a cura di Ennio Abate
Ricopio questa interessantissima intervista a Pietro Basso su Amedeo Bordiga da Jacobin Italia (qui). Uno che “arriva alla definizione del comunismo come piano di vita per la specie umana” va letto e studiato. [E. A.]
Bordiga, il leader dimenticato
Pur essendo stato fondatore del Partito Comunista d’Italia e prima guida politica nazionale nel 1921, Amadeo Bordiga è oggi poco conosciuto. Eppure, nonostante alcune rigidità, il suo pensiero ha ancora qualcosa da dire sul presente e sul futuro
Nell’agosto scorso la casa editrice Brill ha pubblicato, nella sua collana «Historical Materialism», la prima Antologia di scritti di Amadeo Bordiga in lingua inglese: The Science and Passion of Communism. Selected Writings of Amadeo Bordiga (1912-1965). L’ha curata Pietro Basso, un marxista militante da lungo tempo, oggi redattore della rivista Il cuneo rosso. Nelle prossime settimane la sua Introduzione all’Antologia sarà pubblicata in Italia dalle Edizioni Punto Rosso.
Bordiga è un comunista quasi sconosciuto nel mondo anglofono ma, in gran parte, lo è anche in Italia, nonostante sia stato per almeno tre anni il leader indiscusso del Partito comunista nato a Livorno il 21 gennaio 1921, esattamente un secolo fa. La storiografia del Pci lo ha addirittura tacciato di collaborazione con il fascismo, per poi condannarlo al silenzio nel secondo dopoguerra. Come mai un tale destino?
Negli anni Trenta la denigrazione di Bordiga è stata tutt’uno con la «lotta al trotskismo». La sua espulsione dal partito, nel marzo 1930, avviene per aver «sostenuto, difeso e fatte proprie le posizioni dell’opposizione trotskista». Negli anni Quaranta, in particolare dopo la fine della guerra, il gruppo dirigente del Pci era preoccupato che Bordiga riprendesse l’attività politica, conoscendo il forte ascendente che aveva esercitato sugli iscritti al partito. La rigidissima consegna fu: creare un fossato fisico, psicologico, ideologico, «morale» tra i quadri e i militanti del Pci, e Bordiga e la sua aspra critica della linea di collaborazione nazionale con i partiti borghesi e la classe capitalistica sposata dal Pci – una prospettiva che, a dispetto del nome di «via italiana al socialismo», conteneva proprio la rinuncia all’obiettivo storico del socialismo.
La denigrazione e il tentativo di cancellare Bordiga dalla storia del partito furono attuati con metodi di abietta falsificazione. Ad esempio, nelle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, Bordiga è menzionato 18 volte, spesso con simpatia. Nonostante le differenze di formazione e le divergenze politiche, infatti, i due erano legati, oltre che dalla comune militanza, da sentimenti di stima e amicizia che non vennero mai meno. Ma nell’edizione delle Lettere curata da Felice Platone nel 1947 il nome di Bordiga scompare, e i passi che lo riguardano vengono volgarmente manomessi. Venne fatta circolare, poi, una foto contraffatta del (presunto) matrimonio della figlia di Bordiga in cui la (presunta) sposa veniva omaggiata da un’orda di Moschettieri del Duce – Bordiga la sbattè una volta sul muso di Massimo Caprara, a lungo segretario di Togliatti.
Quando è venuta meno quest’operazione di denigrazione/occultamento di Bordiga?
Comincia a venir meno a fine anni Sessanta, quando l’Italia è scossa da un impetuoso risveglio di lotte operaie e sociali che esprimeva una critica di massa, magari superficiale e non conseguente, del «partitone» riformista e della sua sempre più organica integrazione nelle istituzioni e nelle logiche borghesi. In questo nuovo contesto sociale e politico è nata la spinta a ricostruire la reale vicenda del movimento comunista in Italia, sia tra gli storici di sinistra più indipendenti (Cortesi, Fatica, De Clementi, Merli), sia tra i militanti. A quel punto è diventato possibile imbattersi nell’imponente figura di Amadeo Bordiga e nella storia del Pcd’I per quello che realmente sono state. Per quanto mi riguarda, l’incontro è avvenuto a metà anni Settanta, pungolato dalle «provocazioni» intelligenti di Silvio Serino. In seguito ne ho approfondito lo studio sotto il consiglio di Paolo Turco, un valente internazionalista alla cui memoria ho dedicato l’Antologia.
Cancellare Bordiga era anche funzionale alla costruzione di una certa visione di Gramsci – il patriota, il democratico, ecc. – contrapponendo in modo forse troppo frontale questi due militanti, che dopotutto avevano collaborato nella nascita del Pcd’I, non credi?
Certo: rimuovere del tutto Bordiga è servito al Pci anche a rimuovere la partecipazione di Gramsci alla nascita del Pcd’I come partito internazionalista rivoluzionario, per sostituire il Gramsci feroce critico del Psi ed entusiasta aderente alla III Internazionale, con un Gramsci utile a legittimare, attraverso il frontismo, l’integrale adesione del Pci agli interessi del capitalismo nazionale (e internazionale), il padre nobile della lunga marcia del Pci nelle istituzioni dello stato borghese. Salvo poi disfarsene come di un vecchio impolverato pupazzo di pezza, per sostituirlo con figure di tutt’altro rango: i Willy Brandt, i Tony Blair, i coniugi Clinton…
Anche tra coloro che non conoscono bene l’attività e il pensiero di Amadeo Bordiga, uno degli aspetti più noti è il suo astensionismo elettorale. Anche perché fu l’oggetto della polemica di Lenin contro di lui. Tu sostieni invece che bisogna ridimensionare l’importanza che ha avuto l’astensionismo nell’attività politica di Bordiga.
Constato una contraddizione: in Bordiga la ripulsa dell’elettoralismo diventa sempre più radicale fino al famoso articolo comparso sull’Avanti! il 21 agosto 1919 in cui compare la secca alternativa: Preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale. E però ogni volta che è costretto a scegliere tra la sua convinzione astensionista e la disciplina di partito, vince la disciplina. Questo è avvenuto nel 1919; al II Congresso dell’Internazionale nel 1920; nel 1921, quando, alla guida del Pcd’I, sostiene che è giusto partecipare alle elezioni in quanto si è in una fase di reazione politica; nel 1924, quando è già all’opposizione nel partito. Inflessibile, e anche schematico, nel formulare i principi, era più flessibile nell’azione politica.
Tuttavia è un dato il progressivo irrigidimento astensionista posto, nel dopoguerra, come questione di principio. E rimanda alla peculiare concezione generale della tattica propria di Bordiga, che la dissolve quasi nella strategia, per la pretesa – che Bucharin gli contesta – di «fissare l’ignoto», facendo in anticipo «l’inventario di tutte le ipotesi» ed elaborando «ogni sorta di misure di prudenza per non commettere alcun errore».
Qui tocchi un punto molto interessante. Di solito la «complessità» dei paesi democratici dell’Occidente viene utilizzata per insistere sulla necessità di adottare tattiche più flessibili, alleanze larghe, e concepire stadi intermedi tra il capitalismo e il socialismo. Bordiga ritiene, al contrario, che alla «diversità» dell’Occidente e alle sue specifiche forme di egemonia e di consenso, bisogna rispondere con uno scontro frontale con le istituzioni democratiche, posizione che adottò anche davanti all’ascesa del fascismo.
Anche in questo caso il bilancio è decisamente in chiaroscuro. Si può rimproverare a Bordiga e al giovane Pcd’I delle origini di non aver saputo usare in modo adeguato l’arma della tattica, sia in rapporto alle masse operaie inquadrate nel riformismo che verso le «mezze classi». Gli si può contestare di aver sbagliato nel ritenere che la borghesia italiana avrebbe preferito i Noske italiani ai Mussolini e che il fascismo avrebbe mantenuto un qualche formalismo liberal-democratico (la cosa avvenne, in realtà, solo fino al 1926). Si può anche far risalire il suo anti-democratismo di principio al pensiero libertario più che al marxismo e coglierne le pericolose ricadute sulla necessaria battaglia per la difesa dei diritti democratici delle classi lavoratrici.
