Su Franco Buffoni, SILVIA È UN ANAGRAMMA (Marcos y Marcos 2020)
di Elena Grammann
Koma ut. Agli inizi del X secolo dopo Cristo molti Norvegesi, piuttosto che sottostare alle pretese centralistiche del re HaraldrHárfagr, preferirono abbandonare la patria ed emigrare nella selvaggia e inospitale Islanda. Il fenomeno si chiamò koma ut (letteralmente “venir fuori”).
Fra il XIX e ilXX secolo l’espressionecoming out – precisamente la stessa – è stata ed è tuttora usata “per indicare la decisione di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale” (Wikipedia)– ovviamente quando si discosti da quello che ci si aspetterebbe di default. E non è detto che abbia richiesto, e in determinati contesti ancora richieda, minor coraggio e determinazione che non l’imbarcarsi su una nave vichinga alla volta dei ghiacci di un’isola lontana.
Nel passaggio dal significato 1 al significato 2 si può leggere idealmente la transizione, durata secoli, da un’antropologia dominata dall’idea di collettività e delle regole atte a mantenerla, a un’antropologia centrata invece sul singolo e sui suoi imprescindibili diritti.
Il libro di Buffoni è una richiesta di coraggio e determinazione, un’esortazione al coming out, a sollevare il velo sulle varianti naturali dell’orientamento sessuale, e questo non solo per franchezza e rifiuto dell’ipocrisia, ma come propedeutico a una nuova normalità in cui l’orientamento sessuale non sia attribuito d’ufficio sulla base del certificato di nascita, ma il risultato di una libera e autonoma presa di coscienza di sé e del proprio desiderio (quando non sia, come appare verosimile in tempi recenti, un prodotto della libera creazione del sé). Quando questa nuova normalità sarà pienamente raggiunta, i traumatismi rivoluzionari del coming out saranno superati e obsoleti.
Ancora però non lo sono, e non bastando l’esortazione al presente, Buffoni scava negli ultimi due secoli alla ricerca di coming out possibili, probabili, fortemente o labilmente indiziari, li promuove alla luce, o anche li estorce a chi non ha voluto, o potuto, farli. Questa, in sintesi, l’operazione – lodevole negli intenti, non sempre convincente nel metodo e nei presupposti.
Prose saggistiche. Su “Nuovi Argomenti” una scelta di estratti è così brevemente introdotta: “Silvia è un anagramma è un libro di prose saggistiche di Franco Buffoni”. La definizione è corretta. Le prose, di varia lunghezza e liberamente collegate per analogie, coincidenze temporali, affinità e opposizioni, sono raggruppate in cinque sezioni, tre delle quali più o meno monograficamente dedicate ai personaggi che vediamo in copertina: Leopardi, Pascoli, Montale. Al di là della ripartizione in sezioni tuttavia mi pare chesi possano distinguere tre nuclei fondamentali, abbastanza fluidi e intersecantesi ma comunque riconoscibili: uno studio biografico su Leopardi essenzialmente basato sulle lettere del poeta a Ranieri; un martirologio; la questione del neutro accademico eterosessuale.
Martirologio. Il martirologio è efficace e convincente. D’altra parte ogni collettività, variamente individuata, ha il suo, ed è caratteristica dei martirologi l’essere retoricamente, quindi emotivamente e persuasivamente, efficaci e convincenti[1].
Leopardi. La tesi dello studio biografico su Leopardi è che egli sia stato “quasi certamente” omosessuale. Le citazioni dalle lettere a Ranieri sembrerebbero sostenere la teoria; altre considerazioni (Perché non si è sposato – lui, il figlio del conte Monaldo, in un’epoca in cui i matrimoni erano un fatto di interesse e accordi fra famiglie? Perché, invece di star lì a lamentarsi, non si faceva le contadine di suo padre?)molto meno. Del resto, la vera o presunta omosessualità di Leopardi potrebbe esserci indifferente. Ma non lo è stata a lui, direbbe Buffoni. Ci stiamo spostando in zona martirologio? O il punto è un altro, il punto è che l’omosessualità è la vera scaturigine della poesia e della filosofia leopardiana? Che Dio non esiste,per parafrasare Tommaseo, non perchéle petit comteè gobbo,ma perché è omosessuale in un contesto in cui l’omosessualità non è un’opzione? In altre parole, qual è l’importanza della (corretta) biografia per l’opera?
Ovviamente sarebbe assurdo sostenere che la vita dell’autore, la sua individualità empirica, rimanga al di qua di un’ipotetica barriera che la separa dall’arte, dalla produzione dell’arte; ma già quando si passa a considerare la fruizione il discorso si fa parecchio più sfumato.
Per giustizia biografia è il sottotitolo del libro di Buffoni. Che l’esercizio di giustizia biografica si applichi esclusivamente a scrittori e intellettuali è dovuto al fatto che “purtroppo non si hanno le testimonianze degli operai gay, dei fattorini gay, ma solo degli scrittori gay. O almeno di quel poco che hanno lasciato”.Sembrerebbe quindi che a determinare la sceltasia un fattore esterno e accidentale: la presenza o assenza di documenti. Ma mentre, anche in presenza di documenti, il lavoro di ricerca su operai e fattorini sarebbe rimasto circoscritto alla biografia, è evidente che con gli scrittori esso si allarga inevitabilmente all’opera, dando origine a una certa ambiguità di cui Buffoni è consapevole, tant’è vero che ripetutamente si interroga o interroga altri sull’importanza della biografia per l’opera – nel senso della produzione, certo, ma anche di una corretta fruizione e interpretazione.
