di Gianfranco La Grassa
E’ intuitivo il fatto che la linea di scorrimento temporale avviene sempre in un unico senso, è irreversibile. Come si dice, la freccia del tempo è sempre rivolta in avanti; gli avvenimenti si snodano sempre dal passato verso il presente, dal presente verso il futuro, e mai in direzione contraria. Come diceva Eraclito, non ci si bagna due volte nello stesso fiume (cioè nella stessa acqua di quel dato fiume), poiché quest’acqua, proprio come il tempo, non può mai scorrere a ritroso, dalla foce alla sorgente.
Quest’idea di irreversibilità è comune, e fa parte integrante di ogni visione umana, anche “popolare”. Quest’idea è per noi così “naturale”, che sembra appartenere all’ordine della natura, mentre è invece un portato socio-culturale. Individui animaleschi non possono avere alcuna nozione di tempo, né quindi dell’irreversibilità dello stesso (così come non esiste, al di fuori della “storia” e della culturalizzazione, alcuna nozione di morale, di religiosità, né di conoscenza di un qualsiasi genere). L’idea dello scorrere del tempo, e della sua freccia unidirezionale, irreversibile, è legata alla scansione di esso in unità convenzionali, che – in seguito a lenta e lunga evoluzione – hanno trovato infine sistematizzazione in anni, mesi, giorni, ore, ecc.
Solo dopo essere riusciti a suddividere il corso temporale (prima considerato un blocco unitario, del tutto indistinto) in tante unità convenzionali di “periodo”, in unità di una certa lunghezza, solo allora si è riusciti a capire l’irreversibilità degli accadimenti naturali e umani, biologici e sociali. Solo allora si è capito, ad es., che, quando ci si trova nuovamente in presenza di avvenimenti già verificatisi, non si tratta affatto di ritorno all’indietro del tempo, ma più semplicemente della ripetitività periodica (regolare o irregolare; dove regolarità e irregolarità sono ancora una volta concetti socio-culturali, legati all’unità di tempo convenzionalmente stabilita) di accadimenti che presentano molti (più raramente tutti) aspetti similari fra loro. Si tratta insomma di accadimenti simili, ma diversi; non foss’altro perché si verificano in tempi successivi, senza nessuna possibilità di andamento a ritroso.
Quanto detto fin qui appartiene ormai alla coscienza comune dell’uomo civilizzato. Tuttavia, non è questo il concetto di Tempo che si ritrova, ad es., in Proust; e che quest’ultimo riprende dal grande filosofo francese (dei primi di questo secolo) Henri Bergson, semmai con alcune imprecisioni filosofiche rispetto alla versione originaria del bergsonismo, anche se con risultati artistici evidentemente eccezionali. Il problema che qui viene posto è la critica dell’usuale modo di intendere l’irreversibilità temporale. Quest’ultima infatti, nella sua versione “classica”, implica pur sempre la linea di scorrimento temporale esterna al verificarsi degli eventi in successione (passati, presenti e futuri). E’ come se il tempo (e lo spazio) fosse uno scatolone vuoto entro cui accadono gli eventi, disposti secondo un prima ed un poi, che sono considerati “oggettivi” nel senso che le scansioni temporali di questo prima e di questo poi sono calcolate secondo le unità di misura convenzionalmente – e quindi intersoggettivamente (socialmente) – stabilite. Nella “nuova” concezione (bergsoniana), il tempo è pensato dentro gli avvenimenti che si succedono, ne è parte costitutiva sostanziale, li conforma in modo specifico e attribuisce loro una dinamica ed una direzionalità che sono peculiari di ogni dato avvenimento. Tutto questo ha particolari conseguenze.
