo quella della classicità. Davvero confondo « il messaggio con il messaggero»? Se ho scritto:
«Io non ho mai pensato che la cultura (e la cultura classica in particolare, ‘alta’ o ‘bassa’ che sia) potesse essere la cultura di tutti. L’ho vissuta e tuttora la considero una proprietà esclusiva (ed escludente) di coloro che ne erano i veri eredi designati: le classi dirigenti borghesi e poi fasciste di questa Italia. Esse l’hanno potuto usare per i loro scopi“ Io non ho mai pensato che la cultura (e la cultura classica in particolare, ‘alta’ o ‘bassa’ che sia) potesse essere la cultura di tutti. L’ho vissuta e tuttora la considero una proprietà esclusiva (ed escludente) di coloro che ne erano i veri eredi designati: le classi dirigenti borghesi e poi fasciste di questa Italia. Esse l’hanno potuto usare per i loro scopi»
è perché faccio tabula rasa della tradizione e non me ne importa?
Non credo. Non faccio come la volpe della favola che non riuscendo a prendere l’uva, la dichiara acerba. Scrivendo queste parole avevo nella mente l’eco di quelle di Brecht e Benjamin, che hanno consolidato non un mio rifiuto rozzo della classicità ma una presa di distanza critica. Considerarla « una proprietà esclusiva (ed escludente) di coloro che ne erano i veri eredi designati» vuol dire per me tener presente i limiti di “universalità” di quella cultura e di quella civiltà, troppo spesso taciuti. Sia di classe (Brecht: « Chi cucinò la cena della vittoria?/ Ogni dieci anni un grande uomo./ Chi ne pagò le spese?»). Sia di cultura ( Benjamin: « Non è mai documento di cultura senza essere, nello stesso tempo, documento di barbarie»).
2.1
Forse può giovare scendere di più nel concreto per capire quale sia la funzione del classico e della classicità nel “sociale” d’oggi, ad esempio nella scuola. Mi sono ricordato di questo articolo su Le parole e le cose, intitolato appunto “ IL MITO DEL LICEO CLASSICO” (http://www.leparoleelecose.it/?p=24662) la cui visione mi pare vicina alla mia. Sintomatici i commenti, tra i quali alcuni miei. Provate a leggerlo.
3.
Mito.
Lasciamo pure aperto il discorso (e forse il duello) su questo tema. Non ho detto che il mito pretenda di ”darci indicazioni per il futuro”. Ho insistito, invece, sul ”progetto di futuro di cui ci sarebbe bisogno”; e espresso il mio dubbio che il sapere mitico possa contribuire a soddisfare tale bisogno.
Sarà poi anche “uno strumento […] sufficientemente versatile”, come dice Rita; (e io non lo disprezzo). E però non mi accontento del mito perché “le sue ‘verità’ non hanno quel valore ‘ipostatizzante’ assunto poi dalla mitologia fondativa religiosa cristiana” (cioè, se ben intendo, è meno vincolante, più ambivalente) o non “è un assioma ma si può aprire a molte domande, ipotesi e sfaccettature”.
Insomma, a me pare che abbiamo proprio bisogno di tornare a scommettere su un futuro; e, proprio perché “sarebbe importante anche cercare di inoltrarsi in sentieri ancora non conosciuti”, il mito e anche la tradizione possono – non dico sempre, non dico in assoluto – essere dei freni.
Vogliamo mettere miti e tradizioni tra le “buone rovine”? Direi sì e no. Proprio prendendo sul serio quanto detto da Rita e da me ora riportato al punto 2:
“il lavoro sulle “buone rovine”, dicevo, va fatto con oculatezza, separando il grano dal loglio, essendo anche in grado di riconoscere la potenza delle illusioni, necessarie in una prima fase della lotta, ma che poi, dolorosamente, devono essere lasciate andare al loro destino”.
Detto in parole nette, tra mitizzare e demitizzare io porrei sempre l’accento sul demitizzare, proprio per sfuggire o limitare “la potenza delle illusioni”.
Benjamin – rileggo – nella XIV Tesi sulla Storia scriveva:
«La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è costituito dal tempo omogeneo e vuoto, ma da quello riempito dell’adesso. Così, per Robespierre, l’antica Roma era un passato carico di adesso, che egli estraeva a forza dal continuum della storia. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi. La moda ha buon fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nel folto di tempi lontani. Essa è il balzo di tigre nel passato. Solo che ha luogo in un’arena in cui comanda la classe dominante. Lo stesso salto, sotto il cielo libero della storia, è il salto dialettico, e come tale Marx ha concepito la rivoluzione».
Io mi sentirei di aggiungere che molti di questi “balzi di tigre nel passato” si sono fatti intrappolare dal passato. E si sono impediti “il salto dialettico”, che è volontà di “infuturarsi”, di immaginare il futuro di un io/noi, di non appiattirsi sul presente (l’esistente) e neppure di farsi intrappolare dal passato.