Ma c’è un rovescio della medaglia non da poco. Anzitutto il Pcd’I a guida Bordiga è stato il solo partito che si è battuto coerentemente e in modo organizzato contro il fascismo (e di questo ha poi largamente beneficiato anche il «partito nuovo» di Togliatti negli anni della Resistenza). In secondo luogo va riconosciuto a Bordiga di avere posto (dico: posto, non risolto) la questione della speciale «potenza storica del parlamentarismo borghese» in Occidente. E di avere messo in luce che non si poteva trasferire meccanicamente in Europa occidentale la tattica adottata in Russia sottovalutando che i moderni stati capitalisti liberali disponevano di una capacità di auto-difesa e di intervento nella vita del movimento operaio assai maggiore degli stati autocratici. Sul piano storico, inoltre, è incontestabile la sua previsione che la borghesia democratica, dopo aver spianato la strada al fascismo, lo avrebbe usato e, al momento opportuno, scaricato. Così come l’aver identificato negli stati democratici tendenze sempre meno liberali, sempre più burocratico-totalitarie, e denunciato lo stretto legame tra democrazia e militarismo – di cui l’imperialismo statunitense è stato ed è il massimo esempio.
Oltre che per la critica della democrazia, Bordiga si è contraddistinto anche per la sua peculiare visione del partito.
La sua formula più espressiva è: il partito è a un tempo un prodotto e un fattore della storia. Ma specie nel secondo dopoguerra c’è una forzatura, anzi: una catena di forzature di questa stessa formula in chiave «soggettiva», che lo conduce a rappresentare il partito quasi come il deus ex machina del processo rivoluzionario, fino a sostenere che «definisce la classe, lotta per la classe, governa per la classe e prepara la fine dei governi e delle classi». Il risultato è una sorta di canonizzazione metafisica del partito a scapito del ruolo attivo della massa della classe e degli sfruttati in generale, e dell’adeguata considerazione delle pre-condizioni oggettive che consentono ai proletari di «organizzarsi in partito». Su questo si demarca sia dai consiliaristi e da Rosa Luxemburg, che da Lenin. È questa, secondo me, la parte più caduca del lascito di Bordiga. E anche contraddittoria, perché se più volte sostiene che la degenerazione del partito comunista non dipende essenzialmente da errate formule organizzative, nel secondo dopoguerra dà valore ad alcuni concetti o misure organizzative come fossero invece capaci di preservare di per sé l’integrità del partito (dal centralismo organico al rifiuto di statuti e regole, dall’assoluta anonimità al partito come Gemeinwesen che anticipa la futura società).
Un aspetto molto importante di tutta la militanza e il pensiero di Bordiga è l’internazionalismo. Ha sempre collocato sia i problemi russi che quelli italiani nel contesto internazionale, negando la possibilità di costruire il socialismo in un solo paese (per di più arretrato). Quindi c’è la critica di Stalin nel 1926 al VI Esecutivo allargato e l’insistenza che tutti i partiti del Comintern prendessero in mano anche i problemi «russi».
L’internazionalismo è stato un elemento caratterizzante dal primo all’ultimo giorno della sua vita di militante, e questa attitudine teorica e politica è di una straordinaria attualità. Fu tra i dirigenti della Terza Internazionale più radicalmente convinti che lo scontro tra capitalismo e socialismo fosse uno scontro mondiale, e avrebbe avuto un esito, di vittoria o di sconfitta, unitario; senza per questo perdere di vista, come gli si contesta a torto, la diversità dei contesti, delle situazioni e dei passaggi del movimento rivoluzionario internazionale. Per lui (non solo per lui, è ovvio) l’Ottobre russo era soltanto l’atto I della rivoluzione socialista internazionale.
E resta nella storia la sua battaglia al VI Esecutivo allargato (Mosca, febbraio 1926) per affermare che la questione russa non era semplicemente russa: il destino della rivoluzione russa era decisivo per quello della rivoluzione internazionale – come è stato. Per cui le decisioni da adottare per sviluppare progressivamente «elementi socialisti nell’economia russa», le scelte verso i contadini, i nepmen, la piccola borghesia, la politica del partito russo e dello stato russo all’interno e verso l’estero, erano questioni vitali per l’intero movimento comunista internazionale, per le sorti dello scontro, ancora aperto (al 1926), tra rivoluzione e controrivoluzione, e quindi dovevano essere affrontate e decise assieme dall’intera avanguardia comunista internazionale. Rimase solo a sostenere questa tesi, perché nei partiti comunisti era in atto da anni una politica di emarginazione, intimidazione, e di «volontaria» chiusura nel silenzio, di quanti non condividevano gli indirizzi che si stavano prendendo in Russia e nell’Internazionale. E perché, più in profondità, era già cominciato da anni il rinculo del processo rivoluzionario davanti alla forza della controffensiva capitalistica anch’essa internazionale (democrazie+fascismo).
La critica bordighiana dello stalinismo rifugge dal moralismo, dal democratismo, dalla tentazione di individualizzare il «male» e dalla generica ripulsa del burocratismo. Nel secondo dopoguerra, poi, scandalizzando forse qualcuno, sostiene che lo stalinismo, controrivoluzionario in politica, ha avuto la funzione rivoluzionaria di costruire capitalismo in Russia.
Bordiga, espulso dal partito nel 1930, si ritira dalla vita politica. Caratterizzò la sconfitta dei secondi anni Venti come una sconfitta fondamentale, duratura, dopo la quale si sarebbe dovuto aspettare un cambiamento di fase storica prima di poter ricostruire il partito. Non si lanciò in una lotta di frazione dentro l’Internazionale, e quando in una rara intervista prima della morte gli fu chiesto perché non era andato all’estero, la risposta fu: «non c’era niente da fare».
In effetti, la sua risposta è sempre stata questa. E si spiega anche con il fatto che il doppio durissimo colpo inferto dal fascismo al Pcd’I nel 1923 e nel 1926 lo aveva praticamente disarticolato. Negli anni Trenta, in Italia, ha fatto pochissimo quanto niente, anche il Pci di Togliatti. Gramsci, entrato in carcere quando era il segretario del Pcd’I, fu abbandonato a sé stesso. Si può criticare Bordiga per aver interrotto ogni rapporto anche con i suoi più stretti compagni della Sinistra emigrati in Belgio, in Francia, negli Stati Uniti, e con quelli rimasti in Italia. Anche perché negli anni Trenta, in Spagna, in Francia, in Cina e altrove ci sono stati scontri di classe importanti. Tuttavia va tenuto presente che il precipizio contro-rivoluzionario fu devastante per velocità e profondità, e in quel terribile vortice neanche l’irriducibile Trotsky riuscì a ottenere particolari risultati.
Quando Togliatti sbarca a Napoli verso fine marzo 1944, la prima cosa che chiede, secondo alcuni suoi compagni, è: «cosa fa Bordiga?». Era caratteristico di Bordiga negare il ruolo dell’individuo e anche la sua stessa importanza. Ma sta di fatto che durante la Prima guerra mondiale era stato un leader carismatico dell’anti-interventismo, e nel 1943-1944 avrebbe potuto diventare un punto di riferimento per le varie opposizioni e minoranze esistenti nella base del Pci, molto confuse, ma convinte di stare ripristinando le tradizioni del partito del ’21…
Sembra che Bordiga fosse dell’idea di non affrettare, e perfino di sconsigliare, l’uscita dal Pci dei quadri proletari più legati all’esperienza degli anni Venti. Forse si aspettava un’evoluzione non di singoli o di piccoli gruppi, ma di un settore di proletariato combattivo verso le posizioni della Sinistra. Quel che è certo, invece, è che fu strattonato da più parti perché tornasse in campo sulle posizioni «di sempre». Recalcitrava perché riteneva assai prematuro ogni tentativo di ricostituire «il partito». Tuttavia dalla fine del 1944 al 1965-66 svolgerà comunque un’intensissima attività, seppur molto diversa da quella degli anni 1911-1926.