Ogni avvenimento ha intanto una sua durata caratteristica e non suddivisibile secondo le scansioni temporali convenzionali. Se in un secondo viene compiuto un passo lungo 1 m., solo astrattamente quel metro e quel secondo possono essere suddivisi (ad es., in dm. e in decimi di secondo o in cm. e in centesimi di secondo, e così via). L’accadimento “passo” (quel determinato passo) ha un tempo reale ed uno spazio reale, che solo convenzionalmente sono indicati come 1 sec. ed 1 m.; ma si tratta in realtà di accadimento che ha una sua unicità e singolarità, e non è suddivisibile senza che se ne perda l’intimo ed essenziale carattere e significato. Esiste dunque un tempo astratto, convenzionale (le solite unità di misura), ma anche un tempo reale caratteristico di ogni dato avvenimento, un tempo che marca quest’ultimo, che lo costituisce e struttura dall’interno, lo conforma, lo direziona, lo differenzia da ogni altro avvenimento.
Il tempo astratto (“oggettivo”) può sempre essere ricordato facilmente con l’uso del calendario, dell’orologio, ecc.; è facile – e definitorio – ricordarsi che il 1-12-87 viene prima del 4-7-88, che le ore 10 di un certo giorno vengono prima delle 18 dello stesso giorno, ecc. Così pure, se in certe date abbiamo segnato (e descritto più o meno esaurientemente) certi avvenimenti, possiamo ricordarci facilmente di questi avvenimenti nella loro astratta, estrinseca, connessione con quel tempo; ed essi vengono ricordati nell’esteriore descrizione fatta da noi o da altri che ce li hanno tramandati.
Diversissimo è il carattere dell’avvenimento con cui siamo entrati in collegamento in dati momenti e che la nostra memoria lega a sé ritenendolo nella sua durata reale e specifica. E’ innanzitutto evidente che l’avvenimento è qui “soggettivo”, perché è ritenuto dalla coscienza di singoli individui (non esiste coscienza “universale” di un superindividuo: la società tutta, ad es.). Inoltre, la temporalità è un tempo di durata reale, tipico di quel certo avvenimento singolo, che viene afferrato dalla memoria, ma non registrato come, ad es., il suono su un nastro registratore. Non è possibile, a propria discrezione, posizionare il “disco” della memoria su quel dato avvenimento (in quel dato tempo, cioè in quel dato spazio del “nastro registratore”) per riprodurlo a semplice decisione. Per essere più precisi, è possibile ricordare volontariamente brani, spezzoni, della nostra vita passata, avulsi dal contesto in cui si sono verificati. La nostra memoria cosciente, quindi, può ricordare questi avvenimenti nella loro astrattezza (astrazione dal contesto specifico, di cui fa parte anche la loro durata temporale reale, quella durata che dà loro quella certa particolare coloritura e conformazione), esattamente nello stesso senso in cui ognuno di noi può annotare nel diario, ad una data particolare (stabilita secondo le solite convenzioni di anno, mese, ecc.), un certo avvenimento della propria vita.
Ben diverso è il comportamento della nostra memoria inconscia. Essa non registra singoli avvenimenti, essa non fissa date convenzionali; essa raccoglie e lega “in fascio”, per quella certa durata reale, una costellazione di avvenimenti, che da quella durata – e perciò dal loro reciproco articolarsi in quest’ultima – ricevono la loro coloritura, il loro significato “spirituale”, cioè più profondo, più essenziale, non meramente descrivibile mediante registrazione discorsiva o scritta. Si pensi quindi, intanto, alle difficoltà di Proust, alla lunghissima e laboriosa ricerca fatta per poter trovare il linguaggio più appropriato a descrivere ciò che, in linea di principio, non dovrebbe essere passibile di descrizione linguistica; proprio perché la lingua è discreta, mentre la coloritura, il significato essenziale degli avvenimenti, costituiti insieme da una durata temporale reale, dovrebbe essere colto nella continuità del contesto relativo a tale durata e all’intreccio reciproco del “fascio” di eventi ad essa connessi.
