di Rita Simonitto
Mi presento subito.
Mi chiamo Aldo e mia moglie, Ada.
Gli amici ci chiamano i coniugi AA, dalle nostre iniziali. Abbiamo una figlia, Cristina, iscritta a Lingue e che adesso si trova a New York per un corso di perfezionamento.
Quanto a me, ho fatto il panificatore per dare una mano a mio padre sia prima che dopo la mia Laurea in Scienze Economiche, non riuscendo a trovare, con quel titolo, subito una occupazione che mi potesse dare una certa autonomia finanziaria.
Non che mi dispiacesse il lavoro di panificazione, a parte il doversi alzare alle tre di ogni mattino per poter sfornare il pane alle prime luci dell’alba per coloro che, altrettanto mattinieri, andavano a lavorare nelle fabbriche. Perché tutta quella fatica veniva poi ampiamente ricompensata da una fragranza che si espandeva lungo i vicoli del paese e stimolava l’acquolina in bocca! Cosa c’è di più sfizioso che sbocconcellare un panino ancora caldo di forno? E le ceste di pane, un piacere per la vista e per l’olfatto oltre che per il palato: michette, ciabatte, baguette (avevamo imparato una ottima ricetta francese!), pane toscano e poi pane all’olio, pane con i cereali, col sesamo, con la zucca (quand’era la stagione!), con l’uvetta… E ancora grissini, grissotti (la nostra specialità) e tutte le forme di soffiate, treccine, colazzi… E mia madre al banco, la clientela caciarosa, il giornale del paese si scriveva lì in quella bottega profumata di lieviti, di vaniglie… La vita paesana – la chiesa con il suo sagrato a gradini se ne stava un po’ più su, fuori, su una collina contornata da filari di viti-, il pulsare della vita paesana, dicevo, si snodava tra quelle quattro/cinque botteghe: generi alimentari, il negozio di tessuti (che, a dire del proprietario, lì si facevano arrivare modelli esclusivi da Parigi!) e l’immancabile barbiere, un gigolò che esercitava sia per una clientela maschile che femminile. Ovviamente i bar, con i tavolini fuori e gli arredamenti farlocchi che cercavano di copiare, malamente, la modernità. Solo uno aveva mantenuto la sua struttura di osteria, con i tavoli di legno i cui ripiani erano costellati dai ghirigori lasciati dal gocciolio dei bicchieri di vino serviti, audacemente, fino all’orlo.
Poi mio padre se ne andò così rapidamente da poter dire che aveva ancora la pala da forno in mano e mia madre senza dubbio pensò che la cosa migliore che poteva fare era quella di seguirlo, quale che fosse il cammino che lui avesse intrapreso. E, d’altronde, quella era stata sempre la loro intesa.
Mia sorella se ne era andata, anzi scappata, molto presto, aveva poco più di 19 anni (di cinque più piccola di me) sposandosi con un ‘crucco’, così (bonariamente o meno) chiamavamo i tedeschi. Costui, di passaggio in questo paese, si era innamorato contemporaneamente e della bontà del nostro pane e poi della bella fornarina. E se l’era portata via. Senza dubbio, in quella città del nord, Fiorenza si sentiva molto più a suo agio.
Rimanevo io. A bottega chiusa, al momento un po’ senza arte né parte, fintantoché non mi arrivò la proposta di fare il consulente in una azienda dolciaria, sfruttando le mie esperienze sul campo oltre che i miei studi. E, fortunatamente, mi trovai soddisfatto. Così potei anche pensare seriamente a mettere su famiglia con Ada, insegnante di educazione fisica alle medie. Tutto qui.
No, e poi anche la nascita di Cristina ecc. ecc.
E Cristina che oggi è a New York per i suoi studi e Ada che si è presa un lungo permesso dalla scuola per scendere giù al Sud a seguire sua sorella malata di tumore.
E io? Mi sono guardato allo specchio questa mattina e non ho visto niente. Ovvero, sì, mi sono visto, ma era come se non fossi io, senza stimoli, senza emozioni (ma quelle da quanto tempo non si presentavano più al mio cospetto?). Per questo, tempo addietro, ho iniziato a chattare, un po’ per curiosità e un po’ per noia. Sinceramente non ne ero rimasto molto soddisfatto.
