di Rita Simonitto
I suoi genitori gli avevano dato un nome impegnativo, Benedetto, forse perché lo avevano aspettato a lungo e finalmente questo maschietto era arrivato a riempire la loro vita che, ormai tutta presa da casa e soprattutto lavoro, sentiva il bisogno di un qualche cosa di ‘caldo’, che trasmettesse affetti e buoni sentimenti. E, non ultimo, anche il desiderio di passare in eredità a qualcuno il cospicuo patrimonio di famiglia che negli anni si era accumulato.
Così Benedetto si trovò davvero ‘benedetto’ dalla sorte nel godersi i suoi primi anni di vita, riempito di ogni attenzione possibile: ogni suo desiderio era subito esaudito, anche se il bambino, quanto a desideri e pur avendo una fervida immaginazione, non avrebbe saputo che cosa di altro chiedere. La vita gli andava più che bene così, se la spassava a giocare con le dita dei piedi e delle mani e, quando scoprì lo specchio, si divertiva moltissimo a fare le smorfie con la faccia. E gli venivano anche bene, data la sua configurazione minuta (eh, sì: malgrado tutte le attenzioni e le cure prodigate, cresceva gracilino, quattro ossetti tenuti assieme da un po’ di ciccetta). Gracilino sì, ma non sgraziato.
Così fu che l’asilo lo saltò, seguito a casa da una tata, a sua volta molto soccorrevole e affettuosa. Per sua sfortuna Ben, questo il suo diminutivo, non aveva cuginetti o cuginette con cui condividere alcunché in quanto i suoi genitori erano a loro volta figli unici e non avevano parenti prossimi se non di quinto grado e anche anche. E i bambini che incontrava ai giardinetti gli davano uno sguardo di sfuggita e tiravano via, ma sul fatto Ben non ci faceva tanto caso. Perché si era fatta una sua personalissima idea che le cose dovessero funzionare così come stavano funzionando, questo non creava problemi e, di conseguenza, non c’erano problemi.
Non era, no, un brutto bambino. Come già detto i suoi lineamenti e la sua corporatura erano aggraziati… ma si aveva l’impressione che ci si trovasse davanti ad uno schizzo a matita, non incompleto ma… indeciso… non era facile definire l’impressione che se ne ricavava.
Con queste credenziali fisiognomiche Benedetto fece il suo ingresso alla scuola elementare. E lì la musica cambiò lasciandolo attonito e anche un po’ atterrito davanti a quella nuova realtà che gli si stava appalesando.
Nel suo dorato isolamento precedente, con la tata che gli faceva anche un po’ da maestra e ragionevolmente pensava che il nutrimento spirituale e culturale avrebbero potuto sostenere quei quattro ossetti molto di più che il costringerlo a ingurgitare pasti succulenti, Ben aveva avuto modo di arricchirsi interiormente non soltanto attraverso le favole ma anche con racconti tratti dai miti, dalle sacre scritture, dalle vite dei santi. Vi accedeva con avidità e, pur non comprendendo necessariamente tutto quanto (il più delle volte andava a trafugare i libri dalla biblioteca paterna dove c’era un settore dedicato alle letture per ragazzi, in previsione al loro accesso da parte di un Ben ulteriormente cresciuto), Ben si sentiva già appagato di quanto apprendeva.
E il bambino sembrava così affamato che la tata non aveva cuore di frenarlo troppo in quella passione.
Fu così che Ben si imbatté nel racconto de “Il giocoliere della Madonna” che lasciò in lui un segno non indifferente.
Vi si narra che, ai tempi di Luigi Re di Francia, un bravissimo giocoliere, costretto dalla fame, entrò per caso a far parte della esperienza monastica – la sua occupazione di giocoliere, per quanto abile lui fosse, non era certo redditizia – e in quell’ambiente si trovò a doversi confrontare con tutti quei monaci che eccellevano, chi in un’arte, chi in un’altra, per celebrare la Santa Vergine. E lui, povero Barnaba (così si chiamava il giocoliere) che cosa avrebbe potuto fare? E diventò triste, rifuggendo anche la compagnia degli altri confratelli.
Così ebbe una intuizione. Chiudersi nella cappella e prodursi nei suoi esercizi mirabolanti davanti all’immagine sacra della Vergine. I monaci, scopertolo, sulle prime gridarono al sacrilegio, poi pensarono che fosse soltanto un povero mentecatto di cui avere pietà, ma quando, spiando la scena, videro la Madonna scendere dal suo trono per andare a detergere con il suo manto la fronte del sudatissimo Barnaba, si ricredettero e pensarono che ognuno rende grazie a Dio per quello che è nelle sue risorse.
