Per un libro da scrivere
di Ennio Abate
Nel mio PC ho una cartella dal titolo “Fortini nei dintorni dal 2002”. Vi ho stipato negli anni appunti, scritti di Fortini o miei e di altri su Fortini, qualche disegno, saggi e resoconti delle iniziative fatte per ricordarne l’opera alla Libreria popolare di Via Tadino a Milano nel 2014 e altro ancora. Nel 2017, anno del centenario della sua nascita, pensavo di sistemare in forma di libro questi materiali. Per varie ragioni non ci riuscii. Ci riprovo pubblicando su Poliscritture i frammenti numerati di quello che potrà forse diventare il libro. [E. A.]
1.
Nel 1978 un insegnante di 37 anni dell’hinterland milanese, meridionale di origine, scrive a F.F., di anni 61, che molto prima di lui, già nel 1945, da Firenze era arrivato a Milano. Cosa succede quando s’accorge che quell’intellettuale e poeta – colto, europeo, inquieto – è odiato e in altri modi marginalizzato anche lui? Che impara leggendo mano mano i suoi libri? Gli servono per uscire dalla gabbia opprimente che – in quel periodo, per un decennio circa – era o gli pareva fosse stata la militanza “stretta” in Avanguardia Operaia. (Dieci anni persi?).
2.
Con quella lettera aveva inizio un legame intellettuale tutto suo con F.F. Forse filiale-intellettuale e in rottura con quelli precedenti. Gli ex compagni di Avanguardia Operaia, specie i dirigenti, gli parevano ora fratelli maggiori verso i quali non nascondeva più una delusione sempre più risentita. Gli parevano fiacchi, ripetitivi e persino meschini. Specie se li confrontava con quelli dell’Autonomia Operaia, che gli suscitavano maggiore simpatia, anche se ne diffidava. Questi erano fratellastri di strada. Più decisi e testardi ma anche più oscuri nei linguaggi e un po’ diabolici. Le rampogne più che paterne di F.F. contro il movimento del 1977 e la lettura dei suoi articoli sul “manifesto” contro la “falsa guerra civile” avevano frenato ma non bloccato quella sua incerta e inquieta simpatia. Capiva che F. F. era in netto contrasto col Discorso Operaista, da cui lui si era fatto invadere. L’aveva cominciato ad assorbire dal ’68-’69. E con quello in testa aveva fatto la tesi sui Quaderni Rossi abbandonando l’intenzione precedente di scriverla su Gramsci e gli intellettuali. O sul Gramsci dei consigli di fabbrica torinesi. Poi – compromesso o pressione dei legami concreti intessuti con alcuni dei fondatori di Avanguardia Operaia – s’era messo con loro. Che erano un po’ troskisti, mezzo leninisti e, pure loro, mezzo operaisti. Il Discorso Operaista era nell’aria. Lo si respirava negli ambienti politici studenteschi e fra gli immigrati che frequentava. Si ritrovò a farlo lui pure con convinzione. Di operai allora ne conosceva molti. Però percepiva sempre più dolorosamente che un po’ tutti – leninisti o operaisti o anarchici spontaneisti – ci si si avviava verso la sconfitta, verso una fine. Malgrado permanesse in lui e in quelli che frequentava quell’impulso allo scontro. In tanti si erano costruiti ed educati per quello. Nella speranza di continuare ad essere tantissimi e sempre di più. Per farsi coraggio ma anche continuare a ragionare meglio su scopo e strategia da perseguire. Adesso che Avanguardia Operaia s’era scissa e lui leggeva i “Dieci inverni” di F.F. o “I militanti politici di base” di Montaldi, si accorgeva che lui e gli altri, anche i più testardi e audaci, erano stati sempre esigue minoranze. E abbastanza confuse. Scopi e strategia erano stati macinati o con parole non dissimili da quelle del PCI o soltanto più indurite ma votate al nichilismo del martirio. Facevano male anche a lui quelle parole martellate da F.F. : O voi quasi gli stessi!/ O sempre troppo figli!// Passate oltre voi stessi – o finirà/ la tragedia in sbadigli .
3.