Nulla di importante rimaneva dentro di me e mi sentivo come un deserto che ha bisogno di una pioggia che rimetta in vita il sistema e invece arrivano soltanto pioggerelline che, oltre ad essere insufficienti, deprimevano ancora di più la speranza di trovare almeno un’oasi che refrigeri un po’.
E inaspettatamente è arrivata Marion, una donna di bell’aspetto. Si presenta come una persona sola alla ricerca di condividere con qualcuno i propri pensieri, i propri gusti. Separata a causa di incompatibilità, così afferma, e adesso a 48 anni, sente più il bisogno di avere una persona amica che la possa comprendere, disposta, a sua volta a mettersi a disposizione dell’altro. Ed effettivamente, dai nostri scambi via chat-line mi colpisce la sua profondità di pensiero anche se, a volte, mi viene il sospetto che alcune sue espressioni siano un po’ racimolate qua e là. Il fatto è che mi si è creato come un bisogno di questo contatto per cui non sto tanto a sofisticare. Mi piace comunicare con lei, è anche di battuta facile, il che, in una conversazione in cui si tratta anche di aspetti di una certa intimità, non guasta. Senza dubbio mi permette anche di contenere, attraverso la sua giocosità, le telefonate che Ada mi fa dal Sud, mettendomi troppo a contatto con la sofferenza alla quale lei stessa è esposta nell’assistenza a sua sorella.
In questo modo Marion lenisce l’impatto con quel dolore che la mia compagna attraversa e dove io non mi sento in grado di accompagnarla.
Finché un bel giorno Marion mi propone di incontrarci, per conoscerci di persona. La cosa mi sconcerta perché lo avverto come dare un attestato di realtà a qualche cosa che finora è appartenuta ad uno spazio ‘virtuale’.
Marion percepisce la mia riluttanza, ride e dice “Aldo, solo un caffè! Niente di più. Poi si deciderà il da farsi: magari andare a cena o accontentarci del caffè e dell’incontro”.
Non vorrei sembrare scortese e nemmeno pusillanime. Quindi accetto. Mi scopro a ridere, facendo la battuta “A te la scelta delle armi”. Anche Marion ride e mi fa il nome di un locale alla periferia della città, un Bar che porta un nome pretenzioso “Bar Progresso”. Ma quando ci arrivo, puntuale all’appuntamento, tutto quel progresso non lo vedo e nemmeno Marion.
Mi accomodo ad un tavolino, prontamente servito da una camerierina tutta fossette, forse il progresso sta lì, nella velocità nel servire gli avventori.
Ordino un caffè, oggi non l’ho preso e quindi posso permettermene anche due. Il servizio, ovviamente, è rapido. Intanto che aspetto cerco sui ripiani qualche giornale ma ne trovo soltanto uno di macchine e motori. In mancanza di niente!
Ai tavoli accanto ci sono probabilmente gli habituè del posto che bivaccano lì in attesa dell’ora di cena.
Vicino a me c’è un tavolo con dei giocatori di carte.
“Signore, signore”, mi sento interpellare. “Ci starebbe a fare partita? Il nostro amico deve andare a casa e ci manca il quarto. Ci sta?”.
Sono anni che non gioco a carte e ho perso la memoria di come si fa oltre che la lucidità necessaria per essere un partner adeguato al gioco. Però, piuttosto che risfogliare per l’ennesima volta la rivista di motori, accetto.
Sono operai in pensione, così mi sembra di capire, cordiali e cortesi. Mi ricordano i tempi ‘caldi’ di quando si andava a volantinare fuori dalle fabbriche. Che ne è stato di tutto quel fermento? Guardo le loro facce. Avranno alcuni anni più di me, chissà qual è stata la loro storia lavorativa. Queste domande mi distraggono e vengo richiamato all’ordine dal mio partner di gioco. Per fortuna vinciamo, ovviamente lui è molto capace e ciò mi tranquillizza un po’. Nell’intervallo della distribuzione delle carte chiedo dove lavorano e mi citano una fabbrica di laterizi della zona, ma non mi sembra di conoscerla. Uno di loro sghignazza e dice: “siamo andati in pensione prima di trovarci messi sul lastrico! Quell’azienda adesso è in bancarotta!”
