di Dario Borso
Cinque giorni dopo la caduta del fascismo, dal Giornale di Vicenza del 30 luglio 1943 l’azionista Mario Dal Pra rivolgeva un invito accorato “ai giovani che hanno fino a ieri nelle nostre scuole dato testimonianza a questa nostra idealità; con quella fede che ci ha guidati nel formare le loro coscienze oggi ritorniamo a loro e diciamo: per la salvezza della nostra Patria, per non venir meno al nostro preciso dovere, facciamoci apostoli di quest’ordine nella libertà, in cui è divenuta lieta, anche ieri, la nostra giovinezza”.
Tra questi giovani spiccava Giorgio Mainardi, allievo di Dal Pra al Liceo Classico Pigafetta fino all’anno prima, quando s’era diplomato. Profondamente religioso, e attivissimo nelle fila dell’Azione Cattolica, egli dev’essere stato sensibile al richiamo, ma non meno sensibile alla reazione della Curia, la quale ribatté a Dal Pra domenica 1° agosto da L’avvenire tacciandolo di “propaganda che, partendo da concetti filosofici nuovi nel suo atteggiamento di pensiero, si insinuava ad intaccare nella gioventù studiosa le basi della fede”.
Dal Pra rispose dieci giorni dopo con una lettera a L’Avvenire, dove appellandosi al nuovo “clima di libertà” rivendicava il diritto “(e lo feci a mio rischio anche prima) di dire tutto il mio pensiero e difendere quel che ritengo verità; ciò non è turbare le coscienze, ma educare alla ricerca fuori di ogni dogmatismo servile”. Ma il commento anonimo a seguire, dalla premessa che la Chiesa “è investita per mandato divino del compito di difendere la visione cattolica della vita tutte le volte che fosse attaccata o alterata”, suonava inappellabile: “Il prof. Dal Pra fino a poco fa era conosciuto quale un credente e apostolo della fede catttolica. Oggi non lo è più”[1].
DAL PRA
Il giovane Mainardi di fronte a questa scomunica entrò in una crisi profonda, di cui chiari segni restano nella lettera inviata il 21 agosto a don Primo Mazzolari:
Sono un giovane, uno studente in medicina. Ho creduto, la mia fede era acquisita, era fede supina. Ho vacillato. Ho cessato di credere. Vi ho letto, mi sono ritrovato, con una fede conquistata e con la fiducia in me, e soprattutto negli altri. […] Padre dagli occhi profondi e dallo sguardo aperto, come nella vostra fotografia, Padre dalle vedute cristiane dei primi tempi della Chiesa, le sole utili e opportune oggi sul moderno, Padre buono siate benedetto! Vi amo perché mi avete insegnato ad amare, mi avete insegnato ad essere “me stesso”, impegnandomi alla luce di questa coscienza, in cui vive lo Spirito, secondo S. Giovanni, e che è l’unico giudice, l’unica voce, l’unica direttrice che c’è, in cui poter credere, in cui poterci ritrovare. Ho trovato un apostolo di Cristo, degno di Cristo, avete fatto testimonianza al Cristo, e per voi ho ritrovato Cristo, il vero Cristo, l’Amore. […] Oh sapeste il bene che mi ha fatto il vostro Impegno con Cristo, il più bel libro che abbia letto nella mia giovinezza, e ne ho letto tanti![2]
Il giorno stesso Giorgio scrisse una lettera a Dal Pra, andata perduta. Il senso però è ampiamente desumibile da una pagina di diario del 23 agosto:
La Chiesa custodisce la Parola di Dio ed ha, per divino mandato, anche il dovere di proporla e diffonderla: ma lo slancio della Parola, la ricerca della sua opportunità, il più rischioso esperimento sono affidati ad ogni cristiano, membro costruttore della chiesa di Dio. La Chiesa non è uno Stato Maggiore che dispone i piani di difesa o di attacco fino all’ultimo particolare, per cui nessun soldato possa muoversi senza un ordine scritto di movimento […]. Certe docilità supine e certe cieche obbedienze, espressioni del quieto vivere, sono forme di minorata personalità cristiana e di accidia del singolo. Non è quindi un ribelle il cristiano che, ascoltando il richiamo della propria responsabilità nella Chiesa, parla, agisce, soffre e testimonia secondo questa voce, espressione della sua Fede. […] Importa incominciare, mettersi in strada, dichiararci, impegnarci, comprometterci per la Chiesa! […] Il Popolo di Dio si riconoscerà dalla Carità; la Carità deve muovere ognuno ad agire per l’avvento della pace cristiana fra gli uomini.