Che significava essere nei dintorni di F.F.? E c’era stato poi davvero e solo nei suoi dintorni? Perché ne parlava come di un “maestro a distanza”? Gliene erano rimasti, eccome, di pensieri prepolitici anche dopo che era diventato un militante politico di base. Espressione che gli era piaciuta questa. L’ aveva trovata per la prima volta usata con un accento orgoglioso e quasi nobile nel libro che Montaldi gli aveva regalato. In quegli anni intensi e velocissimi in mezzo a un flusso di discorsi eterogenei gli era stato difficile situarsi in una mappa sempre variabile. Sì, era dentro il Discorso Operaista. D’accordo. Ma gliene arrivavano tanti altri. Anche quando aveva ripreso l’università. Anche mentre faceva il militante di Avanguardia Operaia. Montaldi l’aveva conosciuto attorno al ’74. I Quaderni Piacentini li leggeva – non tutti i saggi, certo – dal ’68. E poi tutti quei libri acquistati alla Feltrinelli. Letti, non letti, un poco letti. E nessuno poteva giurare di averli capiti. Di tutti quei discorsi che l’avevano attraversato e forse in parte modellato cosa era rimasto? Gli avevano costruito una identità precisa? Esitava quando in qualche piega di una conversazione spuntava – ragionevole o ricattatoria – l’esigenza di definirsi. Era un operaista? un fortiniano? un negriano? Ci rifletteva e non si ritrovava in nessuna di quelle caselle pur essendoci stato.
4.
Era forse un compagno periferico. Questo se lo sentiva di dire. Perché in periferia viveva e quei concetti che inseguiva nelle righe di libri e riviste – dialettica, alienazione, sistema, composizione tecnica dell’operaio-massa – non potevano mai entrare nei discorsi che sentiva in famiglia, a scuola o tra i suoi immigrati meridionali o veneti da poco diventati operai e a stento sindacalizzati. Era uno, cioè, che, pur leggendo libri difficili, quel groviglio di concetti se li portava dentro. Sempre da sistemare, da dipanare, da limare. I più giovani di lui manco più si curavano di leggere. Loro il rifiuto del lavoro – dicevano – lo vivevano e basta. Ripetevano le parole convinti che corrispondessero in pieno a quel che facevano al momento. Ah, Balice! Ah, Tarzanetto! Senza starci su a scervellarsi. Si sentivano al centro del mondo. Mentre lui quella loro cultura e la sua la vedeva precipitare. Ecco, lui poteva essere – lo scrisse in versi – un personaggio-maschera, / un io-maschera,/ una plurale maschera di parole.
5.
Non poteva, dunque, scrivere un saggio sulla figura e l’opera di F.F. Non era in una università, lui. Il suo sarebbe stato un “narratorio”. Genere ibrido: tra diario, cronaca, narrazione e riflessione. L’unica forma di scrittura che si poté permettere nei 30 anni in cui aveva fatto l’insegnante. E anche dopo. Poteva parlare del suo rapporto con F.F. Certo. Quante ore aveva trascorso a leggere i suoi articoli sul “manifesto” o “l’espresso” o il “corsera”? Quante sui suoi libri, compresi quelli che man mano andò pubblicando negli anni Ottanta e fino all’anno della sua morte? Per quante l’aveva sentito parlare: reale, fisico, con la sua calda e bassa voce, in presenza, in precise occasioni? Nelle poche visite in Via Legnano. Assieme a gruppi di amici e compagni più o meno numerosi in assemblee, riunioni, conferenze al Piccolo Teatro, al Circolo Scaldasole. Fu per questo che cominciò a chiamarlo maestro a distanza. Che – così pensava – lo aiutava a ridefinirsi dopo il fallimento di quei sette o otto anni di militanza in Avanguardia Operaia. A staccarsi dai fratelli maggiori, dottorini rimasti freddi e distanti. Ad evitare di regredire al cattolicesimo della sua giovinezza meridionale o finire – chissà – in Comunione e Liberazione. O nell’Autonomia. O nelle Brigate Rosse. A non rinunciare a pensare allo scopo comunista, che aveva afferrato – solo un attimo forse – negli anni dei movimenti ed ora svaniva in spari e carceri.
6.