Puoi dire qualche parola in più sulle differenze dell’attività di Bordiga nei due periodi?
Non sono soltanto due periodi dell’attività militante di Bordiga, sono due fasi storiche radicalmente differenti. E tale radicale diversità ha inciso in modo determinante sulle caratteristiche della sua attività. Gli anni 1912-1926 corrispondono all’incubazione e all’esplosione del più grande ciclo rivoluzionario della storia contemporanea, protagonisti il proletariato industriale russo ed europeo e le masse contadine povere di Russia. Viceversa, gli anni 1945-1965 coincidono con i mitici decenni della pace (in Europa) e dello sviluppo post-bellico, segnati da un ritmo dell’accumulazione di capitale senza precedenti e dall’avvento della «società dei consumi». Una lunga fase particolarmente sfavorevole per l’azione politica organizzata dei rivoluzionari. In Italia ci fu solo un breve arco di tempo, tra il marzo 1943 e giugno 1947, in cui fu dato ai più coriacei tra i rivoluzionari internazionalisti appartenuti al Pcd’I di svolgere, come Partito comunista internazionalista, un lavoro politico organizzato che fosse in qualche misura legato a settori di massa. Passato questo intermezzo, il lavoro di Programma comunista, il collettivo di compagni con cui Bordiga operò dopo il 1952, fu un lavoro essenzialmente teorico e, al più, di propaganda politica.
Bordiga ha sempre parlato dell’importanza di tornare al marxismo classico. In che senso potremmo dire, invece, che la sua elaborazione nel secondo dopoguerra è stata innovatrice?
Amadeo Bordiga e il collettivo di compagni stretto intorno a lui si trovarono di fronte al compito colossale di ristabilire i cardini della teoria marxista non più attingendo a «singoli frammenti» di essa, ma ripercorrendola tutta da cima a fondo perché nessun suo aspetto era sopravvissuto intatto dopo l’opera di adulterazione compiuta dallo stalinismo, e l’abile uso capitalistico di questa adulterazione.
Bordiga utilizza gli attrezzi forniti dalla tradizione marxista anzitutto per esaminare e inquadrare l’esperienza della «costruzione del socialismo» in Russia. Per sciogliere questo enigma, si serve delle categorie dell’economia politica marxiana, andando diritto ai rapporti di produzione e chiedendosi se nella Russia di Stalin vigevano o no, in essi, le stesse categorie del capitalismo in Occidente. Si è trattato di un enorme lavoro di ricerca sui dati relativi all’evoluzione sociale della Russia in cui era impegnato con lui tutto il collettivo di Programma comunista. L’essenziale, sostiene, non è la proprietà statale o privata dei mezzi di produzione, è l’estrazione di plus-valore e la redditività; sono i criteri di fondo con cui la produzione è organizzata; è la centralità, o meno, dell’azienda, il dispotismo aziendale («la bestia è l’azienda, non chi ne è il proprietario»); sono l’esistenza o meno della produzione di merci, lo scambio mercantile, la vendita e la compera di forza-lavoro, il salario, la contabilità in moneta, i prezzi, che non sono meri strumenti tecnici, residui nella circolazione di un modo di produzione ormai superato. Se permangono tali categorie, c’è capitalismo. E quindi non può esserci vera pianificazione socialista, perché questa si fa sulla base del censimento dei bisogni sociali, determinando ex ante ciò che si deve produrre.
Pochi marxisti hanno dimostrato con pari chiarezza che una cosa è l’economia statizzata, altra l’economia socialista. Per Bordiga la linea di tendenza generale – già negli anni Cinquanta – era alla riduzione degli elementi statali nell’economia, non l’inverso. E le figure dei classici capitalisti imprenditori privati individuali si stavano formando dentro le reti di connessione tra imprese e mercato e dentro il processo dispotico di estrazione del plus-valore all’interno delle singole aziende, di stato o meno. Non si auto-confessavano ancora per tali, ma la «confessione» sarebbe venuta. E venne, infatti, in pieno, negli anni della perestroika gorbacioviana e seguenti. O qualcuno pensa che i pescecani dell’era Yeltsin siano stati paracadutati dall’estero?
Nell’Antologia c’è anche un’ampia sezione di scritti di Bordiga che riguardano gli Stati Uniti, e sono forse tra i meno conosciuti…
Infatti, nel secondo dopoguerra l’altro grande campo di applicazione della critica bordighiana operante con le armi ri-affilate del marxismo classico sono gli Stati Uniti, il paese-guida del capitalismo occidentale e mondiale che nel secondo dopoguerra diffondeva ovunque, anche al di là della cortina di ferro, l’utopia di un capitalismo affluente e popolare, capace di superare nei fatti la polarizzazione di classe. Ho scelto una decina di testi del decennio 1947-1957, che parlano degli Stati Uniti, del loro «assalto all’Europa», della loro guerra in Corea, del loro modello di società. Già negli anni Cinquanta Bordiga mette nel mirino il tentativo statunitense di «promuovere» il proletario a consumatore, costringendolo a indebitarsi attraverso il suo folle disciplinamento «a consumi standardizzati e scatoliformi spesso dannosi». L’economia capitalistica è inquadrata da Bordiga negli anni Cinquanta come Disaster Economy, con una critica dell’economia dello spreco che non ha pari in altri marxisti.
La Disaster Economy…
Sì, prima, molto prima, dell’attuale recupero della dimensione ecologica del pensiero di Marx, Bordiga ha mostrato che nel marxismo delle origini l’aggressione capitalistica al lavoro vivo e l’aggressione del capitale alla natura sono due facce della stessa medaglia, e usando lo stesso criterio si coglie nell’ultimo capitalismo «una feroce fame di catastrofe e di rovina».
Nel caratterizzare il capitalismo contemporaneo, attraverso la sua ipertrofia finanziaria, la sua ipertrofia speculativa, la sua ipertrofia consumistica e debitoria, la sua mostruosa ipertrofia militarista, il suo distruttivismo anti-ecologico, la sua rinnovata oppressione neo-coloniale sui popoli di colore, e così via, Bordiga ha visto lontano. E nella sua critica delle caratteristiche degenerative del supercapitalismo statunitense non c’è nulla dell’anti-americanismo di maniera con il suo rancido retrogusto nazionalista o europeista; c’è la critica delle tendenze generali del modo di produzione capitalistico e dei guasti crescenti che provoca nella vita dell’umanità e della natura. Una critica acuminata, piena di sarcasmo, particolarmente attuale, che mostra il carattere anti-produttivistico del marxismo di Bordiga.
Non a caso, nel 1953, stilando un programma delle prime trasformazioni rivoluzionarie da attuare nei paesi a capitalismo sviluppato, mette al suo centro un piano di sottoproduzione: tagliare miliardi di ore di produzione inutile o dannosa, disinvestire, aumentare i costi di produzione, sradicare l’abitudine al superconsumo. Per molti aspetti, questo non è più il programma del Manifesto del Partito Comunista del 1848… Dallo studio di Marx e del marxismo, inclusi i testi trascurati o appena scoperti (i Grundrisse, di cui ha scritto il primo commento in italiano), arriva alla definizione del comunismo come piano di vita per la specie umana. Un piano unitario e internazionale di produzione e di consumo, fondato sulla soddisfazione dei bisogni umani autentici. Questi temi sono stati posti con largo anticipo sui tempi, e ci si presentano tutti, nell’attuale momento, con una impressionante drammaticità.