Dal Pra rispose subito, il 24 agosto:
Sono lieto del peso che tu dai, nella professione del cristianesimo, alla carità. Io sono profondamente convinto che il fermento eterno del cristianesimo nella storia sia soprattutto il valore della carità e della fraternità umana. […] Non posso certamente approvare i sistemi che si sono seguiti nei miei confronti, non posso soprattutto condividere la mentalità dogmatica, quando tutto quaggiù è tanto e tanto relativo. Mi è spiaciuta anche la fretta che si è avuta di giudicarmi fuori della buona strada, senza essersi chiesti se non fosse il caso di lasciare al suo intimo sviluppo il mio travaglio interiore. […] Sarebbe lungo che io ti dicessi in qual maniera mi sento cristiano. Ma voglio che quello che tu chiami il maggior dolore della tua giovinezza sia temperato dalla confidenza nei valori dello spirito, nel valore della ricerca, comunque essa si venga organizzando negli individui. Ricordi che dicemmo spesso che le strade che conducono alla casa del Padre sono quante sono i tormenti che albergano nel cuore degli uomini? Anch’io ho la mia strada. E queste molte strade è la vita, credi; e comprendere le molte strade è carità.
Il 3 settembre giunse anche la risposta di don Mazzolari:
Non sono niente di ciò che tu immagini. Sono un povero parroco di campagna, che à sofferto e soffre per orientarsi fedelmente verso Cristo e che a un certo momento della sua vita (avevo quarant’anni quando incominciai a scrivere) à sentito il dovere di comunicare ai fratelli le proprie esperienze cristiane. Benedico il Signore se si è servito di me per riaccendere la fede nel tuo travaglio interiore. […] Tra i miei amici, i giovani come te ànno il primo posto. Ora che la stessa certezza e la stessa passione di carità è nei nostri animi, lavoreremo insieme. Vengono giorni, se pur non sono già incominciati, in cui il nostro impegno con Cristo non conoscerà limiti. La salvezza del nostro povero e caro Paese è affidata alla nostra Carità.
MAZZOLARI
Nonostante il conforto laico ed ecclesiale di due cristiani d’eccezione, l’8 settembre riprecipitò Giorgio nel dubbio, tant’è che il diario termina una settimana dopo così:
Signore, concedimi un “richiamo” verso cui io mi orienterò perché esso è sempre stato l’unico modo con cui mi hai parlato. Ho bisogno di un “richiamo”. Sono stanco. Più che stanco, sfiduciato. Non vedo. E quello che vedo non è richiamo sufficientemente forte ed impellente. Voglio trovare un senso alla vita. […] Rifugiarmi, non è onesto non è da uomo. Combattere, non ho spirito battagliero. Pensare: non so come vedere le cose. Fuggire, camminare, perdermi nell’umanità. Stancarmi per farmi male. Lontano, lontano, lontano. Oh, che sete di libertà, di anarchia […]. Ma “non so”, maledetto “non so”!
Il 12 ottobre infine Giorgio passa alla macchia, con una drammatica lettera ai genitori[3] cui allega questo promemoria:
Non preoccupatevi della mia vita materiale: abbiamo da mangiare, da vivere e soldi per qualunque evenienza. Non è opportuno che tu, babbo, cerchi di trovarmi. Non mi troveresti e ciò sarebbe pericoloso per te. Mi porto via come libri: la grammatica tedesca, l’Impegno con Cristo, il Vangelo. Porto anche i miei ferri chirurgici. La mia è e deve essere un’azione umanitaria in linea generale. In cima al tavolo ci sta, credo, un foglio del giornaletto Giustizia e Libertà: bruciatelo. Fate carità ai poveri, ché io non la posso più fare.