In definitiva, una durata reale, non connessa ad unità convenzionali di misura temporale, è fascio di avvenimenti penetrati, pervasi, da questa durata, avvenimenti di cui detta durata è parte costitutiva integrante. L’avvenimento costituito da una certa durata non soltanto, dunque, porta in se stesso quest’ultima, ma si integra inoltre strettamente con ogni altro avvenimento che si sostanzia della stessa durata, che porta entro di sé la stessa durata.
Quando la memoria inconscia – quella che non registra brani di vita staccati da un contesto, situati in unità di tempo convenzionalmente stabilite – viene stimolata da qualche accadimento, anche banalissimo, che si ripete nel tempo sia pure casualmente, erraticamente – la famosa mattonella su cui poggia il piede il protagonista de La Recherche – è tutta una durata reale, cioè un intero fascio di eventi, un reale pezzo della propria vita reale (con il suo significato profondo, essenziale) che irrompe nel presente, si mescola al presente, si integra infine nel presente.
Da qui nasce la straordinaria emozione della parte finale de La Recherche. Una volta accaduto il primo erompere della memoria inconscia, altri si susseguono e, ad un certo punto, è come se l’intera vita del protagonista (intera nel suo significato più profondo, non nel senso di tutti, esaustivamente, gli avvenimenti che in questa vita si erano susseguiti, il che sarebbe assurdo) si disponesse nel presente, davanti ai suoi occhi attoniti, su un piano di sincronia tra passato e presente. In questa simbiosi sincronica dell’intera vita, di passato e presente, non è più possibile l’irruzione del futuro (sotto forma di previsioni, evidentemente), non è nemmeno pensabile la morte, la stessa decadenza fisica. Il protagonista ha quindi qui un sussulto, un momento di vera gioia, come di recupero al presente di tutto ciò che era stato, anzi perfino di ciò che avrebbe potuto essere; un recupero, cioè, della possibilità stessa che le cose fossero andate diversamente da come in realtà erano andate. C’è, insomma, una sorta di pacificazione al presente di tutto il corso della vita del protagonista, di tutti i suoi affanni, come se ogni accadimento, anche passato, avesse al presente il suo giusto significato; tutta la vita si manifesta, insomma, al protagonista quale coordinamento necessitato di tutti gli eventi realmente accaduti che – belli o brutti che siano apparsi in passato – vengono nell’oggi ad inverarsi nel loro armonico, perché sincronico, significato interrelazionale complessivo. Siamo qui tuttavia in presenza solo del primo movimento della coscienza (individuale, soggettiva), quando irrompe in essa il passato per l’azione casuale – a flashback – della memoria involontaria.
Questa prima sistemazione sincronica non può permanere; la visione (di persone e cose) nel presente provoca la nuova distanziazione del passato rimemorato. L’irreversibilità del trascorrere temporale ritorna in primo piano nella presa d’atto della decadenza e corrompimento di uomini e cose. Per Proust, riconsiderare la vecchiaia delle persone (Odette, ecc.), che aveva ammirate quando erano giovani (e quando era giovane lui stesso), induce una nuova dislocazione diacronica degli avvenimenti per l’innanzi fusi in armonica sincronia.
Nuovamente, gli eventi si posizionano in un prima ed in un poi; ed il futuro riprende allora il suo posto accanto alla successione degli accadimenti passati e presenti. La rimemorazione improvvisa del passato, proprio nella sua sincronica correlazione al presente, serve infine a misurare la distanziazione e differenziazione degli eventi fra loro, il loro trascorrere e trasmutare, il loro provenire da un passato e attraversare il presente verso un futuro, di cui non si possono certo prevedere i singoli e specifici accadimenti, ma senza dubbio invece il corrompimento finale, la decadenza decisiva: la morte (pur sempre individuale).