Dunque il nostro Benedetto, che si sentiva isolato a scuola dai suoi compagni nonostante fosse il primo della classe, e sperimentava che adesso quell’isolamento – a differenza di quanto aveva vissuto quando andava ai giardinetti – lo faceva soffrire, ebbe anche lui, come il giocoliere Barnaba del racconto di Anatole France, l’idea di mettere in gioco le sue abilità istrioniche: strabuzzare gli occhi mentre con le dita si torceva la bocca creando un effetto comico strappalacrime dal ridere.
L’effetto fu sorprendente! Il suo trasformarsi in pagliaccio permetteva ai suoi compagni di avvicinarsi a lui quasi con più dimestichezza. Così sembrarono passare in secondo piano le abilità cognitive di Ben che non facevano più paura: lui non era altro che un povero guitto, abilissimo nel fare le smorfie… niente di più. Così, presero a chiamarlo, sia pure bonariamente, “Straocio” (= strabico).
Come accade di frequente quando cerchiamo di applicare improponibili ricette (Benedetto non era strabico, lo faceva per gioco e poi aveva altre qualità che aveva piacere gli venissero riconosciute), e poi ci rendiamo conto che qualche cosa non torna, e che le nostre aspettative rimangono deluse, ci troviamo di fronte ad un dilemma: o continuare imperterriti oppure cambiare registro.
Ma cambiare registro non è sempre facile: nel frattempo molti fili si sono intrecciati e modificare quei nodi non solo può essere difficile ma a volte anche molto doloroso.
Il fatto è che a Ben, ormai diventato un giovinetto di belle speranze pur essendo accompagnato, anzi, a volte preceduto, da questo soprannome di ‘Straocio’ con relativa richiesta di esibizione, i bulbi oculari incominciavano davvero a dolere. E non c’erano mantelli della Vergine che venissero a lenire quel dolore! Che fare?
Come trasformare quello ‘strabismo’(fittizio) – che porta a non cogliere la realtà nelle condizioni in cui essa si presenta alla percezione visiva ma ne altera i parametri di profondità e di distanza – in una esperienza metaforizzabile?
Memore delle sue letture che aveva continuato ad approfondire, sapeva che la nostra visione del reale spesse volte è condizionata da forme di ‘strabismo funzionale’, vale a dire che vediamo spesso ciò che ci aspettiamo di vedere e non sappiamo prendere la giusta distanza dagli eventi che dobbiamo leggere.
Ma come tradurre tutto questo in un gioco altrettanto divertente di quando strabuzzava gli occhi e, all’unisono, storceva la bocca in varie espressioni di sorpresa, di disgusto, oppure, prendendosi per il naso, di diniego?
Quella immediatezza clownesca veniva a perdersi nel linguaggio che, per quanto più ricco, non godeva dell’impatto forte che la visione dà. Da non sottovalutare poi il fatto che non sempre le persone gradiscono di essere messe a contatto con prospettive altre che comporterebbero comunque delle possibili revisioni al loro pensiero.
Benedetto era ormai un giovane diciassettenne, non era certo diventato robusto ma aveva mantenuto una figura corporea armonica di cui lui, amante del bello, non si dispiaceva. Si era fatto qualche amico con il quale parlava volentieri del più e del meno e anche qualche ragazza al liceo gli lanciava una occhiatina maliziosa. Ma era come perseguitato dalla prestazione di ‘Straocio’, che ogni tanto veniva fuori e lui incominciava a sentirsi umiliato. E il senso di umiliazione, il dover sottostare, a questo punto, ai desiderata degli altri, incominciò a introdurre delle crepe nell’entusiasmo di Ben, entusiasmo che lo aveva sempre portato per mano nell’affrontare momenti ben più difficili, perché quando si è piccoli gli ostacoli che incontriamo sono veramente dei mostri spaventosi.
L’idea di contrapporre alla proposta di fare ‘Straocio’ un gioco di indagine alla Sherlock Holmes sulle varie prospettive da cui si può guardare alla realtà, giostrando con gli indizi e facendo roteare gli ‘occhi della mente’ per guardare l’esistente da più angoli prospettici, pur essendo un interessante salto qualitativo quanto agli impatti seduttivi dell’evidenza immediata, non ebbe il successo sperato.
Senza dubbio, Ben stesso non si appassionò abbastanza. D’altronde, per quanto uno cerchi di attingere alle proprie riserve interne di passione e di entusiasmo, c’è comunque bisogno di un qualche “rifornimento esterno dei pozzi”.
