di Roberto Bugliani
Più di altri racconti d’Edgar Allan Poe, La lettera rubata (The Purloined Letter, 1844) ha consentito, scandite nel tempo, letture di vario orientamento, da quelle “fenomenologiche” attestate sulla dialettica visibile – invisibile fino a patirne le conseguenze abbaglianti, a quelle fondative d’un discorso teorico o comunque istitutive d’una conferma. Nella seconda metà del secolo scorso il racconto di Poe ha stimolato due ascolti – e due sguardi – cruciali e contrapposti: quelli dello psicoanalista (Lacan)[1] e quelli del filosofo (Derrida)[2]. Ma entrambi, troppo attenti a rinvenire nei tratti della lettera rubata (o deviata, si potrebbe dire, dalla sua originaria destinazione) quelle stigme che la familiarizzano col loro discorso analitico[3] (per Lacan l’insistenza del significante e la sua circolazione lungo la linea fallo-castrazione-femminilità; per Derrida decostruzionista la critica alla logica fallo-fono-logocentrica), si sono lasciati sfuggire un resto che, indisciolto, continua a fare nodo. Un eccesso d’attenzione può distrarre tanto quanto una sua insufficienza, dacché nessuna delle modalità di lettura sopra evocate ci pare essersi adeguatamente soffermata sul significato politico elementare contenuto in modo manifesto (nemesi e paradosso insieme d’una lettera cachée) in questo racconto di Poe dotato come pochi altri d’una valenza semantica decisamente plurale. E’ infatti stupefacente come La lettera rubata costituisca un referto cristallino della dinamica che presiede la lotta per l’informazione condotta all’interno d’una cerchia di personaggi di potere, e raffigurata come parte costitutiva del più generale conflitto politico per il Potere, in questo caso integrato dalla lotta tra classi: quella borghese del Ministro e quella nobiliare della Regina, in una Francia dove i regnanti sono i rappresentanti della monarchia restaurata.
Nel proseguire in questa direzione interpretativa è opportuno chiedersi quale sia la posta in gioco del testo di Poe. Ora, in gioco c’è una lettera rubata a un “illustre personaggio” (la Regina) nel boudoir reale e proprio sotto ai suoi occhi, dal ministro D, il quale non può venir accusato del furto giacché si tratta d’un documento “della più alta importanza” che, se “rivelato a un terzo personaggio” (il Re), metterebbe in grave pericolo “l’onore e la sicurezza” della Regina stessa. Alla lettera vengono dunque attribuite le caratteristiche e le prerogative tipiche dell’Informazione: “questo foglio – dirà il Prefetto di polizia a Dupin nell’incaricarlo della ricerca dopo che le accurate indagini dei suoi uomini non hanno portato a nulla – dà a chi lo possiede un certo potere in un certo luogo in cui questo potere è di valore incalcolabile” (“immenseley valuable”; c.n.). Del suo contenuto riservato, perciò, meglio non parlarne: l’affare (affair), raccomanda il Prefetto, esige “il massimo segreto”, e lui stesso perderebbe la posizione che attualmente occupa se si venisse a sapere che l’ha confidato a qualcuno.