Sebbene non pensava che stessero costruendo il socialismo, Bordiga ha anche riconosciuto la forza dirompente delle rivoluzioni anticoloniali e ha ripudiato ogni visione appiattita e indifferenziata del mondo.
Negli anni Venti Bordiga rimase perplesso davanti alle tesi sulla questione coloniale approvate dal II congresso dell’Internazionale comunista. Ma nel secondo dopoguerra, sollecitato dal forte moto coloniale tricontinentale, si corregge e fa sua, per l’essenziale, la visione su cui trent’anni prima aveva esitato.
Per Bordiga le rivoluzioni anticoloniali sono rivoluzioni sociali autentiche, rivoluzioni agrarie, antifeudali, nazionali. Limitate certo all’instaurazione di rapporti sociali borghesi, ma vere rivoluzioni, che ampliando l’area dei rapporti sociali capitalistici nel mondo in scontro con le grandi potenze, e trascinando nell’area della politica mondiale immense masse di sfruttati, gettavano alla lontana le basi per la rinascita di un movimento proletario internazionale più potente che mai.
Negli ultimi anni è evidente, specie nel mondo anglosassone, un «ritorno a Marx», che si spiega con l’avvento di una crisi epocale del capitalismo. In questo nuovo contesto storico costellato di eventi catastrofici come quelli in cui il capitalismo ci ha piombati dall’inizio del secolo, sono convinto che l’«iguanodonte fossile» Amadeo Bordiga verrà riscoperto come un marxista (sui generis) che ha più di qualcosa da dire sul presente e sul futuro, mentre chi l’ha definito tale (l’illustre Togliatti) sarà definitivamente inghiottito nell’oblio.
*Pietro Basso ha insegnato sociologia nelle università di Napoli (Istituto Orientale) e Venezia (Ca’ Foscari). Improntati alla critica marxista del capitalismo, i suoi scritti sul tempo di lavoro, la disoccupazione, le migrazioni internazionali, il razzismo dottrinale e di stato, l’islamofobìa, le lotte del proletariato, sono tradotti in molte lingue. David Broder è uno storico del comunismo francese e italiano ed è redattore europeo di Jacobin.
Sempre la solita storia: quando di una dottrina (politica, economica, sociale) se ne fa una Dottrina, dogma oggetto di culto e insieme di rituali ben precisi, quella dottrina è fottuta. E’ successo così per il marxismo divenuto una grande chiesa, e si parva licet, è successo così per il bordighismo, una piccola chiesa coi suoi fedeli ancora asserragliati dentro.
@ Bugliani
Distinguere il grano (poco o tanto) di un autore e lasciar perdere il loglio.
Questo mi pare faccia Pietro Basso e perciò l’ho condiviso.
Vale anche il detto: non buttare l’acqua sporca col bambino.
Concordo, come straconcordo con la precisazione di Romanò qua sotto. La mia osservazione era “viziata” dalla mia rapsodica esperienza (da esterno) coi bordighisti nel corso degli anni.
E aggiungerei un “bordighista” d’eccezione: Danilo Montaldi.
L’intervento di Pietro Basso è bello, utile e onesto e di questi tempi non è poco. Non dico molto bello perché infondo non rivela grandi novità, solo che erano decenni che non se ne parlava più. Detto ciò, Bordiga va salvato dai bordighisti, così come Marx va salvato dai marxisti e Lenin dai leninisti, mentre Stalin non va salvato, punto. A un patto però: che non si dica che è fuori dal marxismo, perché purtroppo è dentro e ci trascineremo ancora dietro per molto tempo questa tragica eredità. Un’ultima cosa. Sapevo che nei quaderni Bordiga è citato con simpatia, ma mi piacerebbe che un editore facesse un’edizione critica di quelle citazioni con commenti.
A conferma della nocività degli -ismi, nella voce ‘Amedeo Bordiga’ del Dizionario biografico Treccani, comunque utile anche se un po’ troppo sbilanciata a favore di Gramsci, viene ricordato che Bordiga “arrestato a Napoli il 20 novembre e confinato prima a Ustica, dove visse in cordiale dimestichezza con Gramsci per circa un mese, poi a Ponza, venne liberato alla fine del 1929. Poiché durante il confino aveva espresso la sua solidarietà a Trockij – che egli si compiaceva di trovare finalmente “rallié alla sua posizione”, secondo un’informazione di Grieco (Spriano, 1969, p.255) -, venne espulso dal PCd’I nel marzo del 1930.”
(https://www.treccani.it/enciclopedia/amadeo-bordiga_%28Dizionario-Biografico%29/)
Concordo in gran parte con ciò che dice Pietro Basso, che tocca i punti chiave del pensiero di Bordiga e della sua vicenda biografica, e anche del bordighismo. Ma forse alcuni di questi punti chiave non sono abbastanza messi in rilievo da poter capire, in sintesi, ciò che caratterizza Bordiga e lo distingue da altri politici e altri teorici del filone della variegata storia del marxismo e del comunismo marxista.
Il movimento bordighista stesso, per quanto ristretto come numero di militanti e come risorse disponibili, si è suddiviso, nel dopoguerra (dal 1945), in più tronconi, di cui due i principali: quello che ha continuato l’attività bordighista / bordighiana in senso stretto, con Bordiga a capo (ma defilato) fino alla sua morte (Formia, 25 luglio 1970) e in seguito con a capo il milanese Bruno Maffi (Torino, 1909 – Milano, 20 agosto 2003), con sede principale a Milano. Questo asse, prima raccolto nel Partito comunista internazionalista, che dal 1964 diventò Partito comunista internazionale (con «Il programma comunista» come principale organo di stampa), subì due scissioni principali promosse, una dal leader Bruno Fortichiari (1892 – 1981), che fu tra i principali collaboratori di Bordiga e uno dei fondatori del P.C.d’I. e poi della bordighiana “sinistra comunista del P.C.d’I”, fino alla sua espsulsione. Dopo varie vicende, fra cui un rientro nel Pci e una nuova espulsione, la sua corrente portò alla nascita di “Lotta Comunista”. Un altro leader che fu bordighista fin dal periodo napoletano prima della scissione di Livorno e che si distaccò da Bordiga solo nel 1952, fu Onorato Damen (1893 – 1979) che diede vita al gruppo che conservò le testate del partito e da esse prese nome: “Battaglia Comunista” e “Prometeo” . L’esperienza politica di Fortichiari e Damen, pur nella loro diversità, mette in luce, come motivo di fondo della divisione da Bordiga, motivi teorici e di strategia politica che si riassumono nei due termini che vennero a suo tempo usati nelle reciproche polemiche: “attesisti” i bordighiani di Bordiga, “attivisti” gli altri.
E qui si tocca un punto chiave del pensiero di Bordiga che spiega anche il suo defilarsi dalla lotta politica, dopo il 1930, e il proseguire l’attività praticamente solo seguendo e ispirando le vicende del Partito comunista internazionale con i suoi numerosi scritti, dalla sua residenza di Formia (e dalla sua attività professionale di ingegnere), lasciando a Bruno Maffi e altri l’effettiva guida organizzativa e la direzione della stampa.
Bordiga riprende, del marxismo, l’anima deterministica. Egli è convinto che la rivoluzione accadrà quando le condizioni sociali la renderanno inevitabile; accadrà spontaneamente (e in questa concezione dello spontaneismo rivoluzionario vi è anche un certo spirito libertario contraddetto dal suo determinismo e dalla concezione ferrea e rigida della forma partito e della militanza comunista; ma questa contraddizione è già presente in Marx), per cui anche il partito rivoluzionario crescerà e assumerà il ruolo di guida quando le condizioni sociali richiederanno la sua attività. Quindi, respinge ogni presupposto idealistico, volontaristico e attivistico. Non è il partito che porta il proletariato alla rivoluzione, ma è la rivoluzione del proletariato che porta alla formazione del partito e che produce la sua classe dirigente rivoluzionaria. Nelle fasi di “bassa” tensione rivoluzionaria il partito non può fare altro che “attendere” e tenere viva l’idea della necessità della rivoluzione raccogliendo un esiguo numero di militanti ed elaborando l’analisi della situazione. In pratica l’attività di Bordiga e del bordighismo più stretto si riduce alla pubblicazione dei risultati dell’analisi, per mezzo della stampa di partito, e della selezione di un ristretto gruppo di militanti che potrà diventare, quando sarà il momento, il primo nucleo della classe dirigente della rivoluzione.