Torniamo a Leopardi e facciamo un esperimento sul campo. Ammetto che il campione è esiguo, essendo costituito unicamente da me; ma garantisco la maggiore obiettività possibile. Dunque, dopo aver letto il libro di Buffoni riprendo in mano il ciclo di Aspasia, dietro cui si celerebbe Antonio Ranieri. Le pur scarse note di una vecchia edizione tascabile indicano ripetutamente, come ispiratrice del ciclo, la nobildonna fiorentina Fanny Targioni Tozzetti. A riprova dell’efficacia della scrittura di Buffoni, a ogni menzione del nome sobbalzo come perun’indecente impostura. Quando però cerco di analizzare la reazione, scopro che è la versione esacerbata di un fastidio preesistente – preesistente alla lettura di Buffoni e a ogni suggestione di omosessualità leopardiana. Un fastidio che poteva prendere la forma di “Chi è costei? Cosa c’entra? Come si permette di immischiarsi o di essere immischiata?” – e questo non per un pregiudizio idealista, ma perché è la reazione richiesta dal testo -che ovviamente non cambia se al posto di “costei” ipotizziamo “costui”.
Tracce. Nell’opera di Leopardi non c’è nulla che supporti un’ipotesi di omosessualità. Possiamo affermarlo perché, se ci fosse, Buffoni lo avrebbe trovato. Per altri, più recenti poeti, singoli versi e interi componimenti vengono sottoposti alla questione finché non dicono tutto quel che hanno da dire e anche di più. E la corrispondenza privata arriva dove non arrivano i versi. Dopo aver citato stralci di lettere di Clemente Rebora,Buffoni si chiede:
“A quali labbra sta pensando Rebora quando scrive: “…la parola senza bacio lascia più sole le labbra”?”
Posto che non lo sapremo mai, a chi o a che cosa gioverebbe saperlo? Non alla comprensione della poesia (Sacchi a terra per gli occhi), che di questa informazione non ha bisogno. La domanda ha valore di insinuazione, che assieme al detto e non detto delle lettere deve persuadere il lettore dell’omosessualità di Rebora.
Psicologismi. A che pro? Per giustizia biografica – ma la giustizia biografica così perseguitafinisce per caricare di psicologia qualcosa – l’opera – che psicologico non si vuole, che si vuole metafisico, dialettico, storico, ma non psicologico – nemmeno nel senso di una sublimazione.
Fare giustizia biografica, vera o presunta, nel caso di uno scrittore,o ha il senso di una resa dei conti postuma (come per Eliot e Montale, presunti omofili-omofobi, omofobi perché omofili), che come ogni sottolineatura delle “cattiverie” dell’autore nuoce più che non giovi all’opera, o comunque, nella ricerca ossessiva delle tracce, finisce per fare grande spazio a dati empirici, spesso incerti, in qualcosa che, quale che sia il punto di partenza, non empirico vuol essere ma sistemico e strutturale.
Travisamenti. Altra cosa naturalmente quando essere a conoscenza dell’omosessualità dell’autore è essenziale per una corretta comprensione del testo, che viene invece consapevolmente travisato per esercizio di censura. E qui Buffoni ci serve il gustosissimo caso di una sua poesia (Rewind) inserita in un’antologia per le scuole medie, il cui curatore, pur di non menzionare l’omosessualità dell’autore, fa dell’io lirico un tifoso dell’Inter.
Come evitare questi e più gravi travisamenti? Buffoni propone, anzi richiede espressamente, che a fianco di ogni nome di autore venga indicato l’orientamento sessuale: Rewind, di Franco Buffoni (omosessuale); L’isola sarà guardata nella sua bellezza, di Milo De Angelis (eterosessuale). Ma a parte che per i poeti defunti e non autodichiarati l’indicazione sarebbe sempre fino a prova contraria e il cartellino necessariamente ballerino, perché non aggiungere altre determinazioni quali tirchio/generoso, socievole/misantropo, malinconico/solare, borghese/proletario ecc.? Perché, dice Buffoni, la sessualità è centrale per l’identità.
Sessualità. Porre la sessualità al centro dell’identità biografica–operazione che richiederebbe comunque un fondamento un po’ più ampio della semplice citazione da Parise: “Ogni uomo, uno scrittore, un poeta, un artista è quello che è la sua sessualità” –potrebbe essere tuttavia meno dirimente di quanto si immagina Buffoni. Dico questo in un’ottica per nulla passatista. Il + dell’acronimo LGBT+ tende virtualmente all’infinito. Non si tratta più di una sessualità “forte” che incanala la vita in un paio di varianti naturaliriducibili alle categorie omosessuale-eterosessuale; ma di una vita (e di una identità) sempre più indeterminata che ingloba una sessualità sempre più accidentale e polimorfa. La delibera dell’OMS che definisce l’omosessualità “una variante naturale della sessualità umana” (17 maggio 1990) arriva tardi; arriva quando già la natura ha perso i pezzi ed è sempre più sostituita dall’artificiale.
Neutro accademico eterosessuale. L’obiettivo più generale di Buffoni è lo smantellamento del “neutro accademico eterosessuale, spacciato per universale” che ancora domina nella critica italiana. Ciò significa il rifiuto dell’ipotesi eterosessuale di default, cioè fino a lampante prova contraria. Buffoni chiede che l’onere della prova passi a carico dell’eterosessualità. Cioè, l’ipotesi ora sarebbe: omosessuale fino a lampante prova contraria. Non è che un ribaltamento di astratta universalità, ma perché no; se da un’ipotesi di default dobbiamo partire, perché non da quella. In effetti non c’è motivo, e bisogna ammettere che il grigiore accademico è positivamente fastidioso e in molti casi sicuramente falsificante. Il problema però è che poi nel libro di Buffoni ci si trova davanti a cose che lasciano un po’ perplessi. In senso argomentativo intendo:
“In conclusione, sull’argomento degli scritti di Leopardi relativi all’omosessualità, oltre ai brani e agli episodi citati [che non dimostrano nulla, n.d.r.], e naturalmente oltre alle lettere inviate a Ranieri, resta il dubbio – avanzato da più parti – che a Recanati ancora vi siano degli inediti giovanili, bloccati dal pudore degli eredi e dall’anelito al neutro grigiore eterosessuale degli accademici.”