Di passaggio clandestino a casa il 3 novembre, lascia un biglietto ai familiari:
Riparto per assolvere al mio dovere, per camminare in quella strada ove milioni di fratelli camminano soffrendo e morendo, riparto perché l’ideale mi urge, la carità verso i fratelli mi sospinge irresistibile, perché questa è, chiara, la linea vocazionale di questa parentesi della mia vita. Dio sia con voi e con me, nella vostra e mia sofferenza. Vi scriverò, tornerò a missione compiuta, a riprendere la mia vita normale.
Alcuni giorni dopo sarebbe stato ucciso dai tedeschi sulla Maiella.
P.S. Questo pezzo mi è rimasto inconsapevolmente in canna per un decennio abbondante. Inconsapevolmente, ma non inspiegabilmente: risale a quando con la sorella redigemmo la scheda qui linkata in n. 3, e non trovai allora dove pubblicarlo.
Note
[1]Per tutta questa parte rimando a Il 1943 di Mario Dal Pra (qui).
[2] L’edizione è la prima, del marzo 1943; nella seconda, del settembre successivo, don Mazzolari sarà ancora più esplicito sulla questione dell’impegno politico, che in contemporanea il nuovo vescovo di Vicenza vietava. Impegno con Cristo è disponibile ora in edizione critica (EDB, Bologna 1979); per le lettere, ringrazio Mariapia Mainardi e la Fondazione Mazzolari di Bozzolo.
Dio ci manca. Come quel livello oltre la nostra persona contingente, oltre la contingenza dei rapporti in cui ci muoviamo, come un territorio di Valori che NON mettiamo in discussione, in un Oltre in cui continuano a dimorare inscalfibili oltre tutte le loro incessanti e miserabili incarnazioni.
E che si fa, senza dio?
Ci si arrangia, con l’amore terreno: per alcuni. Per tutti è quasi impossibile, o almeno occorre amarli ma entro un’opera di ravvedimento, educazione, correzione, sostituzione dei loro valori… con i nostri? ugualmente personali? soprattutto quando, i loro, siano invece fondati su dio, sul loro dio.
Ci si arrangia con i diritti universali (di alcuni, e senza doveri), con il potere benevolo, con i miseri surrogati della dea ragione…
Ringrazio Dario Borso per avere comunicato l’altro lato del professor Dal Pra che per me era solo l’ordinario di storia della filosofia. Razionale e corretto, di una razionalità e correttezza che radicavano altrove, senz’altro – e nemmeno potevo immaginare una sua maniera di sentirsi cristiano – in una razionalità illuminista. Che oggi, anche quella, come sostituto divino è malmessa. Forse, forse, si immagina di trovarla “in sede” lontano su Marte, e certo ai confini del sistema solare, anzi, oltre, all’inizio di tutto … o alla fine?
@ Cristiana [Fischer]
«Dio ci manca». Scusa, manca a te. E posso anche accettare l’ipotesi che manchi a molti altri/e. Però le mancanze potrebbero essere di vario tipo: a 340 operai della Whirpool di Napoli licenziati in questo momento mancherà il lavoro e non Dio. Si muoveranno nella «contingenza» di certi rapporti (capitalistici no?), ma è da quelli che vorrebbero uscire. Sbagliano? Il loro « territorio di Valori» sarà alquanto ristretto e da mettere in discussione, ma come allargarlo? Basta piazzarci Dio al posto del lavoro che gli tolgono e che gli permetterebbe almeno di vivere diciamo decentemente o sopravvivere? Mi sentirei ridicolo o mi parrebbe beffarsi di loro se andassi a dirgli: vedete che vi manca Dio.
« E che si fa, senza dio?». Quello che all’ingrosso fanno miliardi di uomini e donne che non ricorrono all’idea di Dio per affrontare i problemi che si presentano nelle loro vite. E mai direi che così facendo o penando «ci si arrangia». Definire la lotta per vivere o sopravvivere o « l’amore terreno» o il darsi da fare per affermare i « diritti universali» ( perché poi: « di alcuni, e senza doveri»? e perché parlare oggi in termini dispregiativi di «dea ragione»?) come un arrangiarsi è già un modo di svilirla, presupponendo qualcosa di indimostrato: che a questa lotta manchi l’indispensabile e che di sicuro c’è: Dio, appunto. Ma ripeto: questa è la tua visione. Rispettabile ma discutibile. Non può essere presentata come l’unica ipotesi possibile. O addirittura una verità assodata. Perché non pare che le secolari discussioni sulla esistenza o meno di Dio siano esaurite o abbiano risolto definitivamente il dilemma. Quindi, possiamo concordare che di mancanza tutti abbiamo esperienza, ma è quantomeno dubbio che si tratti per tutti/e di mancanza di Dio.