Da questa posizione teorica e pratica ne segue:
1) L’astensionismo elettorale, concepito come inutile e corruttivo attivismo. Chi partecipa alle elezioni per venire eletto in parlamento non potrà che piegarsi alle leggi della politica parlamentare, quindi della politica borghese e della corruzione borghese. Fu questo un elemento di divisione all’interno del P.C.d’I. fin dai suoi primi anni. Il gruppo napoletano bordighista, che fu il gruppo principale che, aderendo alla Terza Internazionale, spinse per la scissione di Livorno del 1921, si distinse per questo e per altri motivi dal gruppo torinese dell’«Ordine Nuovo» di Gramsci fin da prima del 1921. La loro collaborazione, ma non unione, nel promuovere la scissione del 1921 e poi per un paio d’anni circa, era tenuta insieme dalla comune adesione alla Terza Internazionale. Quando le vicende dell’Urss determinarono il distacco fra Lenin e Bordiga, che fu, ancora prima di Trotzky, critico, fin dal 1920 e per qualche aspetto anche prima, delle deviazioni leniniste verso il totalitarismo e la Nep, prevalse nel P.C.d’I. la linea di Gramsci nella versione togliattiana, che fu il più servile leninista e poi stalinista italiano di allora e accanito avversario di Bordiga, senza farsi scrupolo di calunniarlo e volerne l’espulsione (e se possibile la morte, come poi nel 1944 chiese al C.L.N. la condanna a morte di Onorato Damen sulla base di calunnie da lui stesso, cioè da Togliatti, alimentate, costringendo Damen alla clandestinità non solo rispetto al fascismo ma anche rispetto ai partigiani del Pci).
2) La condanna, di Bordiga, della concezione leninista del «centralismo democratico», considerato una deviazione borghese del marxismo. Bordiga valutava lucidamente come il termine “centralismo” prevalesse sul termine “democratico” e configurasse nella realtà una leadership di tipo bonapartista. Vi opponeva la sua dottrina del «centralismo organico», dove “organico” alla rivoluzione significava anche, in qualche modo, “spontaneo”. Indicava l’emergere della leadership rivoluzionaria nel corso della rivoluzione e il prevalere dei leader così emersi sul partito, che doveva essere al servizio della rivoluzione e non usare la rivoluzione come proprio strumento di potere.
3) Ciò comportava anche una divergenza di fondo sulla concezione del partito e su questo la divisione fra Bordiga e Lenin fu profonda. Per Bordiga, Lenin è un buon marxista fino al 1919 circa, mentre in seguito nella sua azione emergono i motivi di deviazione già presenti nei suoi scritti precedenti e inizia la degenerazione del partito e dello Stato sovietico.
4) Sulla natura dello Stato sovietica Bordiga scrisse molto e analizzò il problema acutamente in articoli e saggi e poi in un’opera in due grossi volumi pubblicata prima anonima e più recentemente col suo nome. Considerava l’Urss il frutto di un’involuzione borghese che aveva portato al capitalismo di Stato, ormai, dopo i primi anni venti, irrecuperabile, se non con una nuova rivoluzione che facesse piazza pulita delle deviazioni leniniste e staliniste. La sua analisi era sensibilmente diversa da quella di Trotzky. Per Bordiga l’Urss non era uno Stato comunista e nemmeno uno Stato che stava costruendo il comunismo; per il rivoluzionario russo era invece uno Stato rivoluzionario in via di costruzione del comunismo, ma sottoposto ad alcuni processi degenerativi propri dello stalinismo. Pertanto non era necessaria una nuova rivoluzione, ma bastava rovesciare l’egemonia stalinista. Qualche simpatia e qualche occasionale collaborazione fra i due era solo motivata dalla comune polemica contro Stalin. Bordiga non fu mai trotzkista e il Pci che lo volle condannare come tale si sbagliava ed era in malafede, ormai del tutto asservito allo stalinismo.
5) Il fascino delle posizioni di Bordiga, per i pochi militanti che lo seguirono, stava più che nelle sue proposte rivoluzionarie nelle sue acute analisi dello stalinismo e della situazione politica via via che gli anni passarono; a cui si aggiunse, nel periodo anni Sessanta e Settanta, la critica al “nullismo” dei partiti e dei gruppi extraparlamentari e della lotta armata, nei quali i bordighisti vedevano l’emergere di un’esigenza di rivoluzione alla quale, però, il Pci e i gruppi marxisti rispondevano in modo sbagliato, tradendo quell’esigenza o comunque deviandola, anche perché il richiamo al leninismo e allo stalinismo li condannava in partenza a un ruolo di finto rivoluzionarismo e di deviazione riformista e opportunista. A ciò i bordighisti opponevano il richiamo a un marxismo ortodosso ma schematico, nel quale la concezione deterministica continuava ad avere un gran peso; e a una politica pratica di interventi più come testimonianza che altro, in “attesa” che la marea rivoluzionaria montasse spontaneamente e arrivasse al livello di rottura.
6) L’alternativa alla partecipazione elettorale era, fin dal 1919, la preparazione rivoluzionaria e la lotta armata, ma anche questa doveva sorgere spontaneamente dalla rivoluzione. Solo con l’organizzazione degli «Arditi del Popolo», sorta nel 1921 e appoggiata dai comunisti bordighisti (mentre Gramsci e Togliatti furono più cauti e “attendisti” nei confronti della lotta armata contro le squadracce fasciste), sembrò a Bordiga necessario e doveroso rispondere al fascismo con la lotta armata. Un altro momento storico in cui sembrò ai bordighisti necessaria la lotta armata fu nella resistenza al nazismo dopo il settembre 1943. I bordighisti romani furono tra i pochi combattenti che si opposero all’occupazione nazista di Roma fin dal suo primo momento.
Negli anni Settanta invece la situazione sociale e delle lotte del proletariato non sembrò ai bordighisti abbastanza matura da rendere utile il passaggio alla lotta armata, che però continuava a rimanere, nelle formulazioni teoriche, la via unica e necessaria per la vittoria della rivoluzione. In pratica però la lotta armata, e la vicenda delle Brigate Rosse, veniva condannata come deviazionismo attivistico e come errore che avrebbe rafforzato la repressione borghese.
7) Un’altra conseguenza del modo come Bordiga interpreta il marxismo e i problemi della rivoluzione proletaria, è la dottrina che vuole come frutto spontaneo delle lotte di classe e sua espressione l’affinarsi della teoria stessa e il suo dispiegarsi nell’analisi politica e nei programmi. Ciò vuol dire che gli scritti di Bordiga – per semplificare la questione – non sono frutto dell’individuo Bordiga, ma delle lotte di classe, e Bordiga ne è solo il “redattore”. Da qui il rifiuto del personalismo e la pubblicazione di tutta la stampa come opera di tutto il partito e anonima rispetto ai singoli autori, “amanuensi della rivoluzione”. Le opere di Bordiga, pubblicate col suo nome, o risalgano a prima del 1930 o sono pubblicate da editori estranei al partito che le riprendono in proprio, visto che i bordighiani / bordighisti non ne fanno mai una questione di diritti d’autore.