Resta il dubbio? E cosa vuol dire? Su quale base viene avanzato il dubbio? Ha senso trattare degli ipotetici inediti leopardiani come il bosone di Higgs?
“Ma il contino Giacomo sorrideva anche malizioso leggendo il contemporaneo commento di Marsilio Ficino al Simposio di Platone e compulsando il Castiglione e il Poliziano: Giove e Ganimede come daddy e twink. Chi sarebbe stato il suo daddy? Forse Adriano, sognandosi Antinoo? Oppure Aristogitone configurando sé stesso come Armodio?
Di certo non ne poteva parlare con il daddy vero, sulle prime fiero poi geloso di lui, delle sue doti letterarie. E nemmeno col fratello Carlo, che aveva in testa solo l’idea fissa delle contadine giovani a carponi. O con Paolina, affettuosa ma troppo intrigante e pettegola. Men che meno con la signora madre marchesa Adelaide …”
Trascinati lungo la sfilza di personaggi con cui il contino Giacomo non ne poteva parlare, dimentichiamo che il ne, il complemento di argomento, ciò di cui il contino non poteva parlare, è una scena nella fantasia di Buffoni.
“Come Pound – suo mentore e ‘miglior fabbro’ aveva capito benissimo (basta saper leggere tra le righe nelle lettere che Pound gli scrive) – il problema di Eliot era di nascondere e possibilmente far sparire ogni traccia della sua omosessualità.”
Il punto non è se Eliot fosse o no omosessuale. Il punto è la frase: “basta saper leggere tra le righe”. Chi sa leggere tra le righe? Chi decide chi sa leggere tra le righe? Perché spesso, a leggere tra le righe, quello che si vede è soltanto il proprio occhio.
“Recentemente, in una conversazione con Milo De Angelis, da sempre grande lettore di Cesare Pavese, mi venne spontaneo suggerirgli: “Non ti è mai venuto in mente che Cesare Pavese potesse essere omosessuale?” “Ma non ci sono evidenze” mi rispose.
Proprio questo è il punto. Mentre se uno è eterosessuale le “evidenze” ci sono sempre, se uno è omosessuale fa di tutto perché non si capisca, perché non si sappia.”
Quindi: se ci sono evidenze che uno è omosessuale, è chiaro che è omosessuale. Mentre se non ci sono evidenze è molto probabile, quasi certo, che sia ugualmente omosessuale.
C’è qualcosa che non va.
[1]È di oggi (13.09.20) la notizia che nel Napoletano una ragazza è stata investita e uccisa dal fratello per punirla del suo orientamento sessuale “deviante”. E poi ci meravigliamo degli islamici.
Io per me mi sono fatto l’idea che ‘sto Buffoni sia, leopardianamente parlando, un garzoncello scherzoso. Cioè uno che, ridendo e scherzando, si è trovato un posto all’università – dove si prende uno stipendio praticamente senza lavorare -, riesce a farsi pubblicare nelle antologie per le scuole medie – poveri bambini -, e ora, come se non bastasse, vuole ” fare notizia ” con questa storia del Giacomo gay. Tutte cose inverosimili ma possibili nella ” stagione lieta ” del Grande Debito Pubblico – che, ormai lo sappiamo, non finirà mai. Del resto da quando Dario Fo è diventato premio Nobel per la letteratura abbiamo capito che niente è impossibile. Buffoni di tutto il mondo etc.
Mi chiedo a chi o a cosa giovino i “coming out postumi” ( bellissimo il titolo dell’articolo ), e se abbiano qualche utilità quelli correnti. Etichette, etichette, etichette….. Un’operazione di riduzione della complessità (di individui e scrittori ) che mi intristisce, mi avvilisce.
Sembra anche a me che il lavoro di riesumazione si risolva, invece che in un arricchimento della conoscenza, in un impoverimento dell’oggetto – riducendosi la ricerca all’acquisizione, spesso forzata, di un dato che così com’è significa poco e dal quale si pretende invece che spieghi tutto.
Credo che fra i diversi intenti che si mescolano e si confondono in questo libro ci sia anche, non dichiarato, qualcosa come la ricerca di padri nobili. Il che finisce necessariamente per enfatizzare lo stigma, anziché, come sarebbe auspicabile e come secondo Buffoni avviene nei paesi civili, eraderlo fino all’indistinzione.
I NUOVI ICONOGRAFI:
“Si sta allestendo l’iconografia
di massimi scrittori e presto anche
dei minimi. Vedremo dove hanno abitato,
se in regge o in bidonvilles, le loro scuole
e latrine se interne o appiccicate
all’esterno con tubi penzolanti
su stabbi di maiali, studieremo gli oroscopi
di ascendenti, propaggini e discendenti,
le strade frequentate, i lupanari se mai
ne sopravviva alcuno all’onorata Merlin,
toccheremo i loro abiti, gli accappatoi, i clisteri
se usati e quando e quanti, i menù degli alberghi,
i pagherò firmati, le lozioni
o pozioni o decotti, la durata
dei loro amori, eterei o carnivori
o solo epistolari, leggeremo
cartelle cliniche, analisi e se cercassero il sonno
nel Baffo o nella Bibbia.
Così la storia
trascura gli epistemi per le emorroidi
mentre vessilli olimpici sventolano sui pennoni
e sventole di mitraglia forniscono i contorni.”