Avrebbe scavato nel suo rapporto con un F.F. vecchio. Che era riuscito a far venire alcune volte anche in quella città di periferia. E poi, dopo la sua morte, con quel fantasma della sua immaginazione: il Vecchio Scriba. E avrebbe condotto una difesa – testarda, persino competitiva e aggressiva – di quella sua immagine evanescente ma ritornante. Contro le accuse o le svalutazioni di studiosi o amici/discepoli diventati poi ostili a F.F. O di letterati scettici e brontoloni per il mancato riconoscimento che da F.F. si aspettavano. E che si vantavano di averlo conosciuto – da vicino, da giovane e da uomo maturo – meglio di lui. E non lo sopportavano più.
7.
E poi c’era da controllare sovrapposizioni o interferenze dell’immagine di F.F. con altre figure paterne – ahi! – che da giovane avevano contato nella sua formazione. Legami conflittuali e contorti. Innanzitutto con suo padre, d’origini contadine meridionali e non intellettuale ma militare. Forse monarchico o forse amico di fascisti.
8.
Nei tanti anni che era stato nei dintorni di F.F., difendendo lui, aveva difeso pure i desideri di una prospettiva che era stata di tanti. Ora erano ex compagni, che la davano non solo per sconfitta ma persa per sempre. O errata fin dal momento in cui era stata pensata. E da grandi menti. Quando scrisse a F. F. la prima volta si era alla vigilia del rapimento di Moro. I tentativi di collaborare con lui o di averlo nelle iniziative che ancora riusciva a tenere in piedi erano zoppi in partenza. Ah, agitare ancora la bandiera rossa, curarsi delle “rovine” del comunismo, difendere – sempre e solo difendere ormai – la storia della Resistenza e del ’68 e della Rivoluzione russa e di Mao. Come aveva fatto F. F. sino alla morte. Fra lo scetticismo, la tiepidezza, il silenzio degli altri. Dieci inverni, venti inverni? E i tentativi di fare riviste e rivistine con altri intellettuali periferici che disdegnavano quella definizione. Restava un orgoglioso e personale culto da catacomba? Una difesa del Vecchio Scriba e della sua tradizione nel mentre diventava pure lui vecchio e scriba più emarginato o ignorato di quanto lo fosse stato F. F.? Che pena vedere amici e discepoli e recensori di F. F. prima azzittirsi, poi trascurarlo o darne un’immagine di nobile utopista. Tutto proiettato però in un futuro indefinito e irenico. E altri – i giovani studiosi – che lo scoprivano ma in modo diverso dal suo: non nel clima della sconfitta, ma in quello euforico dei loro inizi di carriera. Era per questo che continuava a prendere appunti ma non trovava la forza sufficiente per farne un libro?
Caro Ennio,
grazie per la condivisione dei tuoi scritti, che meritano di essere pubblicati in un libro.
Maurizio
Scrivilo il libro Ennio, anche se sarà una bella fatica. Sarà uno di quei libri multistrato in cui si precipita da un piano all’altro con un senso di euforica vertigine.
@ Maurizio e a Elena
Grazie del vostro incoraggiamento.
…non posso che unirmi al coro di chi ti incoraggia, Ennio.
Sono appunti molto interessanti e scritti, in tutta apertura e sincerità, non a posteriori, ma nel cuore degli avvenimenti, cioè durante “gli anni di piombo”, post ’68. Colgo nel “giovane periferico” fortemente impegnto nella politica cosidetta di base “…l’esigenza di definirsi. Era un operaista? un fortiniano? un negriano?…non si ritrovava in nessuna di quelle caselle pur essendoci stato” Un groviglio ideologico ed esitenziale tormentoso che comprendeva anche la necessità di aprirsi alle istanze culturali ed umane provenienti dalle esperienze precedenti e dagli studi universitari…Ne esce “un animale nuovo”, dal nome Vecchio Scriba, sulla scia del Maestro d’elezione Franco Fortini, uomo di pensiero, di azione e poeta ascoltato ed inascoltato, infine emarginato, in cui riconoscersi…Pur nella dichiarazione di sconfitta si ravvisa una forte volontà di resistenza, di ricerca, tra le macerie, di un nuovo cammino da parte di un giovane-vecchio , figura ricorrente nelle epoche piu’ travagliate…Buon proseguimento di lavoro!