Così succede che fra una partita e l’altra, fra una smazzata e l’altra mi raccontano storie incredibili che mi stanno disturbando più del fatto che Marion tardi ancora ad arrivare. Mi confronto con uno sdoppiamento interno che mi fa male. “Ma io dov’ero? Dove sono stato in tutto questo tempo?”. Eppure quei fatti intrisi di soprusi e ricatti mi riaffiorano alla memoria, c’erano anche sui quotidiani, ma ancora più prepotente mi si appalesa il mio aver tarpato tutto. Impiegate dell’amministrazione licenziate perché incinte. Operai morti sul lavoro e testimoni tacitati con laute mazzette, certo che era trapelato tutto! E poi che cosa era successo? Nulla di fatto! Non si può mica mettere in ginocchio un’azienda per questo! Solo che poi l’azienda cadde in ginocchio da sola, a danno dei dipendenti e non certo dei titolari che avevano già provveduto a salvaguardare il loro capitale.
Nel gruppo a carte decidiamo di cambiare i partner, forse i miei compagni percepiscono che non sto molto attento. Così mi affiancano ad un vero ‘campione’ del gioco: così, anche se io faccio ‘scarpetta’, il gioco prosegue comunque. E’ il mio gioco interno che non procede comunque, perché la domanda “E tu dov’eri” non mi molla di un secondo.
E’ passata quasi un’ora e mezza da che sono lì a quel tavolo. Nel frattempo c’è stato un cambio di avventori nel locale, di Marion niente di niente. La solerte cameriera-fossettine ci ha già portato un giro di birrette con un po’ di patatine da sgranocchiare. Dei clienti iniziali siamo rimasti solo noi quattro.
Le pause fra una partita e l’altra si fanno più lunghe e ci fermiamo volentieri a parlare, così, in confidenza, come se ci conoscessimo da una vita. A spizzichi vengo a sapere alcune cose di loro, della loro situazione attuale. Oltre che colleghi di lavoro, sono amici da molti anni e vivono in condomini poco distanti da quel bar. Uno è separato e vive da solo, un altro abita con la sorella e il terzo ospita un nipote fintantoché non troverà un alloggio dove trasferirsi…
La camerierina se ne va, cambia il turno e passa a salutare. Si vede che ha molta dimestichezza con loro, li chiama per nome. A quello che vive da solo dice “Berto, domani ti faccio trovare il latte e le uova” e poi si rivolge a me, accattivante “Se non ci bado io a questi uomini!”.
Mi chiede come mai non mi ha mai visto da quelle parti e se sono un rappresentante di qualche prodotto… Ricambiando il sorriso, le dico di no, sono passato di lì per caso.
Riprendiamo la nostra partita, il mio partner tiene alto il numero delle vincite, sono contento per lui anche se, nonostante i miei turbamenti interni continuino a togliermi la lucidità, sto rapidamente facendo progressi con grande soddisfazione anche da parte degli avversari.
Dietro il bancone si sta muovendo il cameriere del nuovo turno, sento il bisogno di mettere qualche cosa sotto i denti e chiedo ai miei compagni di gioco se posso offrire loro un giro di qualche stuzzichino. Si guardano l’un l’altro, quasi indecisi se accettare l’offerta di questo ‘straniero’ e poi, Berto a gran voce chiama al tavolo il cameriere. E ordiniamo.
Mi sembra di essere ritornato indietro nel tempo, quando si facevano le riunioni politiche nei bar, trangugiando velocemente qualche cosa perché poi alcuni operai riprendevano il loro turno di lavoro, ma rimaneva forte l’impressione di portare avanti un tentativo di cambiamento, qualunque strada poi prendessero gli eventi e le persone con cui si entrava in contatto. Ma non è la nostalgia a prendermi alla gola al punto che ogni tanto tossicchio, come se i bocconi facessero fatica ad andare giù. Sono altri i bocconi da inghiottire. E’ quella specie di sudario ghiacciato ed agghiacciante che ha coperto tutto e tutti. Sembra che oggi l’esigenza prima sia quella di schivarci in qualche modo dalle grinfie della morte. Anche il futuro di cui si parla e parla è soltanto una collana di slogan vuoti che lentamente ci stringerà al collo e ci farà perdere ogni speranza residuale.
Nessun progetto serio. Nessun ideale che si impasti con un progetto. Niente.
Eppure bisogna ripartire, anche se non so da dove.