Eugenio Montale, da “Diario del’71 e del’72”
Per quanto riguarda la critica biografica- nata con Psicoanalisi ed Arte di Freud- Eliot nel saggio “Le frontiere della critica” fa delle considerazioni interessanti a proposito. Eliot riporta questo brano di C.G.Jung: “è generalmente ammesso che gli eventi fisici possono essere considerati da due punti di vista, quello della meccanica e quello dell’energia. La veduta meccanicistica è puramente casuale: l’evento è concepito come risultato di una causa….”. Eliot ritiene per analogia che si possa spiegare un’opera poetica esaminando la qualità, nonché le cause che l’hanno ispirata. La critica biografica incorre nel rischio di basarsi eccessivamente sull’analisi degli eventi vissuti dal poeta. Inoltre rischia di rivelare una curiosità morbosa su aspetti probabilmente irrilevanti, come ad esempio la vita sessuale dei letterati. Ad esempio William Bartley III° ha pubblicato una serie di testimonianze sui presunti incontri omosessuali di Wittgenstein. Sembra che il filosofo viennese negli anni’20 abbia prezzolato dei prostituti del Prater di Vienna. Anche se non conosciamo ancora la veridicità dei fatti o meno viene comunque da chiederci: per comprendere la personalità ieratica e schiva dell’autore del Tractatus Logico-Philosopicus sono più importanti questi presunti incontri da un quarto d’ora oppure i dibattiti certamente avvenuti con Russell o le passeggiate realmente avvenute sulle sponde del fiume con il matematico Ramsey? Ci accorgiamo che nella critica biografica il punto di vista della “meccanica” non deve mai prevalere sul punto di vista de “l’energia”. Spesso infatti l’ispirazione artistica scaturisce dal tessuto discontinuo ed intermittente di istanti apparentemente insignificanti, che albergano nel subconscio dell’artista nel periodo di incubazione, di cui nessun postero potrà essere al corrente. Quindi affidarsi esclusivamente alla “meccanica del vissuto”, cioè ai fatti nudi e crudi, quando anche a supposti scandali, della vita può essere la causa primaria di inesattezze e distorsioni. Il critico biografico esaminando frequentazioni intellettuali, annotazioni diaristiche, epistole e carteggi, dovrebbe cercare di intuire la personalità dello scrittore o del poeta, cosciente che non potrà mai sapere il momento che lo spinge verso la scrivania. Al di là di questi casi-limite infamanti per la memoria del personaggio, motivati soltanto da una squallida logica di mercato editoriale, è indiscusso in certe occasioni l’apporto dato da strumenti analitici nel dominio di questa terra di frontiera tra psicoanalisi e critica letteraria. Infatti la psicoanalisi dà un contributo notevole soprattutto nell’ambito della letteratura del’900, contrassegnata dal lato edipico. Pascoli ad esempio, dopo la tragica scomparsa del padre, ucciso in una rapina nel 1895, cercò per tutta la vita di ricreare un nuovo nido con le rimanenti sorelle Ida e Maria. Secondo il grande critico letterario Pietro Citati anche Proust sarebbe vissuto all’ombra di un fantasma: quello della madre, che lui stesso riteneva di aver lasciato deperire, trascurandola. Perciò l’immenso edificio sistematico de “La recerche” riveste lo stesso significato dell’accecamento volontario di Edipo: lo redime parzialmente dal senso di colpa e dal rimorso. Un altro rischio della critica biografica è la ricerca incessante di scandali presunti, su cui esercitare un moralismo da prefiche e beghine. Ma in questo modo non sarebbe più critica biografica, ma pettegolezzo da salotto buono, se non in certi casi diffamazione, che gli eredi dovrebbero perseguire legalmente. Certi biografi scandalistici si dovrebbero ricordare quel che scrisse Lukacs a riguardo, ovvero che l’arte sotto un certo aspetto è antitetica alla realtà; il rapporto tra un uomo e la rappresentazione della realtà è sostanzialmente diverso dal rapporto tra l’uomo e la realtà stessa. Un altro pericolo è poi il fraintendimento tra etica e morale. Croce scrive in “Etica e politica”: “….perché è evidente che le pecche che possa eventualmente avere un uomo fornito di capacità e genio politico, se concernono altre sfere di attività, lo renderanno improprio in quelle sfere d’attività, ma non già nella politica. Colà lo condanneremo scienziato ignorante, uomo vizioso, cattivo marito, cattivo padre, e simili; al modo stesso che censuriamo, in poeta giocatore e dissoluto e adultero, il giocatore, il dissoluto e l’adultero, ma non la sua poesia, che è la parte della sua anima, e quella in cui di volta in volta si redime. Si narra del Fox, dedito alla crapula e alle dissolutezze, che, poi che fu venuto in fama e grandezza di oratore parlamentare e di capopartito, tentò di mettere regola nella sua vita privata, di diventar morigerato, di astenersi dal frequentare cattivi luoghi; ed ecco che sentì illanguidirsi la vena, infiacchirsi l’energia lottatrice, e non ritrovò quelle forze se non quando tornò alle sue consuetudini. (…..)Ma con questo non si è detto nulla contro l’opera politica che il Fox compiè, e , se egli giovò al suo paese, l’Inghilterra ben gli fece largo nella politica, quantunque i padri di famiglia con pari prudenza gli avrebbero dovuto negare le loro figliuole in ispose”. La distinzione che io faccio tra etica e morale è semplice: uno può essere libertino o può autodistruggersi, basta che non faccia del male ad alcuno. Già Montaigne aveva intuito la relatività dei costumi e delle leggi nelle società umane. Lo stesso Pascal scriveva: “non si vede niente di giusto o di ingiusto che non cambi di qualità cambiando il clima, tre gradi di elevazione dal polo capovolgendo tutta la giurisprudenza(…). Ridicola giustizia delimitata da un fiume. Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là”. Comunque indipendentemente dalle leggi e dai costumi attualmente ci sono alcuni principi etici, chiamati diritti universali: questi diritti universali devono essere rispettati. Il mancato rispetto da parte di una persona di un diritto universale fa di questa una persona, che si macchia di una grave colpa etica. Naturalmente Caravaggio fu un genio, ma non possiamo omettere che fu anche un assassino. Al contrario un libertino, che non fa del male a nessuno, può essere considerato immorale o meno a seconda dei costumi del suo paese, ma non commette alcuna colpa etica. A mio parere in Italia per troppo tempo e perfino ai nostri giorni molti fraintendono etica e morale, per dirla in parole più povere moralità pubblica e moralità privata. Certo cattolicesimo deformato e perbenista ha sempre considerato che una moralità privata irreprensibile significasse automaticamente una moralità pubblica irreprensibile. Intendiamoci ho sempre fatto una distinzione tra cristianesimo e cattolicesimo. Il cristianesimo possiede una filosofia alta e profonda. Indro Montanelli ha spesso dichiarato che, nonostante fosse laico e scettico nei confronti della religione, il cristianesimo, esistendo da duemila anni, possedesse delle qualità spirituali, che soddisfacevano le esigenze interiori di milioni e milioni di persone nel mondo. Il cattolicesimo moderno invece spesso è caduto nel fariseismo. Certo moralismo ha perfino condotto alla miopia nei confronti dell’educazione sessuale. I moralisti non hanno mai voluto che i sessuologi e gli esperti del settore facessero educazione sessuale nelle scuole. Di conseguenza la vera educazione o diseducazione sessuale degli italiani in pratica è stata la pornografia. La pornografia in menti ancora acerbe può sviare e deformare le persone. Si pensi solo ai miti propinati dalla pornografia come il priapismo, la ninfomania, etc etc. Tutto ciò a mio avviso è avvenuto perché in Italia il sesso è sempre stato considerato un vizio e non un’esigenza fisiologica della persona. Parlare di sesso era considerato fino a pochi anni fa un tabù da non infrangere, mentre invece su certe ruberie e certe prepotenze che danneggiavano la collettività i moralisti ci passavano sopra. Ritengo che anche nella letteratura moderna ci sia stata confusione tra moralità privata e pubblica. L’artista come uomo è eticamente irreprensibile, quando non causa danni volontariamente ad alcuno. Un artista è eticamente irreprensibile quando non deforma la realtà, né la mistifica, ma piuttosto quando la mette a fuoco, seppur trasfigurandola. Quindi l’artista eticamente irreprensibile ha un’adeguata onestà intellettuale tale da non oscurare certi elementi della realtà scomodi per le sue certezze ideologiche o di fede. L’artista “onesto” sente gravare su la sua coscienza l’imperativo categorico di ricercare incessantemente la verità umana e di dire al pubblico le verità a cui è giunto provvisoriamente. Come scriveva G. Orwell nel saggio “Il ventre della balena” l’artista deve essere testimone e mai discepolo della realtà. Ma tutto ciò mi spinge ad un’osservazione di più largo raggio, che non riguarda solo il rapporto letteratura e vita, ma si estende fino al rapporto tra individuo e società. Eugenio Scalfari nel suo libro “Razza padrona” fa un’ulteriore distinzione riguardo alla moralità: moralità privata, moralità pubblica, moralità aziendale[pagina 140- edizione Baldini-Castoldi]. Secondo Scalfari molti grandi industriali avevano una moralità privata irreprensibile(erano fedeli alla moglie e buoni padri di famiglia), allo stesso tempo però la loro morale pubblica era inesistente(erano totalmente disinteressati ai problemi della collettività) e infine la loro morale aziendale era machiavellica ed utilitaristica, intesa solo e soltanto ai loro interessi personali. A mio avviso invece la moralità aziendale fa parte della moralità pubblica, infatti l’articolo 41 della Costituzione recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali”. Purtroppo però l’industria spesso si dimentica dell’utilità sociale e dei danni arrecati alla collettività. A mio avviso invece la moralità pubblica dovrebbe predominare sulla moralità privata. Spesso i politici italiani si sono maggiormente interessati al non destare scandali privati, piuttosto che a migliorare le condizioni di vita dei cittadini. Spesso infatti i politici per quanto riguarda l’ambito della moralità pubblica hanno fatto prevalere la retorica sui fatti concreti.
Su questo tema mi sono già espresso in questo sito, perciò non mi ripeterò. Tuttavia, presa visione dell’intervento di Elena Grammann, relativo alla lettura critica del saggio di Franco Buffoni, voglio esprimere apprezzamento e condivisione nel merito e nel metodo.
Con l’occasione aggiungo una breve nota. Uno psicoterapeuta andrebbe incontro a reali difficoltà nel valutare spinte omosessuali significative in un paziente, per obiettive e molteplici considerazioni scientifiche. Figuriamoci, pertanto, se è possibile ipotizzare una simile valutazione sulla base di ‘tracce’ (scritte o comportamentali) personalmente interpretate. La ricerca forzata dell’omosessualità in Leopardi o in altri autori, che mai si sono dichiarati tali, al fine di una maggiore comprensione dell’opera, comporterebbe delle difficoltà interpretative veramente ardue, vanificate dall’esiguità dei risultati, nel migliore dei casi, come dimostra l’intervento di E. G.
