di Franco Tagliafierro
Parlare con Aldo Giobbio per me significava ascoltare Aldo Giobbio. Non perché lui avesse il vizio di non tenere conto di ciò che il suo interlocutore diceva… anzi, tutt’altro, ma perché anticipava ciò che l’interlocutore avrebbe voluto aggiungere al già detto per argomentare meglio. E io ascoltavo. Questo accadeva quando l’oggetto della conversazione era la storia.
Accadeva anche con la politica, ma solo se intesa come materia filosofica, non come prodotto finanziario della attualità. A me interessava la storia che conosceva lui, che era tanto più circostanziata, tanto più verosimile, tanto più logica, tanto più credibile di quella che avevo studiato all’università. Ascoltavo Giobbio perché avevo tanto da imparare, certo, ma anche perché mi divertivo. Purtroppo, lo vedevo solo una o due volte l’anno. La sua passione per la storiografia conversazionale consisteva nel rappresentare azioni massime e minime sempre filtrate dallo humour, uno humour che si diffondeva nel suo linguaggio antiretorico con la nonchalance dei pettegolezzi fra ministri plenipotenziari. A volte gli dicevo: «avrei dovuto portarmi un bloc notes e prendere appunti, perché non ce la faccio a memorizzare tutto ciò che mi racconti». Però era anche vero che neppure uno stenografo parlamentare di prima fascia sarebbe riuscito ad annotare tutti i dettagli che sostanziavano la sua narrazione: perché lui passava senza colpo ferire da una vicenda che aveva appena presentato nella sua, per me inedita, “verità”, al recupero di una eccezione nascosta in un contesto diversissimo. Insomma, io ero come un apprendista di filosofia che ascoltava Socrate quando era alle prese con i massimi sistemi, non quando dialogava alla Platone. Ero un apprendista a cui non sfuggiva che ogni suo racconto era intriso di una ironia a priori, originatasi nello stesso momento in cui lui aveva attinto alle fonti della “cosa” di cui stava parlando. Se l’ascoltatore captava l’ironia, buon per lui. Giobbio non aveva alcuna intenzione di passare per un homme d’esprit, tanto è vero che a volte parlava come se fosse suo dovere d’ufficio parlare, per esempio nelle riunioni di redazione della rivista Inoltre, per rimettere con i piedi per terra questioni che gli altri avevano lasciato a mezz’aria.
Quando l’attualità sfornava miserie più ignobili del previsto, Giobbio convertiva l’ironia in satira affidandola, oltre che ad articoli multiuso che pubblicava non so dove, anche a senari, ottonari ed endecasillabi strutturati e rimati secondo i canoni. Ritrovò tra le sue carte alcune satire in versi scritte quasi tutte nel 2010 e dedicate prevalentemente alla pedofilia clericale fiorente sotto la copertura vaticana. Volle farle leggere agli amici, ma gli sarebbe piaciuto che girassero in cerca di qualche altra anima sensibile, visto che i bubboni da far scoppiare non erano finiti. Per cui pensò di consegnarle a Ennio Abate che all’epoca dirigeva il Laboratorio Moltinpoesia. Ma non voleva che apparissero con il suo nome. Non certo perché temesse di incrinare la sua aureola di ex giornalista economico-finanziario di Famiglia Cristiana, ma perché la satira tanto più è efficace, quanto più è anonima, come Pasquino insegna.
Doveva inventarsi uno pseudonimo. Ossia, doveva ripresentarsi al fonte battesimale, e pronunciare lui stesso il proprio nome in assenza del padrino. Perciò almanaccava muto e titubava. Rialmanaccava, sempre muto, e titubava.
Intanto tra noi apprendisti, tornando a bomba, si riconsiderava che nessun testo satirico, per quanto utile e dilettevole fosse, avrebbe mai umanizzato un bruto.
Una voce disse: «“Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno / a le piaghe mortali” eccetera… c’è quel “benché” che significa: tra il castigare ridendo mores e il non castigarli, meglio castigare. Però il tuo scetticismo non può prescindere da quell’”indarno”, quindi potresti scegliere come pseudonimo “Indarno”, che suona bene e mette soggezione.»
«Sì. Indarno mi piace» disse Giobbio.
«Però ci vuole un cognome. Stendhal ne fa a meno, ma è l’unico. Anche Ettore Schmitz si sentì insicuro con il solo Italo, nonostante fosse il nome più rappresentativo in commercio, e così gli appiccicò il cognome Svevo.»
«Già» disse Giobbio.
«Trovati un cognome che alluda alla tua storia di prediche inutili. Non è da adesso che tu parli indarno: è da un pezzo, è da tempo. Ecco, potresti chiamarti Indarno da Tempo. Con la “d” della preposizione rigorosamente minuscola, come dalla Chiesa.»
«Sì, Indarno da Tempo va bene» disse Giobbio.
Ecco accontentato il desiderio di Ennio Abate di saper come mai Giobbio si fosse scelto uno pseudonimo così strano. Io c’ero, era il 2012. Ed ecco confermato che Giobbio teneva in gran conto ciò che l’interlocutore diceva.
Nota di E. A.
Le poesie di Aldo Giobbio firmate come Indarno da Tempo si leggono qui, qui, qui, qui, qui e qui. Su Poliscritture è stato pubblicato nel 2018 anche il testo di una sua conferenza intitolata “Il paese dei balocchi“.
Aldo Giobbio è stato storico e giornalista iscritto all’albo dell’ordine dei giornalisti Lombardia dal 3 settembre 1969. Era nato il 19 novembre 1934