Affinché l’informazione possa seguitare a mantenere inalterata la propria forza conferendo “un certo potere” (ma di valore incalcolabile) a chi la detiene, essa deve disporre di due requisiti fondamentali e tra loro apparentemente contraddittori: per un verso non se ne deve sapere nulla, ossia non va resa di dominio pubblico, ma per l’altro, perché il suo “ascendente sia perfetto”, qualcuno (il nemico, il rivale, l’interessato) deve avere contezza di chi la possiede. A siffatte condizioni la lettera, questa cosa di ri-guardo che gli sguardi dei protagonisti interrogano, a cominciare dal “linx eye” del Ministro, si fa latrice di un’informazione tanto più temibile quanto più rimarrà segreta (e qui va registrato un curioso slittamento dello statuto ‘fenomenico’ della lettera: da visibile VS invisibile a palese VS segreto), perché chi possiede la lettera ne conosce il contenuto e dunque potrebbe usarlo come arma per esercitare pressioni e ricatti, o in ogni modo per avvantaggiarsene, a patto però che l’informazione non venga diffusa. “With the employment the power departs”, con l’uso il potere scompare, chiosa acutamente Poe. Per cui se il contenuto della lettera non può venire disvelato, esso tuttavia può passare di mano in mano sulla scena politica dove agiscono anche personaggi non immediatamente assimilabili alla categoria del politico come il Prefetto di polizia, e comunque, in quanto funzionari statali di rango elevato -, ossia, si direbbe oggi, appartenenti al deep state –, altrettanto decisivi per gli affari politici in quanto anch’essi detentori istituzionali d’informazione. E’ questa peripezia circolare della lettera a costituire il motore del racconto, perché senza il furto iniziale, lo sparigliamento che Dupin provvederà a riparigliare sottraendola dallo studio del Ministro mediante uno stratagemma e lasciando un facsimile al suo posto, la lettera in sé sarebbe inutile a tutti gli effetti, sia dal punto di vista della scena politica che essa ha provveduto ad animare, sia da quello della dinamica narrativa.
La funzione strategica che l’informazione svolge nella prassi del soggetto politico conferisce a quest’ultimo l’accortezza necessaria al saper-fare, ossia al sapere agire di conseguenza nei singoli frangenti (si capisce allora perché la presidenza delle istituzioni d’intelligence rappresenti per il politico una carica molto ambita). Anche la gerarchia tra gli uomini politici è tributaria in buona parte della quota d’informazione che è nella disponibilità dei singoli. A grosse linee, lo stesso dicasi per gli Stati nazionali. La potenza della loro politica estera dipende dal quantum d’informazione ottenuto per via diplomatica o d’intelligence. Ecco perché nel conflitto multipolare in corso uno Stato che indebolisca il suo settore informativo, è inesorabilmente destinato a scomparire dalla scena mondiale. E sotto tale aspetto, al netto della specificità di fase e delle sue implicazioni sociologiche, ben poco è cambiato nel passaggio dall’epoca del documento cartaceo a quella attuale di pixel e byte.
Appurato il valore della lettera – o meglio dell’informazione in essa contenuta, in quanto il suo aspetto, fa notare Dupin, era “molto sporco e gualcito” – sul piano politico (in altri termini: appurato il suo valore d’uso), su quello economico il racconto di Poe si presenta come referto della trasformazione in merce dell’oggetto regale dotato di regolare valore di scambio. “Le merci debbono realizzarsi come valori prima di potersi realizzare come valori d’uso” ricorda Marx nel libro I del Capitale. Difatti, il Prefetto deve staccare uno chèque di cinquantamila franchi a Dupin per entrare in possesso della lettera-merce, cifra che vale come compenso per il secondo furto (a incorniciare la scena è pur sempre il capitalismo), quello dupiniano, che, a differenza del primo compiuto dal Ministro, ha lo scopo di neutralizzare la pericolosità della lettera riportandola sul piano istituzionale. Del resto, dopo la transazione tra il Prefetto e Dupin, al primo resterà comunque “un buon margine di beneficio attivo” perché “la ricompensa promessa è enorme”, e la destinazione finale della lettera è d’essere non già riconsegnata bensì venduta alla Regina.