Sulla ricerca, invece, di una visibilità attraverso questa operazione da parte di F. B. si è già detto, a pensare male di lui. Della difesa di una bandiera potrebbe anche essere, ma avrebbe solo una valenza limitata. Questo atteggiamento critico potrebbe anche significare la spia di un disagio esistenziale da parte di F.B. , ma il problema appartiene a lui. Resto dell’opinione, come ho già avuto modo di dire, che ci troviamo di fronte a un fenomeno di sotto-cultura, moralismi esclusi, con tutte le conseguenze perniciose che porta con sé, forzando la mano all’autore e snaturando e sminuendo il valore dell’opera.
Questa svilente operazione contro un poeta come Giacomo Leopardi, che abbiamo imparato ad amare fin da giovani anche per le figure di Nerina e di Silvia, e che rappresenta una delle pietre miliari nel percorso della poesia e del pensiero moderno, ed è una delle eccellenze della nostra tradizione letteraria, mi risulta particolarmente invisa. E’ il segno di un’arroganza ideologica che va ben al di là di una presunta difesa contro l’omofobia. Invito. perciò, a una seria riflessione.
…non mi sembra per niente interessante questa indagine di Franco Buffoni sull’orientamento sessuale di letterati del passato, indagine che non sfocia da nessuna parte e che non viene assolutamente richiesta o rivendicata (?)…Mi sembrerebbe, invece, interessante una ricerca sulla repressione -e, spesso, conseguente autorepressione- di bisogni, istinti, desideri nel corso dei secoli esercitata su persone ritenute fragili o diverse nell’ambito della società. Vere persecuzioni da parte di istituzioni religiose, sociali e politiche, in grado di mortificare, spesso nel senso letterale, la natura umana nelle sue piu’ comuni manifestazioni private ed affettive…Sto pensando a persone di orientamento sessuale vario ( non diverso), ma anche alla storia delle donne…Forse corro troppo pensando ad un esempio che conosciamo tutti: la monaca di Monza…Poteva lei “venir fuori?”
In realtà nel libro di Buffoni c’è, e anche marcata, la denuncia della repressione e autorepressione – quello che lui chiama con scelta lessicale efficace lo “stigma” che a lungo ha afflitto e in parte ancora affligge gli omosessuali. E’ il nucleo tematico che chiamo (sbrigativamente) martirologio. Ma Buffoni si concentra esclusivamente sull’omosessualità (maschile) e le difficoltà che ha incontrato, mentre il campo privato-affettivo incanalato a forza e dolorosamente in strutture rigidamente imposte, come fai notare, è molto più vasto e differenziato. In altre parole, il verso “in che peccai bambina”, che Buffoni riferisce allo stato d’animo dell’adolescente che si scopre omosessuale in un contesto familiare e sociale omofobo, individua, leopardianamente, un dolore molto più fondamentale e legato allo stato umano.
Il problema del libro di Buffoni, in generale, è che mischia militanza anti-omofoba e critica letteraria, cioè due cose che non hanno ragione di andare assieme.
Grazie della lettura e del commento …
“al di là di questi casi-limite infamanti per la memoria del personaggio”… Mi riferivo a Wittgenstein in particolare. Questa precisazione dovevo farla.
Gentile Davide Morelli,
conosco poco la biografia di Wittgenstein, tuttavia, proprio in nome della differenza che fa lei fra etica e morale (o meglio etica e comportamento privato), e pure sulla scia della bella poesia di Montale che ci ha offerto, io lascerei cadere del tutto l’aggettivo “infamanti”.
Gentile Elena, tutto sommato ha ragione, anche se potrei muovere delle obiezioni. Condivido comunque pienamente il suo saggio breve. Riguardo a Wittgenstein ritengo che il miglior libro sulla sua persona sia quello di Norman Malcolm. Non credo che sia una agiografia e ritengo che renda bene l’idea della vita del grande filosofo.
Una precisazione. Quando nel paragrafo Sessualità suggerisco che Buffoni, con le sue rivelazioni che dovrebbero smuovere chissà che acque, non è affatto all’avanguardia ma anzi piuttosto alla retroguardia, intendo questo:
“Oggi, 23 settembre, è la giornata mondiale della visibilità bisessuale.
È una giornata importante che ci permette di ribadire che le persone bisessuali vengono costantemente invisibilizzate da parte di persone eterosessuali, ma anche da persone LGTQI+, complici una visione binaria del mondo, in cui solo gli orientamenti monosessuali sono possibili e validi.
Molte persone faticano infatti a capire che si possa provare attrazione verso più di un genere senza che sia una tappa verso l’omosessualità o un attimo di curiosità. Che non si tratta di indecisione. Che chi è in una relazione monogama ha scelto una persona, non un orientamento: rimane bisessuale, qualunque sia il genere dell’altra persona. Che alcune persone BI+ sono poliamorose, altre no e tutte vanno rispettate. Che chi si identifica BI+ non è transfobic*, perché l’orientamento sessuale fa riferimento al genere, non al sesso assegnato alla nascita. Che ci si può riconoscere in identità e orientamenti sessuali differenti, che possono cambiare durante il corso della vita.
Questi sono solo pochi esempi dei tanti pregiudizi che riguardano la bisessualità e segnano il grado di ignoranza in materia.
Stiamo vivendo un periodo storico in cui viene discussa l’importantissima legge Zan contro l’omotransfobia, che – ci auguriamo – sarà in grado di tutelare finalmente le persone LGBTQI+ dalle discriminazioni subite. Purtroppo però, la sua discussione e il trattamento mediatico che ne viene fatto sono l’ennesimo esempio di bicancellazione: sebbene la B sia sempre presente nell’acronimo LGBTQI+, lo stesso non si può dire dalla sillaba “bi”. Due lettere che possono sembrare insignificanti, ma che sottolineano l’ennesima dimenticanza e invisibilizzazione delle persone bisessuali.
Vogliamo una legge contro l’omo-bi-transfobia.
Le parole hanno un potere, quello di rendere visibile ciò che altrimenti non lo sarebbe: usiamolo.