Quel lento prosciugamento interno non produsse nell’immediato delle evidenze: apparentemente tutto procedeva come prima. Ben continuava ad essere uno studente modello, prese la maturità a pieni voti, una giovane fanciulla gli stava mostrando una affettuosa attenzione… ma Ben era come roso da un tarlo: doveva sempre dimostrare qualche cosa per poter esistere come persona? Anche il suo essere venuto al mondo… e lì Ben si perdeva in congetture, suo stile abituale, certo, ma che adesso gli stava complicando la vita. Purtroppo faceva fatica ad accettare il principio di semplificazione, ovvero di tralasciare tutto ciò che può essere un di più.
Pur avendo avuto delle ottime credenziali dal suo Prof. di Filosofia non sapeva quale decisione prendere nella scelta della Facoltà: avrebbe seguito quel corso di studi per realizzare le aspettative del Prof. oppure…
Chiara, la ragazza con cui si frequentava al liceo, aveva incominciato a frequentare anche la sua casa con grande soddisfazione dei genitori di Beniamino che vedevano in lei già la futura nuora… Era una personcina a modo, dolce, di buona famiglia, ovviamente con beni al sole (cosa che non guasta mai) e sembrava dimostrare un sincero affetto per il loro beneamato figliolo che, purtroppo, stava attraversando un momento di impasse per quanto riguardava la scelta degli studi. Lei invece, più determinata, e senza tante ‘fisime’ per la testa, aveva scelto Giurisprudenza. Non era chiaro se fosse davvero la sua passione o seguisse le orme di sua madre, penalista importante. Ma la ragazza non si poneva, evidentemente, delle domande a tale proposito.
Chiara amava avere attorno a sé persone per cui la loro casa (nel frattempo si erano sposati) era sempre piena di ospiti. Momenti di socialità importanti che venivano comunque selezionati con cura.
Fu così che ad uno di questi incontri conviviali, qualcuno, non si sa attraverso quali vie, si ricordò di ‘Straocio’ e chiese a Ben di prodursi in quella rappresentazione che aveva costituito il suo successo da bambino.
Ci fu un attimo di gelo a fronte di quella richiesta un po’ particolare, non si capiva se c’era anche della provocazione in mezzo. Ma Ben non si sottrasse e con le sue smorfie catturò l’attenzione di quel pubblico di ‘dame e cavalieri’ che lo omaggiò di un lungo applauso finale.
Fu così che le esibizioni di ‘Straocio’ divennero una costante di quegli incontri trovando sempre Ben accondiscendente, nonostante la fatica e la sofferenza.
Ma era come se ormai quella fosse diventata l’unica cosa che sapeva fare senza dover affrontare conflitti e delusioni.
Conegliano, 18.07.2020
…certo se una persona si sente sempre in dovere di pagare una penale agli altri per esistere…non riconoscendoselo come diritto assodato o, almeno, acquisito…Povero Ben, c’è chi si carica di un fardello insopportabile…Come puo’ uscirne, senza ricadere in un’altra trappola o dover azzerare tutta la propria storia? Rita e i dilemmi quasi irrisolvibili..
Il gioco della verità. Il conformismo sociale di Straocio, figurina aggraziata, bravo a scuola, mogliettina affettuosa, deve venire smascherato, il mondo sociale esige la verità che la visione stereoscopica si deformi. E lui lo sa, smentisce il suo quieto sé, ne soffre ma accetta una visione… stroboscopica, più veloce, più lenta del reale, storcendo la bocca, afferrandosi il naso, svelandosi preda di un fuori che corre per i fatti suoi.
In questa narrazione, ben articolata, manca a mio avviso la ‘voce’ di Straocio, o qualche sua personale riflessione, che lo avrebbe reso più vivo, più in carne ed ossa; alcune sono, sì, presenti in modo indiretto; ma proprio per questo sembrano più considerazioni dell’autore che manifestazioni del protagonista. Comunque, anche questa può essere una scelta: forse la dimensione del racconto non includeva la presenza di dialoghi diretti o di flussi di coscienza. Resto comunque dell’opinione che il lettore deve arrivare a conoscere il protagonista più dall’interno che non dalle riflessioni dello scrittore, che potrebbero sconfinare in una scrittura di tipo saggistico.
Ringrazio Annamaria per la sua empatica sottolineatura “Povero Ben, c’è chi si carica di un fardello insopportabile…”, unita al dubbio di una drammatica irrisolvibilità del problema. Così, come stanno le cose, credo di sì.
Ringrazio anche Cristiana per la sua notazione che segnala l’importanza di una visione stereoscopica (o binoculare o stereopsia) che permette al cervello di elaborare le percezioni visive che provengono differentemente dall’occhio destro e dall’occhio sinistro, mettendole assieme e facendone una sintesi. Ciò che ne deriva è che noi percepiamo una rappresentazione della realtà e non la realtà stessa.