Dopo la morte di Bordiga, però, la moglie fu più incline, anche per preservarne e promuoverne la memoria, ad abbandonare l’anonimato e a far pubblicare opere di Bordiga con il suo nome e a cura anche di studiosi non appartenenti al partito.
***
Il Partito comunista internazionale ha anche pubblicato, in più volumi, un’ampia storia della sinistra comunista, anonima, ma, per voce comune, attribuita in parte a Bordiga stesso e poi, il seguito, a Bruno Maffi e ai suoi collaboratori. Oggi, per chi volesse conoscere il pensiero di Bordiga, sono disponibili, in commercio o in biblioteca, la maggior parte delle sue opere, alcune in più edizioni di diversi editori, oltre alle ristampe a cura del partito.
Dal punto di vista degli studi critici a livello accademico il silenzio su Bordiga, voluto e accuratamente difeso dal Pci, è stato rotto da un libro di Andreina De Clementi (“Amadeo Bordiga”, Torino, Einaudi, 1971), seguito da un libro di Franco Livorsi (“Amadeo Bordiga: il pensiero e l’azione politica, 1912-1970”, Roma, Editori riuniti, 1976). Livorsi si era già occupato di Bordiga in un saggio del 1974 e tornerà a occuparsene anche in seguito. Può sembrare strana la pubblicazione da parte di Einaudi prima e degli Editori Riuniti, casa editrice del Pci, poi, ma Togliatti era morto già da alcuni anni ed era cominciata una qualche revisione della storia del Pci anche all’interno del partito, promossa, indirettamente, dallo stesso Togliatti che in un suo volume (“La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano nel 1923-1924”, Roma, Editori riuniti, 1962) aveva per la prima volta dedicato alcuni passaggi all’opera di Bordiga riconoscendogli il ruolo di primo piano nella storia della fondazione e dei primi anni del P.C.d’I. Con gli anni Settanta l’argomento Bordiga non fu più tabù e venne ripreso da diversi punti di vista anche nella stampa ufficiale del Pci. A Milano, se ricordo bene in occasione dei 90 anni di Bruno Maffi (1999), due docenti universitari, Giorgio Galli e Franco Livorsi, in collaborazione con gli eredi di Bordiga e con il Partito comunista internazionale, organizzarono un convegno su Bordiga e la storia della sinistra comunista. Ufficialmente anche l’Università degli Studi di Milano, con le due facoltà (Lettere e Scienze politiche) alle quali appartenevano i due docenti, figurava tra i promotori. Ma tra il pubblico presente al convegno l’università e i suoi docenti erano pressoché del tutto assenti. Galli si era interessato a Bordiga nei suoi studi sulla storia del Pci e prima ancora, come militante socialista, aveva collaborato alla nascita del “Movimento della Sinistra Comunista” (1956-1972), al quale collaborarono militanti di formazioni e provenienze diverse uniti solo dall’antistalinismo. Fra questi vi erano Fortichiari, Luciano Raimondi, Giulio Seniga, i Gruppi Anarchici di Azione Proletaria (GAAP) con Arrigo Cervetto (che poi sarà uno dei fondatori di “Lotta Comunista”) e Lorenzo Parodi, i comunisti internazionalisti di Battaglia Comunista, i trockijsti dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari di Livio Maitan, oltre alcuni intellettuali, come Danilo Montaldi e, appunto, Galli, di tendenza comunista e socialista.
Forse non è inutile ricordare che Bruno Maffi, oltre a numerosissimi articoli e saggi e cura di volumi editi anonimi dal partito e che oggi è pressoché impossibile attribuire con certezza a lui o ad altri collaboratori della stampa di partito (anche perché era diffusa l’abitudine di buttar via i testi manoscritti o dattiloscritti una volta stampati, per cui il partito non aveva un archivio dei testi preliminari e nemmeno della corrispondenza e dei verbali delle riunioni, per evitare il rischio che questo materiale cadesse in mano alla polizia nel corso di perquisizioni e di arresti), è stato, col suo nome e per vari editori, un ottimo traduttore dal francese, inglese e tedesco sia di classici della letteratura sia di opere storiche di rilievo, scelte anche per il contributo che potevano dare alla cultura di sinistra. Fra queste opere vi è la traduzione e cura di un inedito di Karl Marx (“Il capitale: libro 1., capitolo 6. inedito : risultati del processo di produzione immediato”, presentazione, traduzione e note di Bruno Maffi, Firenze, La nuova Italia, 1969) e i tre volumi del “Capitale” (editi per la Utet e poi ristampati molte volte), traduzione e cura (in parte con la collaborazione dell’economista Aurelio Macchioro, altro personaggio “eccentrico” e interessante) che hanno sensibilmente rinnovato e migliorato le precedenti edizioni, compresa la traduzione di Delio Cantimori, e che è poi diventata la traduzione più accreditata e ristampata.
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Chiudo questo mio intervento con una curiosità. Nonostante l’antipersonalismo, l’antiliederismo, l’anonimato delle pubblicazioni ecc., non mancò nemmeno tra i bordighiani una qualche forma di culto della personalità nei confronti di Bordiga. Fra i militanti si ripetevano aneddoti su di lui: sulla sua grande memoria, capacità di lavoro, personalità carismatica, acutezza d’ingegno e così via. E secondo uno di questi aneddoti egli era capace di dettare simultaneamente fino a sette scritti diversi a sette segretari diversi, passando a dettare dall’uno all’altro, senza perdere il filo, essendo la sua capacità di pensare e dettare più veloce della loro capacità di scrivere. Leggenda o verità che sia, è anche questo un segno di come la personalità di Bordiga abbia lasciato una traccia di rilievo in chi l’ha conosciuto.
Tuttavia, se il bilancio storico è di grande interesse, il bilancio politico lo è assai meno. Bordiga appartiene a pieno titolo alla vocazione della sinistra marxista italiana e internazionale alla sconfitta e alla fuga: o verso una rivoluzione inutilmente attesa, o verso la trasformazione della rivoluzione, in caso di vittoria, in dittatura tendenzialmente totalitaria, o verso il parlamentarismo della tradizione borghese, o verso le forme di opportunismo di vario tipo di cui siamo testimoni anche oggi. A mio parere non c’è nulla, nel pensiero di Bordiga, che potrebbe essere ancora attualmente utile per una più corretta impostazione politica, a parte la lezione di rigore nello studio e nell’analisi e il rifiuto delle deviazioni bonapartiste, leniniste e staliniste, come poi castriste, guevariste ecc.
A proposito del Bordiga “ecologista” e critico dello spreco del capitalismo e della vita moderna. In forme aggiornate, articolate e documentate, spesso espresse in modo sarcastico, Bordiga e i bordighisti si rifacevano al comunismo classico, detto utopistico, e la citazione più frequente era il brano dell’opera di Thomas Moore “Utopia” dove si legge che l’oro era considerato un metallo vile: «[gli utopiensi] pongono ogni loro studio che l’oro e l’argento appo i lor popoli sia vilipeso. Così avviene che questi metalli tanto grati alle altre nazioni, sono tanto vili appo gli Utopiensi, che perdendoli tutti, non parrebbe loro di aver perduto un danaro».
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«Con l’oro, visto che è un metallo che non arrugginisce, ci faremo le condutture dei bagni». Questa è una frase che ho sentito ripetere da Bruno Maffi e altri e che forse è anche scritta in qualche numero della stampa del Partito comunista internazionale.
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Tuttavia l’impostazione di Bordiga e dei bordighisti non usciva da questo ambito e non aveva ancora una visione complessiva dei problemi ecologici. Restava all’interno dell’analisi delle distorsioni prodotte dal capitalismo, anche dal punto di vista esistenziale e degli stili di vita, con un’impronta anche moralistica e pauperistica, seppure molto diversa dall’idea della “austerità” di Berlinguer e del Pci. Non ricordo di aver mai letto nei testi di Bordiga e del Partito comunista internazionale il collegamento fra problemi ecologici e la sovrappopolazione, con una critica alla sovrappopolazione e la tendenza all’aggressione verso la natura che non è solo capitalistica, ma piuttosto tipica di ogni tempo e di ogni regime umano fino ad oggi.