Basterebbe una sillaba.”
https://arcigayreggioemilia.it/2020/09/23/basterebbe-una-sillaba-in-piu/
Gentile Elena, sono d’accordo. Ma ritornando agli scrittori… e se avesse ragione Calvino che in “Eremita a Parigi”(Mondadori, 1994) scriveva che la condizione ideale per uno scrittore fosse quella “vicina all’anonimato” perché è allora che “la massima autorità dello scrittore si sviluppa, quando lo scrittore non ha un volto, una presenza, ma il mondo che egli rappresenta occupa tutto il quadro”(pag.194)? Se contasse solo l’opera sia in vita che dopo?
E’ un po’ il mio modo di vedere la cosa. La biografia dell’autore mi è sempre sembrata una scorciatoia poco affidabile per la comprensione dell’opera – anche quando l’opera sia romantica e programmaticamente soggettiva.
Però ci sono autori che vorrebbero vivere in una casa di vetro, vorrebbero che di sé si veda e si sappia tutto. Per questi l’opera non è un fine, ma qualcosa che serve alla vita per la vita (la loro in primis, ma anche quella degli altri, per i quali vogliono costituire un modello).
E ci sono altri scrittori o intellettuali infatuati fino al feticismo di questo o quell’autore, che ne inseguono le tracce nei luoghi che ha abitato dove pare ne avvertano la presenza, assieme a un’essenza volatile ma concentrata dell’opera.
Insomma ci sono diverse posizioni, che richiedono tutte una certa finezza.
… si dà molto importanza a Buffoni (la cui fine è segnata dal suo cognome! – la fine dei buffoni la si conosce da tempi antichi e di loro non resterà nemmeno un ricordo)… scriverne ancora è deprimente per chi amcora insiste a considerarlo poeta – non lo è mai stato, e d’altronde, lui ignorante gioca suilla ignoranza che è maggiore degli altri… per cui consiglio l’indifferenza… quel guardare e passare oltre…
questo personaggio che vuole anche ingannare percrchè crede di essere un traduttore di qualche lingua slava di cui non sa una parola!
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quanto riguarda Dario Fo e il Nobel ricevuto io fui d’accordo anzi felice, e ironizzare
è un errore !
antonio sagredo
” si dà molto importanza a Buffoni” (Sagredo)
Non mi pare. E qui non è neppure preso in considerazione come poeta o come traduttore ma come critico accademico che scrive saggi “a tesi” male argomentati.
Una grande aiuto per rilevare l’effettività di eventuali coming out (non solo di orientamento sessuale ma anche di altre scelte rischiose, in rapporto a quanto scrive in un recente articolo su LPLC Sergio Benvenuto, che dichiara essere lo stato di normalità a costituire il vero stato di eccezione) è la sostanziosa presenza di figure retoriche di pensiero per sostituzione, in primis la personificazione, l’allegoria e la parabola. Esse sono copertura e svelamento insieme di meccanismi di difesa, di elisione e elusione, e dissimulazione connessa con eventuale allusività.
(Ma anche una rappresentazione fastosa è significante, come il soprendente accumulo di tratti peristaltici “i tubi penzolanti, propaggini e discendenti, i clisteri, lozioni o decotti, la durata… dei loro amori, cartelle cliniche, analisi e ricerca del sonno”, nella poesia di Montale. Mah, parrebbe un vero coming out su problemi di salute.)
Se capisco bene, ne “I nuovi iconografi” Montale farebbe del pesante (e brillante) sarcasmo su un biografismo che va inevitabilmente a parare in zona digestivo-riproduttiva, cioè nel privato del privato, e ci rimanda, questo approccio biografico, l’immagine del “massimo scrittore” rifratta e.g. nel prisma dei clisteri (“e quando e quanti”), individuando eventualmente nelle emorroidi l’origine degli epistemi.
Contemporaneamente però, l’insistere sul campo semantico genital-digestivo-escrementizio indicherebbe in Montale una specie di fascinazione per quell’ambito, tradirebbe un interesse costitutivo per l’eiaculazione/evacuazione, il basso, lo sporco, talché la sua poesia sarebbe essa stessa la confutazione della teoria che vorrebbe (ironicamente) esporre.
Interessante.
Restare in superficie è una mise en abyme.
In effetti, a proposito di Montale, e in generale, vale la lezione di Jung, che i simboli onirici vanno sempre contestualizzati nel vissuto del paziente, sul quale l’analista deve indagare a fondo per coglierne la giusta collocazione e i conseguenti significati, a prescindere dalle astrazioni che sono delle scorciatoie fuorvianti.
La questione è, che quelle astrazioni sono per grande parte il campo comune del discorso, come il libro di Buffoni e le discussioni che ne sono seguite dimostrano ad abundantiam. Nel senso in cui David Graeber ( Critica della democrazia occidentale) afferma che “La cultura occidentale non sarebbe dunque solo un insieme di idee, ma quell’insieme di idee che viene insegnato nei libri di testo e discusso nelle sale-convegni e nei circoli letterari. “
“La cultura occidentale non sarebbe dunque solo un insieme di idee, ma quell’insieme di idee che viene insegnato nei libri di testo e discusso nelle sale-convegni e nei circoli letterari. “(Graeber riportato da Fischer).
Fosse ancora così! Significherebbe che la gente è ancora influenzata dai libri, dalla cultura che passa la scuola e addirittura dai “circoli letterari”. Ma è un orizzonte da anni ’60-’70 forse.
La gente non legge quasi più, non è in grado di capire un testo che oltrepassi la decina di righe e l’università, anche nel suo corpo docente, è (con le dovute eccezioni)… indecente.
P.s.