E quest’ultima considerazione mi porta al commento di Franco Casati (che ringrazio) e a cui voglio cercare di rispondere in merito alla sua legittima osservazione: “manca a mio avviso la ‘voce’ di Straocio, o qualche sua personale riflessione, che lo avrebbe reso più vivo, più in carne ed ossa”.
Sono senz’altro d’accordo, solo che per potermi togliere dalla mia posizione di narrante e dare spazio alla voce di Straocio (fra l’altro, ormai non più Benedetto!), avrei dovuto replicare il dramma di L. Pirandello “Sei personaggi in cerca di autore”, personaggi che vogliono raccontare in prima persona (e non attraverso la mediazione di attori e svincolandosi anche dal pensiero dell’autore che li creò) il loro dramma vitale mai vissuto fino in fondo. Entrando così in contatto con sofferenze inenarrabili. Ma, ovviamente, io non sono Pirandello.
Nello steso tempo, io volevo dire anche altro:
a) che noi siamo sempre rappresentazioni di rapporti socio/familiari, culturali ed economici; e che, oggi più che mai, questi fanno violenza alla nostra capacità di poterci vivere come individui, pur facendo parte del complesso sociale. Anziché essere ‘soggetti’, diventiamo assoggettati. Questa è anche la ragione per la quale molte volte non abbiamo voce ma ‘siamo parlati’. Nello stesso tempo, in ogni caso, io non potrei dare la voce a Straocio, anche se lo facessi parlare, perché il tutto sarebbe comunque filtrato dalla mia percezione.
b) Il modello di pensiero adattativo è rappresentato dal primo ritiro di Ben, quando ai giardinetti vede i suoi coetanei evitarlo, e ritiene che il mondo proceda così e che quindi, se non si rileva un problema non c’è nessun problema.
Solo che questo modello si estende poi a macchia d’olio, applicandosi ad ogni situazione. Se un bambino è buono, obbediente, bravo a scuola e poi, una volta cresciuto, si comporta da bravo cittadino rispettoso delle leggi, ecc. ecc. che cosa si può volere di più? Non c’è problema.
Ed ecco inserirsi un habitus, un adattamento assunto senza capacità critica, perché per poter assumere una capacità critica bisogna uscire dalla visione stroboscopica, immediata, ed entrare in una visione binoculare che contempla anche l’altro e la relazione con l’altro. E questa operazione di separazione è molto impegnativa. Meglio adattarsi e recitare la parte del “come tu mi vuoi”.
Quindi, per concludere, certamente l’impianto narrativo sia di questo racconto – come quello di Jamaica Rum e quello che seguirà questo ‘trittico’, “C’era una volta un Re…” – ha il taglio di un saggio (come correttamente osserva F. Casati).
Perché intendevo ‘mostrare’ (non ‘dimostrare’) quanto spesso, soprattutto a partire dalle situazioni familiari – le prime con le quali i ragazzi entrano in contatto -, si tende a mostrare solo una faccia della medaglia, quella che fa vedere che tutto va bene, che non ci sono problemi, mentre l’altra faccia, quella che dovrebbe segnalare che invece dei problemi ci sono, viene rifiutata. Ma non scompare. Va a finire nelle profondità emotive di questi giovani che non si attrezzano a gestire “e – e” (mettendo assieme ciò che funziona con ciò che non funziona) ma utilizzano soltanto la modalità “o – o”, o “buono” o “cattivo”; o “giusto” o “sbagliato” senza operare le opportune valutazioni.
Chiedo venia ai lettori per il ritardo della mia risposta e per la sua lunghezza.
Gent. Rita, fra addetti ai lavori si collabora. Attendo i prossimi racconti. Dickens e Dostoevskij sono stati fra gli autori che maggiormente hanno affrontato il tema dell’infanzia e dei giovani. Quest’ultimo non si spiegava perché potesse esistere la violenza sui bambini, ne soffriva nell’anima. E’ stato l’incarnazione dello scrittore, che ha pagato con l’impegno e il sacrificio di una vita. A presto.
@ Franco Casati
La ringrazio molto per la sua sensibilità che cerca di andare oltre all’apparenza.
Certo, c’è la violenza manifesta di fronte alla quale, giustamente, tutti si indignano. Ma c’è una violenza sotterranea che, in quanto non vista, è come se non ci fosse. Ma è quella più letale poichè non è di facile decifrazione e quindi, inesorabile, segue il suo corso.
Il dramma si presenta quando, di fronte all’evento tragico, le persone interpellate recitano la solita litania dello stupore: “Nulla faceva presagire…; erano persone per bene…; non c’erano conflittualità di sorta…”.
Ma era proprio così o si voleva che fosse così per tacitare ogni possibilità di mettere in crisi un sistema, di minime dimensioni oppure più estese?
n.b. Jamaica Rum è stato già pubblicato da Poliscritture