“Lei, signore… sta poco bene?” Il loro richiamo mi riporta in qua, li tranquillizzo dicendo che sono soltanto un po’ stanco.
“Non ci siamo nemmeno presentati”, dice uno di loro, come se il potermi dare un nome servisse a farmi rientrare nel gruppo. Così ci presentiamo, “Piacere”, “Piacere” e dopo aver “spolverato” i piatti con gli spuntini (anche loro un po’ affamati lo erano!), riprendiamo a giocare.
Dalla specchiera davanti a me vedo l’ingresso. Ed ecco entrare Marion. Dalla foto che mi ha inviato, la riconosco immediatamente, ma fin da subito balza all’evidenza la sua equivocità, più che dall’abbigliamento dal comportamento, affettato: sa di promiscuo. E poi, come può presentarsi all’appuntamento con oltre due ore di ritardo?
Mi scarruffo i capelli, mi slaccio il colletto della camicia e velocemente mi rimbocco le maniche. Questione di secondi,via quella maschera di elegante borghese e divento a pieno titolo uno di loro, dei miei compagni.
Nel mentre tengo d’occhio Marion che sembra cercarmi fra gli avventori e non individuandomi si dilegua, guardo le mie carte e… asso pigliatutto! Abbiamo vinto! Sto piangendo, ma rapido mi asciugo gli occhi:
“E’ l’emozione – dico -. Era da tanto che non giocavo”.
Conegliano, 26.07.2020
Bello!!!
…trovo questo racconto di Rita Simonitto bello sotto molti aspetti, di descrizione e di riflessione- vita di paese d’altri tempi, il profumo del pane, un passato di lotte operaie che ritorna alla memoria del protagonista con nostalgia se paragonato alla piattitudine del presente…-, ma trovo il finale un po’ liquidatorio per quanto riguarda il comportamento di Aldo che non sembra concedere alcun beneficio del dubbio alla misteriosa Marion… Per me sarebbe stato piu’ opportuno incontrarla-o: non era il demonio, il ritardo poteva avere delle ragioni, lui-lei, Marion, aveva parlato di un caffe’ insieme e nulla piu’, il luogo scelto per l’appuntamento era modesto…Non che non veda i pericoli degli incontri di questo tipo, li sconsiglierei soprattutto ai giovani, ma non mi sembra che Aldo corresse un serio pericolo…Un senso di colpa perchè la moglie aveva scelto di stare accanto alla sofferenza, mentre lui “si divertiva”? Non direi, solo una questione di cortesia…
Stavo per scrivere un mio parere quando ho letto il commento di Annamaria Locatelli constatando che, sostanzialmente, riflette il mio, soprattutto per quanto riguarda l’epilogo del racconto, che avrebbe potuto avere ben altri sviluppi, date le premesse. Ma anche questo stesso epilogo, ideologico, scontato, per apparire credibile avrebbe dovuto risultare maggiormente circostanziato e meno contraddittorio in alcuni punti che non sto qui ad evidenziare, imprimendo oltretutto un’ accelerazione così forte al ritmo della narrazione da romperne l’equilibrio.
Peccato, perché avevo preparato pasticcini secchi e thè aromatizzato…
@ Annamaria e @ F. Casati
Peccato, sì. Peccato che il racconto non abbia dato gli esiti sperati (e peccato anche per il thè e i pasticcini).
Certamente, può essere che il ‘crescendo’ che chi scrive ha voluto imprimere all’andamento della “agnizione” da parte del protagonista fino alla “vincita” finale non si sia sviluppato bene o non sia stato sufficientemente chiaro. Càpita.
Il nucleo tematico sta in quell’ “Aspettando”, ovvero ciò che succede nelle attese. In ogni caso, il personaggio di Marion è un pretesto, appartiene al virtuale e lì deve rimanere. Il reale sta da tutt’altra parte.
A modello (si parva licet) è Godot, nella famosa opera beckettiana “Aspettando Godot”: Solo che in quel dramma si assiste ad una assurda e infinita ripetizione, una prigionia caratterizzata dalla mancanza di senso e senza via di uscita.
Per il mio protagonista, la via di uscita sta nel ‘reale’ e nelle sue contraddizioni, non nel virtuale.
Grazie comunque dei commenti.
… Grazie a te, Rita, per il chiarimento… Per me Marion rappresentava una sfida all’interno del reale. Ciao Annamaria