Ho appena letto per caso questa riflessione di Romano Luperini: Suarez e il linguaggio dei professori di Perugia, dove amaramente si dice:
Due osservazioni: per allettare i dirigenti della Università per stranieri il Rettore della statale fa presente che promuovere Suarez «sarebbe stato un modo per fare pubblicità». Detto fatto: il giorno del cosiddetto esame giornalisti e telecamere sono convocati e si affollano intorno all’illustre esaminato (giunto, pare, con aereo personale) che alla fine sventola l’ottenuto certificato nel tripudio di docenti, discenti, burocrati universitari, tecnici juventini (che nel frattempo però hanno fiutato lo scandalo e rinunciato a comprare Suarez, ma ancora nessuno lo sa). A questo è ridotta la Università: a vendersi l’anima per attirare studenti e investimenti, e insomma per farsi un po’ di pubblicità.
La seconda osservazione riguarda gli insegnanti di Perugia, quelli più sbracati nel loro romanesco, un tempo tipico delle borgate e ora, come sapeva Pasolini, diventato il linguaggio di una universale piccola borghesia. La loro lingua un tempo era quella del popolo, del proletariato e del sottoproletariato. Oggi è segno della proletarizzazione del ceto intellettuale, una massa che talora può anche rivoltarsi ma che in genere, non avendo una cultura alternativa, finisce senza neppure accorgersene per essere subalterna ai gruppi dirigenti. L’egemonia culturale che questi esercitano compatta a suo modo il paese, diventando egemonia ideologica e politica. Da questo punto di vista lo sport industrializzato di oggi è un ottimo collante. E infatti questi insegnanti rivelano qui tutte le loro frustrazioni, ma queste non alimentano una presa di coscienza, e si traducono invece in sterili sogni di successo (oh, essere invitati nella tribuna vip!) e in facili miti (il giocatore che ci fa vincere la Champions e che guadagna 10 milioni all’anno!). Hanno rinunciato ai valori civili e umanistici che erano (e in parte fortunatamente sono ancora) propri del loro ceto e parlano ormai la lingua dei loro dominatori.
(da https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/il-presente-e-noi/1263-suarez-e-il-linguaggio-dei-professori-di-perugia.html)
Il pessimismo, o lo sconforto, non sono una buona guida per orientarsi in un mondo che in 50 anni è passato dai 3,5 miliardi di viventi agli attuali 7,8 miliardi. Anche solo in un ragionamento proporzionalistico la maggioranza di chi non legge sarà oggi più rilevante in valore assoluto. Ma anche la minoranza di chi legge sarà altrettanto cresciuta. Graeber era però più sottile: lettori o no, per autodefinirsi occidentali si fa riferimento a una costanza di luoghi e argomenti che rimbalzano e continuano. Come non vedere l’analogia con i numerosi e sparsi in più luoghi interventi sul libro di Buffoni? Come in un frattale, una piccola comunità riproduce quel convenire di una più grande. La retorica è strumento potente, traccia linee e figure che si producono su diverse scale, linguistiche e non. Solo chi ha letto il libro di Buffoni potrà dire se la sua tesi è sostenuta col paradigma delle tracce, in effetti così sembra, o delle figure.
SEGNALAZIONE
(Buona per Buffoni e buffoni)
La poesia fa male
di Nanni Balestrini
Generazioni di ipocriti di insegnanti di
imbecilli di baciapile di pedagoghi di
pedofili di perecottari di animebelle
puzzolenti
Hanno continuamente cercato di in
cularci con una visione edificante
patetica piagnucolosa buonista
di quella cosa
Che per sua natura è
un affronto all’esistente
per mezzo della parola
Micidiale e inesorabile indecorosa e
sfrontata impudica e
corrosiva la poesia è
l’apocalisse del linguaggio
È un urlo selvaggio che strappa brandelli
di cervello ammuffito fa sanguinare i
corpi anestetizzati dai soldi trafigge i
cuori impotenti cancerizzati
La poesia è un’
interminabile
apocalisse
O non è
La poesia è continua esplosione è
continua rivoluzione è continuo
rifiuto è continua distruzione
della merda accumulata dal
perbenismo criminale dell’homo
economicus globalizzato
La poesia è sputare parole
infuocate avvelenate nei
suoi occhietti melensi
La poesia è la pioggia di sangue di fuoco di
piscio che sommergerà l’infame razza
bastarda del maschio bianco occidentale
con le sue bombe le sue banche i suoi culi griffati
La poesia è anche farla finita con tutti i miserabili
sciacalli che sulle sofferenze che hanno dato una mano
a infliggere intonano inni pietosi agli squartati e ai
fuggiaschi mentre li derubano anche dei pacchi dono
La poesia è una roba che non
ve l’immaginate nemmeno
La poesia è il giubileo delle
energie vitali che dilagano
sul pianeta avvelenato
La poesia
fa
malissimo
cagatevi sotto
la bestia dell’apocalisse è arrivata
( da https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-poesia-fa-male)
…questi versi (versi?) non dicono nulla di nuovo, poichè provengono dai dettami (detti con altre parole, ma con molto più vigore da Majakovskij e suoi discendenti, in tempi che richiedevano d’essere dettate e giustificate con veemenza – p.e quando è scritto:”La poesia è sputare parole
infuocate )…
…questi vari tentativi di definizione della poesia sono ridicoli e artefatti e non scalfiscono minimamente la poesia stessa, cioè non incidono affatto!
Scrivevo nel 1968:
Una voce detta: gridare
sputare sangue
come poesie a fiotti
segnare il passo
infinocchiare i tempi
possenti
come tappi aperti di champagna!
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Far poesia
è lirico… quando
il verde serpeggia
dove il pudore non ha cani
da sbattere
con sputo di pagliaccio.
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ecc. ecc.
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… e allora nulla di nuovo,