La procedura mercantilista propria della società borghese ottocentesca viene in tal modo rispettata da tutti i personaggi politici del récit, vincenti o perdenti che siano. Purtuttavia il ruolo svolto da ciascuno ha peculiarità proprie, e ci pare a questo proposito utile dare un’occhiata ai ruoli giocati dal Prefetto e da Dupin, mentre del ruolo del Ministro abbiamo già visto l’ambito d’esercizio puramente politico (per cui in questa ottica, e al netto di come la dipinge Dupin, la figura del Ministro è la figura del Politico per eccellenza). Per farlo partiamo dai dialoghi iniziali tra il Prefetto e Dupin, condotti nello studio di quest’ultimo. Nel mettere al corrente l’investigatore del furto della lettera e delle successive ricerche al fine d’ottenere da lui un parere, il Prefetto dice: “The fact is, the business [c.n.] is very simple indeed” [“Si tratta d’un affare molto semplice, infatti”], al che Dupin ribatte: “Perhaps it is very simplicity of the thing [c.n.] which puts you at fault” [Forse è la stessa semplicità della cosa a indurvi in errore”]. Una doppia nomin-azione contrassegna fin dall’inizio la lettera. Essa è business ma anche thing. Entrambi i termini, infatti, intrecciano lo stesso affair. E la stoffa del racconto viene pertanto doppiata da una piega anfibologica che manterrà per l’intero suo cursus.
Se dunque Dupin è colui in grado di contrapporre thing a business separando il valore d’uso politico della cosa da quello di scambio della merce; è colui che s’impossessa della lettera preziosa lasciando al suo posto un Ersatz di nullo valore; è il ladro in guanti bianchi che sa che l’abito (dimesso: la busta) non fa il contenuto, egli è anche il professionista che per individuare la merce sa che deve mettere a fuoco dapprima la sua evidenza fisica come cosa, ma dopo questo colpo da maestro non mancherà di ricavare dalla cosa il suo tornaconto economico, il suo business, che anzi sollecita attraverso il racconto dell’aneddoto del dottor Abernethy[4].
Messo a tacere il Ministro privandolo della sua ascendenza che è insieme minaccia, la voce mercantile delle istituzioni (la Regina che promette un’ammirevole ricompensa, il Prefetto che la riceve) è integrata dalla voce del professionista (Dupin) che rivendica il suo onorario. E a questo punto business e thing tornano a ricongiungersi e a scambiarsi i propri valori (uso e scambio), fornendo un impareggiabile ritratto basilare della società borghese dell’epoca.
[1] Si veda Jacques Lacan, seminario sulla Lettre volée pronunciato il 26 aprile 1955 (in J. Lacan. Il Seminario, libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Einaudi, 2006).
[2] Jacques Derrida, seminario Le facteur de la vérité (1975), trad. it. Il fattore della verità, Adelphi, 1978. In francese il termine facteur possiede anche il significato di “postino”.
[3] Da allora La lettera rubata è sempre stata tirata in ballo in ogni scritto concernente la controversia Derrida VS Lacan, e da allora il racconto è stato costretto a ballare seguendo un ritmo non suo. Si può dunque dire che il racconto di Poe è stato compromesso dalle letture lacaniana e derridiana.
[4] Un vecchio avaro escogita il modo di scroccare un parere medico al dottor Abernethy. Cosicché, nel corso d’una conversazione a casa d’amici, l’avaro sottopone al dottore il suo caso facendolo passare per quello d’una persona immaginaria. Al termine dell’esposizione, l’avaro chiede al dottore che cosa lui avrebbe consigliato di prendere a quella persona. “Ma di prendere un parere!”, è la pronta risposta del dottore.
…trovo giusta l’interpretazione della “lettera rubata” di E.A.Poe che Roberto Bugliani ci presenta, come riferita al potere che si autorigenera continuamente apparentemente mutando di forma, come per un gioco di prestigio. Un potere illusionista che avanza, retrocedendo attraverso una macchina del tempo a gambero…La lettera sgualcita, dalle verità irrivelabili, viene rubata ma sostituita per permettere alla gerarchia del potere di rinforzarsi attraverso la connivenza e l’omertà…un po’ come il “cambiare tutto per non cambiare nulla”del Gattopardo utile al potere sia all’interno che all’esterno…
Giusta osservazione. E qui l’analisi, per essere completa, dovrebbe comprendere anche quella sorta di doppio senza alcun valore, in questo caso, se non quello della forma (l’aspetto esteriore), che è l’Ersatz