Il primo impeto di gioia del protagonista (cioè di Proust stesso) sfuma assai presto ma resta in lui comunque una nuova acquisizione: la ruota del tempo corre inesorabilmente in avanti, la durata reale (non quella astratta, delle ore, minuti, ecc.) direziona i fenomeni vitali verso la fine, ed esige perciò dall’individuo una scelta tempestiva per la sua vita. Proust abbandona l’intensa frequentazione sociale, i ricevimenti, ecc., si chiude in casa per poter scrivere la sua monumentale opera, per la quale il tempo ormai stringe. Logicamente, le scelte sono strettamente individuali, e non tutti – se non sono certi del proprio genio artistico o scientifico, ecc. – hanno la forza (e nemmeno hanno il diritto) di ritirarsi dalla vita sociale per concentrarsi, in isolamento, sull’opera da lasciare ai posteri.
Resta, tuttavia, un insegnamento più generale. Ognuno, al suo proprio livello, secondo le sue capacità e possibilità, deve prendere atto dell’irreversibilità del tempo reale, del tempo della propria vita; e deve agire di conseguenza, senza sprecarlo in continui rinvii, in continue inazioni, senza comportarsi come se i propri fenomeni vitali, gli accadimenti che il futuro potrebbe riservargli sol che vivesse e agisse, fossero invece come cristallo privo di movimento interno, sempre eguale a se stesso, mancante di quegli eventi che marcano e individuano passato, presente e futuro. Mentre invece la nostra vita reale è proprio caratterizzata non dal semplice trascorrere degli anni, mesi, giorni, ma dal succedersi di passato, presente e futuro in quanto durate reali che sostanziano, articolano, direzionano, fasci di eventi pregni di significazioni singolari, e irripetibili dal punto di vista di quel peculiare significato.
APRILE 1988 G.L.G.
Molto interessante e molto “scientifica” questa distinzione fra il tempo “esterno” – misurabile, misurato, intersoggettivo e schematico – e il tempo “interno” – soggettivo e incommensurabile in quanto, se capisco bene, non un fatto di estensione ma di intensità.
Se posso permettermi, due osservazioni:
– “Si pensi quindi, intanto, alle difficoltà di Proust, alla lunghissima e laboriosa ricerca fatta per poter trovare il linguaggio più appropriato a descrivere ciò che, in linea di principio, non dovrebbe essere passibile di descrizione linguistica; proprio perché la lingua è discreta, mentre la coloritura, il significato essenziale degli avvenimenti, costituiti insieme da una durata temporale reale, dovrebbe essere colto nella continuità del contesto relativo a tale durata e all’intreccio reciproco del “fascio” di eventi ad essa connessi.” Credo che Proust indichi lo stadio non più discreto della lingua, lo stile, cioè la visione individuale e omogenea del mondo oggettivata nell’arte, col termine di “fondu”, che utilizza sia per la pittura di Vermeer che, ad esempio, per lo stile di Flaubert. Nella “fusione” del fondu sono appunto superate le divisioni “meccaniche”, convenzionali e impersonali della realtà.
– “Quando la memoria inconscia (…) viene stimolata da qualche accadimento, anche banalissimo, che si ripete nel tempo sia pure casualmente …” Più che di accadimento parlerei, più precisamente, di sensazione. Il prodursi della memoria involontaria è legato alla sensazione. E’ l’identità della sensazione (esattamente la stessa) in due momenti diversi del tempo (il viaggio a Venezia e la matinée dei Guermantes per la mattonella), che abolisce il tempo intercorso fra l’uno e l’altro, permette il recupero “vivo” del passato e libera l’io dall’angoscia del tempo. L’io della memoria involontaria è felice perché è immortale – nel senso che è fuori dal tempo. Che una sensazione si ripeta o non ripeta mai nel corso di una vita è però, come dice lei, perfettamente casuale (oltretutto deve essere una sensazione con una spiccata individualità, cioè non “levigata” dall’abitudine – infatti le esperienze di memoria involontaria vissute dal narratore sono legate al gusto, al tatto e all’udito, ma non alla vista, senso troppo ampiamente sollecitato). Ci si può tranquillamente immaginare una intera vita in cui la memoria involontaria non si produca affatto. Qui intervengono le impressioni estetiche e l’arte, che sono della stessa pasta, hanno la stessa funzione della memoria involontaria: sottrarre l’individuale al tempo, distillarne un’essenza salvata dall’impermanenza e fruibile da un pubblico che si troverà anch’esso, nel momento della fruizione, in un punto fuori dal tempo. Proust, in fondo è un esteta – comincia la sua carriera come dandy – si salva dall’estetismo perché scopre la metafisica delle essenze individuali.