Ma che rispondi? Ti pare che dio manchi a me? O manchi quel rimando a valori condivisi umani e indivisibili? Se, come mi pare di leggere dalla tua riposta, non c’è bisogno di una unità – nonostante gli aggiornamenti francescani, mistici, femminili – allora l’unica altra soluzione è il potere: te ne rendi conto o no?
E’ un questione che storicamente è stata posta, con esiti precari e discutibili: certo, il progresso o il sol dell’avvenire hanno cercato di diluire la parzialità che quella soluzione implicava.
Dio mi stermini se io credo utile ritornare a un cristianesimo -così compromesso- come soluzione possibile. Solo: dico che non sappiamo sollevarci da un relativismo solidamente poggiato sulle nostre prioritarie garanzie assicurate dalla nostra storia.
Che ha a che vedere con l'”Umanità” tutto questo?
Dio è servito per garantire colonialismo e universalismo: il progresso avrebbe fatto coincidere le due tracce.
Invece Altri vanno per i cavoli loro, in modo guerresco o indifferente, e noi: che cosa sappiamo opporre, per mantenere il nostro status?
Io una idea ce l’avrei: che il servaggio sessuale sia il modello per fondarne altri. Ma dio mi stermini se questa idea -che non molla mai, anche nella differenza *generazionale*, non a caso sottoposta a attacchi plurimi e differenziati, per esempio dalle biotecnologie- attecchisce da qualche parte nei vecchi sostenitori della lotta di classe, che invece alla base della oppressione non arrivano mai!
La prima oppressione (bisognerebbe porre il quesito a Fagan, se magari lo focalizza) è quella tra i sessi, anche in forme evolute e copie “ferrate”: siamo a una svolta dei tempi in cui anche i temi -fondamentali- del femminismo generale o incidono nella radice, o… cavoli vostri.
Ahimé anche nostri, dei nostri figli (e amanti).
@ Cristiana
La mia prima obiezione non si ferma a “«Dio ci manca». Scusa, manca a te”. Prosegue e mi pare che sei tu che non rispondi a tono.
“Non c’è bisogno di una unità” è discorso che non ho sfiorato. Né ti ho accusato di voler tornare a “un cristianesimo -così compromesso” o fatto mio “un relativismo solidamente poggiato sulle nostre prioritarie garanzie assicurate dalla nostra storia”. Né sono preoccupato di “mantenere il nostro status”. Né ho fatto mia l’idea che “la prima oppressione […] è quella tra i sessi”.
Il mio commento si fonda su un dato che tu eludi e a me pare invece fondamentale : “non pare che le secolari discussioni sulla esistenza o meno di Dio siano esaurite o abbiano risolto definitivamente il dilemma. Quindi, possiamo concordare che di mancanza tutti abbiamo esperienza, ma è quantomeno dubbio che si tratti per tutti/e di mancanza di Dio.”
Che dirti? Che la “mancanza” non è quella del lavoro o della salute o dell’amato bene che non c’è più. O della gioventù che non torna. Del resto anche quando c’era dio quelle mancanze vigevano disperatamente. Parlavo di altro, no? Di una specie di remota garanzia, che quello che è giusto è Giusto, che quello che è dovere è Dovere, che quello che è il bene è il Bene che tutti riconoscono. Che, ovviamente, non è proprio un dato, nessuno lo possiede in tasca, ma è una idea comune, di cui si parla in grande e in piccolo, che permette di confrontarsi, ancorata in un … trascendentale. Dio come la garanzia di *questo* senso. Uno, comune. Invece ora gli operai della Whirlpool hanno la mancanza del lavoro, la Whirlpool ha la mancanza della libertà di piazzare i loro soldi dove vogliono, il governo ha la mancanza della forza di costringere la seconda e/o di sostenere i primi.