Vi era ancora, in Bordiga, l’idea ottimistica che il “progresso” e la scienza, ben guidati dal comunismo, fossero in grado di risolvere tutti i problemi. In sostanza, quei suoi scritti in cui tocca i problemi ecologici, risultano oggi, a rileggerli, molto riduttivi. Semplificano troppo e troppo unilateralmente, nella concezione marxista, la complessità dei problemi.
@ Luciano Aguzzi
Mi fa piacere che questi “percorsi comunisti” – veri frammenti che seleziono e propongo per ora con l’unico scopo di attirare l’attenzione di ignoti lettori su una storia contraddittoria e anche feroce e tragica, colpevolmente e frettolosamente seppellita – vengano da te ripresi e arricchiti con una conoscenza storiografica oggi rara. Per ora grazie.
SEGNALAZIONE
Dietro la scissione, la rivoluzione
di Salvatore Cannavò
https://jacobinitalia.it/dietro-la-scissione-la-rivoluzione/?fbclid=IwAR2yA6yiVBL_DwErlU0CAiblSRQP8wA5K0fGTdA3-VEeLSHQ_FyKBhZw92k
Stralci:
Il «vento della rivoluzione» (dal titolo del volume dedicato al centenario a firma di Marcello Flores e Giovanni Gozzini) è la causa che spiega tutto o quasi di quella vicenda e l’esistenza in vita di un partito che si è chiamato comunista fino al 1991-92 ha sempre rappresentato, anche nonostante i suoi dirigenti, la memoria di quell’ambizione, la rottura con lo stato di cose presenti. L’impeto rivoluzionario, originato dall’evento-chiave della Rivoluzione russa del 1917, si espande nel resto d’Europa e fa scattare, per ragioni interne ed esterne, la formazione di nuovi partiti comunisti dopo il fallimento della Seconda Internazionale e l’allineamento della maggior parte dei partiti socialisti alle ragioni belliche del proprio governo nazionale. Il contrario di un internazionalismo che invece viene rinfocolato dalla presa del potere in Russia, dal balzo in avanti compiuto dai Bolscevichi guidati da Lenin e Trotsky, che rinsalda la convinzione di una possibilità finora inespressa.
Ed è curioso che il nucleo di verità, politico e storico, che spiega quegli avvenimenti, sia rintracciabile nel libro di Flores e Gozzini solo in una Postilla che, sia pure elegantemente, argomenta l’evitabilità della rottura. In quella Postilla si legge così che l’aspetto più importante di quella vicenda è che «il comunismo è stato un ideale». A muovere milioni e milioni di uomini e donne, compresi i dirigenti politici, c’è un sentimento profondo che si mescola ad altri e al fondo «dell’ideologia di partito, delle scelte dei gruppi dirigenti, degli errori clamorosi, delle rigidità settarie si colloca questo nucleo originario di solidarietà con i più poveri, di miglioramento di sé e degli altri, di reazione al male e di propensione verso il bene».
Se assumiamo questa affermazione come angolo di osservazione di una ricostruzione, dichiaratamente di parte, le cose si snodano in modo molto più semplice delle ricostruzioni postume, spesso posticce, e l’analisi di quei giorni epocali e dei decenni successivi si può comprendere con categorie più consone a chi scrive e a chi dà vita a questa rivista.
Si può capire meglio, infatti, la mossa iniziale, la rottura del gennaio 1921 – che in realtà matura nei mesi precedenti – come passaggio in cui la componente comunista del Psi decide che non ci sono più i margini all’interno di quel partito per portare avanti le idee di fondo che la rivoluzione d’Ottobre ha affermato quattro anni prima.
Con il senno del poi è abbastanza facile poter rimproverare ai comunisti di aver rotto il partito socialista proprio nella fase di crescita del Fascismo, che si affermerà un anno e mezzo più tardi con la Marcia su Roma. Ma questa posizione, ben evidente, ad esempio, nei libri di Ezio Mauro o di Piero Fassino, non tiene conto sia del fattore internazionale, la pressione costante del partito russo che spinge per andare alla resa dei conti con i riformisti – e il punto che origina la scissione, in fondo, è la richiesta al Psi di espellere i riformisti capeggiati da Filippo Turati – sia del dibattito interno.
2.
Si sono fatti errori di valutazione? Certamente. I dirigenti comunisti che guidano la scissione inclinano piuttosto platealmente a un ideologismo assoluto con forme di settarismo rintracciabili nei documenti. Pesa moltissimo, poi, l’ipoteca di Mosca che accompagna qualsiasi scelta dei successivi decenni. Farà fatica a imporsi, per moltissimo tempo, un approccio unitario con il resto della sinistra, rifiutato nei primissimi anni e, di fatto, abbracciato solo dopo la svolta dei «fronti popolari» impressa da Stalin nella seconda metà degli anni Trenta, ormai concepiti in un’ottica di mediazione e compromesso.
È lo stesso Gramsci, del resto, a confessare il suo «pessimismo» a valle della vicenda dei Consigli che, però, non lo spinge a rivedere il suo giudizio sul «partito di Pulcinella». Di cui probabilmente, fino alla concezione delle «casematte», sottovaluta la forza di insediamento sociale, l’arcipelago di strutture sindacali, cooperativistiche, associative che ne fanno una struttura di riferimento inaggirabile.
C’è infine anche l’equilibrio interno alla sinistra socialista che si raccoglie attorno al Manifesto con il ruolo prioritario di Amadeo Bordiga, il più determinato a costruire l’organizzazione anche se quello più «settario» e «puro» dal punto di vista dottrinario. Il gruppo torinese di Gramsci, Terracini e Togliatti all’inizio è minoritario, ci vorrà qualche anno prima di arrivare all’affermazione di Gramsci come capo del partito.
3.
Resta l’unicità di quanto avvenuto. E quell’unicità può aiutarci a comprendere che le storie politiche vanno analizzate e studiate, ma non sono mai ripetibili. Ribadire oggi la necessità della scelta rivoluzionaria nel 1921 non significa stabilire che sempre e ovunque una simile opzione non possa essere al fianco di un’opzione riformista in un unico partito che abbia a cuore gli interessi del proletariato, o di come oggi vogliamo chiamare la maggioranza di coloro che per vivere devono lavorare. Nel caso italiano, purtroppo, il problema nemmeno si pone visto che non esiste, di fatto, né una formazione a vocazione rivoluzionaria né una riformista.
Rimane il punto dell’alternativa tra rottura e compromesso. Lo stato del capitalismo internazionale, non solo italiano o europeo, pone con forza la necessità di un’alternativa di società e di sistema. La drammaticità delle condizioni in cui versa il pianeta, l’incapacità del capitalismo di venire a capo, in termini socialmente efficaci, di limiti strutturali come il predominio della sfera finanziaria, la debolezza mortale che i sistemi occidentali hanno esposto alla pandemia da Coronavirus, cui si sono arresi interi sistemi sanitari o scolastici, dicono che una riforma dell’esistente sarebbe comunque meglio che assistere alla scomposizione di interi settori sociali.