Fra due anni scadrà un secolo dalla morte di Marcel Proust (1922). La Francia saprà degnamente celebrarlo. Intanto noi lo ricordiamo, questo nostro compagno dello spirito, con le seguenti brevi note, che prendono lo spunto dalla interessante lettura di Gianfranco La Grassa, espressa alla luce di una saggistica scientifica che trova giusto esito anche in campo letterario. Quanto afferma La Grassa è suffragato da una lunga tradizione critica che evidenzia le pulsioni alla base dello spaesamento fra tempo reale e interiore. Il discorso parte da lontano.
La difficoltà di Proust a riconoscersi come scrittore, a fronte di autori quali Balzac, Flaubert e Zola (ma l’elenco continua), le cui opere sono ancorate a una narrazione temporale lineare. Proust ripiega su una narrazione ‘a blocchi’ creando un primo scarto rispetto alla norma. E più che seguire il racconto di vicende egli concentra la propria attenzione sui movimenti interiori dell’animo, soprattutto in relazione al tema dell’amore e della gelosia, scandito da un tempo interiore. Così come il recupero del passato attraverso le ‘intermittences du coeur’, legate a impressioni sensoriali (il pavé della cour dei Guermantes e altre famose). Compensazioni per l’io di un personaggio deluso che cerca di ritrovare se stesso attraverso la memoria del ‘tempo perduto’. Inoltre non sarà mai dimenticata da Proust la lezione di John Ruskin, sulla idealizzazione della bellezza, come una realtà trascendentale senza tempo.
Questi contenuti si traducono, a livello formale, in una scelta sintagmatica della prosa, quasi estrema, per cui il dettato sembra sospeso come in una bolla senza tempo, e il lettore si sente rapito in una dimensione atemporale. Qui, più che mai, la forma è contenuto. Ciò comporta, ad esempio, nel campo della traduzione, una grande difficoltà e un’estrema perizia; realtà che lo accomuna a Gustave Flaubert, il maestro dello stile (per leggere il quale, oltretutto, in lingua, conviene tenere il dizionario sempre a portata di mano). La modernità di Proust consiste in questo, a scapito dei suoi detrattori.
Le parziali, brevi e modeste osservazioni del sottoscritto vanno a completamento, nelle mie intenzioni, dell’originalità dell’intervento di Gianfranco La Grassa, che ringrazio per avermene dato l’opportunità.
La temporalità, come direzionalità, della vita biologica, fonda la possibilità della scansione. Ma l’idea stessa della creazione consegna invece l’idea di contemporaneità, alla mente del dio creatore, almeno. Da cui la assimilazione del Figlio al Logos, alla Sapienza, al possibile di tutto. Bergson nella durata espone quello che ognuno di noi sa: che temporalità irreversibile (quella biologica) e contemporaneità -che esperiamo nel sogno, nella meditazione, nell’arte, nella creatività- sono congiunte.
Forse, come fa capire Rovelli in Helgoland, sono addirittura alla base, fondano la idea di creazione, o filosofica di atto aggiungo io.
Buona quindi l’arte letteraria, il linguaggio tout court, che insegue quella riunione nella durata. Buona l’estasi religiosa o artistica, il sonno, che ci regala quotidianamente esperienze extra temporali (nel senso della successione irreversibile). Fanno parte, è sempre Rovelli a suggerirlo, del significato, di cui abbiamo bisogno per raccordare la nostra vita interna con l’esterno, e non restare colpiti dal sasso che ci può cadere addosso.