E prima, quando c’era dio, come andava? Uguale, come no. Ma c’era anche l’idea che uno dei due avesse torto e l’altro ragione, tanto che si sceglieva. Oggi sono convenienze e possibilità, e il possibile è il contrattabile, il contratto è la parificazione assoluta dei fattori, si vince per la forza o per la fortuna, infatti proprio per questo “è quantomeno dubbio che si tratti per tutti/e di mancanza di Dio”. Il senso è affidato al possibile e il possibile è affidato al caso. E lo smarrimento è di massa. Perché non c’è più, per nessuno, il Confine, il Limite, la Pena o il Favore.
Belle illusioni di una volta? Davano un quadro di sicurezza mentale. Oggi, proprio quella, è “identificazione”. Fragile, perversa. Io e te, Ennio, come tantissimi ormai, siamo vecchi, se non siamo impazziti prima non impazziamo ora. Ma la tenuta generale (parlo del mondo occidentale) a volte/spesso vacilla. Dopo un po’, nel vivere, uno si chiede il senso. La risposta fu: la lotta; secoli prima (e dopo) fu: l’amore. Quest’ultimo funziona, ma – tutti, sempre, i suoi sostenitori- lo ancoravano… E senza dio gli manca qualcosa. A tutti, altrochè. Ci vuole tenuta a essere atei.
@ Cristiana
Capisco, ma è un’esigenza, un bisogno, un desiderio non una certezza. Ho detto che trova il mio rispetto ma non puoi presentarla agli altri o a te stessa come « una specie di remota garanzia» o come un «Bene che tutti riconoscono» (o riconoscevano) o come « una idea comune». Se non facendo una forzatura.
Neppure « quando c’era dio» o il predominio di una visione religiosa era quasi assoluto ( ma ci sono sempre stati gli eretici o c’è sempre stato conflitto anche se in nome di Dio e quindi, anche allora, l’idea non era tanto «comune» o non accomunava del tutto). E a me non pare neppure che oggi non ci sia più « per nessuno, il Confine, il Limite, la Pena o il Favore». Ci sono confini, limiti, pene, favori che almeno in alcune parti del mondo vengono giustificati altrimenti e non ricorrendo all’idea di Dio.
Certo, «come tantissimi ormai, siamo vecchi» ma la differenza dei nostri padri o nonni non mi pare stia nel fatto che essi sceglievano perché avevano « un quadro di sicurezza mentale» e noi no.
Ancora oggi si sceglie, ci si smarrisce pure (le zone grigie ci sono sempre state; e cos’è oggi l’astensionismo alle elezioni se non un sintomo da zona grigia?). E anche la richiesta di senso non è mai del tutto venuta meno. Non è detto poi che lotte e amori debbano essere ancorati a un Dio. «Senza dio gli manca qualcosa»? Ma un Dio solo o soprattutto tappabuchi dell’angoscia di morte è davvero un misero palliativo. Per gli stessi credenti. [1]
[1]
La teologia doveva occuparsi soltanto della ricerca di Dio, riconoscere la sua Parola. Le scelte del cristiano nella società debbono essere interamente addossate alla sua individuale responsabilità di uomo, non debbono chiamare in causa Dio. Di fronte alla scelta se uccidere o non uccidere, se rubare o non rubare, l’uomo doveva mettere in gioco la sua responsabilità, non chiedersi: “che cosa vuole Dio che faccia?”. Quante volte nella storia generali e comandanti avevano ordinato alle loro truppe di massacrare i nemici al grido “Dio lo vuole!” Allo stesso modo non si doveva combattere il nazismo “perché Dio lo voleva” ma perché la morale e l’intelligenza politica dell’individuo dovevano bastare per determinare la scelta. Responsabilità individuale da un lato, mistero della Grazia dall’altro. Morale e teologia, etica e fede. Dunque comportamento sociale e fede come due sfere totalmente separate? La risposta di Bonhoeffer era semplice: l’incarnazione aveva unito le due sfere, il Cristo fattosi uomo per la salvezza dell’umanità è la sintesi di razionalità e mistero, di etica e di fede, di realtà umana e di essenza divina. Chiaramente una simile posizione rimandava alla problematica del dogma – non è un caso che il Lebenswerk, rimasto incompiuto, di Karl Barth s’intitola Kirchliche Dogmatik e che l’ultima opera alla quale Bonhoeffer stava lavorando fino a pochi giorni prima della sua esecuzione a Flossenbürg s’intitola Ethik (volume n. 10 delle opere complete).