SEGNALAZIONE
La «seconda vita politica» di Amadeo Bordiga
Capitalismo e crisi ambientali
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-seconda-vita-politica-di-amadeo-bordiga?fbclid=IwAR1ZnDl_cKXacu05h1WaZW8c1Yl6i4Tvr0G-Yfh2F3_b6knZDmVn_YKTML0
Stralcio:
Tre anni dopo Bordiga ritorna su questi temi, affrontando la vicenda della catastrofe mineraria di Marcinelle, in Belgio, del 8 agosto 1956, dove periscono 252 minatori. Si tratta di catastrofi a cui non siamo più quasi abituati tanto sono lontane geograficamente o che ci giungono ormai come lontana eco, come quelle dei minatori russi, tagicchi, ucraini di Vorkuta o del Donbass che, ancora oggi capita, non risalgono dai pozzi dove sono costretti a immergersi ogni giorno. Di quell’inutile e dannoso carbone che ancora si produce in giro per il globo e con l’unico inutile fine del profitto. Nella prosa che Bordiga ha creato ad hoc («gaddiana», dicono i linguisti) se ne invoca la semplice soppressione: «Fate uscire tutti i vivi, e tappate per sempre queste discese! Non potrà mai dirlo la società mercantile, che si impantanerà in inchieste, messe funerarie, catene di fraternità, in quanto capisce solo la fraternità da catena, lacrime coccodrillesche, e promesse legislative ed amministrative tali da allettare altri “senza riserva” a chiedere di prendere posto ancora nelle lugubri gabbie degli ascensori: di cappello alla tecnica!»[11].
Sette anni ancora più tardi, siamo all’alluvione del Vajont dell’ottobre 1963 in cui perdono la vita più di 2000 persone, sottolinea: «Il problema geologico non è da calcoli da fumoir o da gabinetto di prove. È un problema di lunga esperienza umana sulla prova che hanno fatto i manufatti storici. Esperienza umana e sociale. Tutta la moderna ingegneria in quanto fa manufatti non tascabili o automobili, ma opere fisse alla crosta del pianeta, ha il suo problema chiave nel rapporto fra terreno e costruzione (per una umile casa la fondazione) e non ci sono formule che valgano per ogni caso, ma molteplici mezzi di arte tra cui si può scegliere avendo una sudata esperienza, e non basta prendere stipendi da tre milioni al mese per fumare dietro la calcolatrice elettronica»[12].
Tutta questa riflessione pone a Bordiga il problema di una critica implicita dell’idea stessa di sviluppo perché il dominio del lavoro morto su quello vivo, sulla forza produttiva proletaria, diventa assoluto. Si tratta di porre la questione della decrescita economica, di programmi di «disinvestimento», di un nuovo rapporto tra uomo e natura che non sia l’ottuso sfruttamento, archiviando un marxismo che continui a basarsi sull’apologia delle forze produttive. «Se è vero che il potenziale industriale ed economico del mondo capitalistico è in aumento e non in deflessione, è altrettanto vero che maggiore è la sua virulenza, peggiori sono le condizioni di vita della massa umana di fronte ai cataclismi naturali e storici. A differenza della piena periodica dei fiumi, la piena dell’accumulazione frenetica del capitalismo non ha come prospettiva la “decrescenza” di una curva discendente delle letture all’idrometro, ma la catastrofe della rotta»[13]. Come si vede da questo passaggio, forse Serge Latouche non ha inventato nulla che non fosse già stato affrontato dal bistrattato «marxismo schematico e settario» (il marxismo come «ultima delle mistiche») di Bordiga!
Un approccio che già nel 1952 diventa, per la compagine internazionalista che dirige, programma politico immediato: «“Disinvestimento dei capitali”, ossia destinazione di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali e non di consumo, […] “Elevamento dei costi di produzione” per poter dare, fino a che vi è salario mercato e moneta, più alte paghe per meno tempo di lavoro. […] “sottoproduzione” che la concentri sui campi più necessari, […] “Arresto delle costruzioni” di case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città e anche alle piccole […] Riduzione dell’ingorgo velocità e volume del traffico vietando quello inutile».
Di acqua ne è passata tanta sotto i ponti, ma si tratta di «un piano di specie» ancora tutto da realizzare.
” “sottoproduzione” che la concentri sui campi più necessari”, “Riduzione dell’ingorgo velocità e volume del traffico vietando quello inutile”
Questo mi pare, filosoficamente e politicamente, il nodo e il punto cruciale (e dolente) di una, per quanto auspicabile, decrescita: chi e secondo quali criteri decide che cosa è necessario, che cosa è inutile?
Mi sento di suggerire la lettura di questo articolo riepilogativo:
Il cosiddetto problema ambientale
di Carla Filosa
https://www.sinistrainrete.info/ecologia-e-ambiente/16430-carla-filosa-il-cosiddetto-problema-ambientale.html?highlight=WyJsYXRvdWNoZSJd
Letto e recepito. Ma il problema che ponevo era un altro. Una volta tagliata la testa al plusvalore e eliminato il capitalismo, chi deciderà cosa si produce (perché qualcosa si produrrà, e industrialmente immagino)? O quanti chilometri sia lecito fare, e in quali casi, con un mezzo di trasporto che non sia trainato da un cavallo? O se le abitazioni di una città possano o non possano (es. Hangzhou, ai tempi) essere dotate di riscaldamento?
Però non voglio insistere con questioni che possono apparire assolutamente marginali.
Su rapporti tra Amedeo Bordiga e Raniero Panzieri e sul non settarismo di quest’ultimo
SEGNALAZIONE
Panzieri e le minoranze comuniste del suo tempo
di Diego Giachetti
https://www.machina-deriveapprodi.com/post/panzieri-e-le-minoranze-comuniste-del-suo-tempo?fbclid=IwAR1J6TPW12Tp18bdd4sHcQzyA0X0scsbA_JnSU17wkvIiLaBIdWyG32vMqU
Stralcio:
Intermezzo bordighiano
In quello stesso periodo era uscito il quarto numero della rivista recensito favorevolmente da Piero Bolchini [22], il quale segnalava ai lettori di «Bandiera Rossa» l’impegno che la rivista intendeva assumersi nell’affrontare la dimensione internazionale dei problemi in un duplice senso: quello immediato del collegamento tra le situazioni dei vari paesi capitalisti avanzati, con l’elaborazione di una strategia valida a collegarle a quelle dei paesi sottosviluppati. Inoltre, piaceva l’idea che non si potesse più rimandare l’elaborazione di un modello di società socialista, differente da quello affermatosi in Unione Sovietica dopo la morte di Lenin. Segnalava positivamente i contributi di Vittorio Rieser (Sviluppo e congiuntura del capitalismo italiano) e di Raniero Panzieri (Plusvalore e pianificazione).
In quel numero le pagine dei Grundrisse di Marx, che Amadeo Bordiga aveva commentato nel 1957, vennero pubblicate e tradotte [23] facendole conoscere a una ben più vasta cerchia di studiosi e militanti di sinistra. Bordiga era stato il primo in Italia a sottolineare l’importanza di quelle pagine, ne tradusse dei brani e li accompagnò a un commento [24]. Nelle riflessioni di Panzieri si ritrovano motivi marxiani molto analoghi a quelli messi in luce da Bordiga. E si sa, da una testimonianza di Dario Lanzardo, che Panzieri conosceva, in modo non solo occasionale, le posizioni bordighiane [25], e rimase colpito da quelle analisi al punto di proporre la pubblicazione di alcuni suoi scritti alla casa editrice Einaudi, pur non condividendo il rigido determinismo dell’autore. Un campo ancora tutto da esplorare resta quello di un raffronto critico tra la lettura complessiva che Bordiga ha fatto di Marx e quella che ne ha fatto Panzieri. Così come rimane da verificare, secondo Liliana Grilli, l’ipotesi di una possibile influenza indiretta di Bordiga sullo sviluppo delle posizioni teoriche di Panzieri, tenuto conto che fin dal 1952 Bordiga aveva sottolineato l’importanza delle osservazioni di Marx circa il «dispotismo di fabbrica», tema divenuto poi centrale nel dibattito marxista degli anni Sessanta e ripreso dal gruppo dei «Quaderni rossi» [26], come lo furono altri spunti quali i concetti di sussunzione formale e reale del lavoro al capitale, comando capitalista, autodeterminazione, antagonismo, operaio sociale.