Da scienziato, Rovelli è dualista. Sì siamo materia anche noi, come quella (infinita?) dell’universo, ma noi conosciamo e il sasso, o il protone, no. E quindi si ricomincia, io soggetto, di là il mondo di cui siamo parte. No comment sulla filosofia molto semplice ma sicuramente atea di Rovelli. Fabiola Gianotti, che dirige il Cern, invece…
Un’altra cosa si può dire sul tempo: che quello della vita ritorna con la sua attualità che non è ricordo ma memoria, e la memoria è presenza. Quella presenza-contemporaneità, dà un sicuro effetto di padronanza che tuttavia non è il presente. Presente e presenza si sono evidentemente scissi… e ci meravigliamo, all’oggi, di un loro rapporto, anzi, lo releghiamo nella sfera del possibile… che letteratura estasi e arte esplorano. E anche la scienza (con le relazioni di Rovelli) e il pluriverso di altri, il possibile, lo esplorano. Perché da millenni il rapporto tra reale e possibile ci interroga, come la relazione tra finiti che siamo e infinito che possiamo immaginare. Di valori, di dimensioni, di conoscenza. L’inferno del non credere, si è detto. “Il dio che atterra” diceva Manzoni.
Atterrati, atterriti. Così siamo.
Lasciare nell’oblio (tanto il tempo oggi ha accelerato la sua corsa) o rammentare?
E’ il dubbio che ho avuto in questi giorni, dopo essermi ricordato e aver controllato che nel 2015 di Gianfranco La Grassa – allora si firmava Franco Nova – avevo già pubblicato il saggio che in sostanza è quello qui sopra.
Con un minimo di malignità volevo vedere se qualcun altro se ne accorgesse e me lo facesse notare. Nessuno/a se n’è accorto. E allora?
Non è un dramma. Siccome la memoria (mia e di altri) ha un suo andamento che tendo a rispettare e i commenti alla precedente pubblicazione furono più che approfonditi e anzi toccarono questioni fondamentali (almeno per me), non esito a rimandare a questo link: https://www.poliscritture.it/2015/10/24/considerazioni-sul-tempo-di-vita/
Giustamente tu riconduci a una memoria “iscritta” l’argomento cui mi riferivo più in generale: come se la memoria iscritta dovesse contenere anche la “possibile” e “evolutiva” memoria femminile cui invece mi riferivo. Se sia possibile: sia come categoria storica o non. Comunque appena posso ritorno a quel link.
La discussione precedente era confluita in quella sul modo giusto di ricordare il passato, di fare sintesi, col ricordo -cosciente-, della memoria inconscia. Uno valido per l’autore del testo: il ritorno del futuro, l’articolazione del tempo-durata nel concreto e irreversibile impegnarsi di ognuno nella propria vita.
Altra la proposta, sulla scia di Fortini, di tradurre in “ricordo”, cioè volontario, consapevole, corale, intenzionale, quelle memorie inconsce collettive, un tempo ispirate da orientamenti valoriali che si esprimevano in poesia, letteratura, ma diventate ormai -secondo F.- l’immaginario disgregato dei media, dell’homo informaticus, fino a quello delle droghe.
Due proposte virili di riappropriazione al presente della memoria inconscia: consapevolezza e padronanza del tempo personale e collettivo.
Qualcosa deve essere cambiato, se lo stesso testo non è stato riconosciuto, se la presenza della memoria, rispetto al ricordo, non sembra tanto un continente da “metaforizzare” (mi pare sia la parola che F. usa), quanto una possibilità di attingere forze nella aridità presente. Donato allora aveva sottolineato questa possibilità sempre viva, la memoria inconscia come un patrimonio a disposizione cui la cultura attinge positivamente per tutti.