( da L’eredità di Barth e Bonhoeffer di Sergio Bologna
https://www.doppiozero.com/materiali/leredita-di-barth-e-bonhoeffer)
Vorrei non continuare, però… mi darai atto che i filosofi, i fisici (e gli astrofisici!) i pensatori in generale non arrestano mai la loro immaginazione. È un lavoro collettivo e incessante che dura da qualche centinaia di migliaia di anni. E sbocca sull’arche’ indicibile o sulla creazione, che è lo stesso: cioè l’indicibile inizio barra infinito.
Oggi il principio è il Caso, che produce risultati indifferenti, o questo o questo o questo… Una equivalenza sostanziale, in cui si può scegliere ma è arbitrio, nel senso che se è a favore di alcuni può anche essere a sfavore di altri. Per un po’, qualche millennio, un dio su misura umana ha funzionato per placare le ansie antropologiche. La cultura oggi più generalizzata, azzera le ansie antropologiche prima distribuendo cose poi mobilitando per conservarle: solo ansie terrene per possedere quei calmanti ad hoc. Ecco perché dio non serve più. Non a noi occidentali. Tutte le ragioni sono qui in terra, per confliggere tra noi e per portare la guerra altrove. Basta e avanza per riempire la vita. (A parte certi fenomeni collettivi, come capitano a certe specie animali, di suicidi di gruppo, che nel nostro caso corrispondono a decrescita delle nascite, stragi rapsodiche e localizzate, impazzimenti collettivi in rituali di violenza esplicita, und so weiter.)
dio è nel dettaglio
e il diavolo pure…
https://www.facebook.com/165472613541851/posts/460088674080242/
“Il detto “Dio è nei dettagli” vorrebbe dire che più si esamina qualcosa, più si guarda nei particolari o nei dettagli, più si apprezza la complessità, più si vedrà il Divino.” Porcacc.. appunto.
quella che Cristiana correttamente chiama “correttezza” di Dal Pra è ricca di connotazioni etiche, quelle stesse ad es. per cui, dopo avere occupato un posto di primissimo piano nella Resistenza (responsabile CLNAI del settore comunicazioni con le formazioni partigiane dell’Alta Italia), organizzò la biblioteca dell’Istituto della Resistenza e, sulla base di tutte le informazioni raccolte, scrisse la prima storia della lotta partigiana.
“prima la topica, dopo la critica” soleva dirci: ossia prima il documento, poi i discorsi su – che esso sia un volantino partigiano o un inedito di Abelardo (e in piccolo, si licet, aggiungo io: un articolo di cases o l’ultima lettera di Mainardi o il manoscritto della Ripetizione di Kierkegaard) non fa nessuna differenza.
correttezza = rispetto (da re-spicio, guardo due volte)
infatti a un certo punto Dal Pra assunse anche l’insegnamento di filosofia della storia, che io segui con estremo interesse
correttezza è anche Cases maiuscolo, ma NB: un conto è scriverlo in un post, e un conto scriverlo in un commento. chi mi conosce, sa che su fb scrivo tutto in minuscolo
“dio è nel dettaglio
e il diavolo pure…” (db)
Me lo vedo Dario che si frega le mani quando liber scriptus proferetur…
“Vorrei non continuare, però… mi darai atto che i filosofi, i fisici (e gli astrofisici!) i pensatori in generale non arrestano mai la loro immaginazione.” (Fischer)
Chiudiamo. Tu rimandandomi ai pensatori dalla inarrestabile immaginazione, io ricordandoti che immaginare Dio non è una prova che esiste. Poi ciascuno tragga le sue conclusioni etiche e pratiche. Alle prossime.
No, un momento: uso la parola dio come un sintomo. La “immaginazione” che ho tirato in campo è sull’arche’, sul principio, o sul tutto, o sull’uno. Il panteismo vale quanto dio.
Sei tu che insisti sul dio della tradizione.
Ed è quella “ansia antropologica” circa il tutto, che misuro con i fini ristretti della antropologia occidentale cui sta invece sfuggendo il controllo del mondo.
Questo per rimettere i giusti confini al mio discorso.