Un maestro di Bianciardi

di Dario Borso

Direttore dal 1953 della grossetana Biblioteca Chelliana, un neolaureato Luciano Bianciardi (qui) chiamò più intellettuali a tenere conferenze, e tra questi Delio Cantimori, in un frangente tale da valorizzare del conferenziere, oltre che l’immenso sapere storiografico da cui alla Normale di Pisa subito dopo guerra pur egli aveva attinto, la tempra del militante – parlo dei giorni successivi alle elezioni politiche del 7 giugno 1953, che segnarono la sconfitta della Legge Truffa grazie all’apporto determinante di Unità Popolare, la formazione creata ad hoc da Piero Calamandrei e Ferruccio Parri.
Il 18 giugno appunto, l’ex-azionista Bianciardi scrive a Delio, comunista: Sono molto contento, e per più ragioni, che Lei venga qua. Spero che staremo insieme, con amici comuni, vecchi e nuovi. / Io sto lavorando molto, e son ancora stanco della campagna elettorale: sa che ho fatto ben 13 comizi per ‘Unità popolare’?
Esattamente un anno dopo, Bianciardi entrava alle dipendenze di Giangiacomo Feltrinelli che, rilevata dal Pci la Cooperativa del libro popolare, stava per fondare la sua propria casa editrice. Così l’8 settembre 1954 da Milano scrive a Cantimori: Debbo dirLe che mi fa troppo onore attribuendomi addirittura la direzione redazionale. No, la verità è che sono soltanto uno dei redattori. Le faccio un quadro del nostro ‘organico’: Giangiacomo Feltrinelli, editore; Fabrizio Onori, direttore; Adolfo Ochetto, direttore amministrativo; Luigi Diemoz, capo redattore; Valerio Riva, Giampiero Brega, Libera Venturini ed io redattori; Renata Cambiagli, Giuliana Brogli segretarie. Ecco tutto. / Il lavoro, come Le ho scritto, mi piace; la città un po’ meno, ma mi son promesso di rinunciare alla banale polemica che sempre, noi ‘peninsulari’, amiamo prendere contro questi ‘continentali’. Non è giusto, Le pare? Ed oltretutto è sterile. / Mi dispiace, invece, che almeno per il momento non sia possibile lavorare con Lei, per Lei. Mi creda, non sto facendo la parte del funzionario editoriale. Io conservo un caro ricordo di Lei, che è stato sempre un maestro, per me, in tutti i sensi. Per questo ho fiducia che ci incontreremo ancora, sul lavoro. Vedo spesso Franco Ferri e Franco Della Peruta, e parliamo di Lei. Anche ieri sera, per esempio.
Strana la vita, mentre il mittente pugnava con i criptostalinisti della casa editrice, Cantimori faceva uguale con quelli della Fondazione: ci avrebbe pensato Giangiacomo, a sistemarli mesi dopo entrambi. E difatti il 31 maggio 1960: Sì, sono stato io a farle mandare il libro sulla spedizione dei Mille [Da Quarto a Torino, Feltrinelli]. Ma ora il suo dubbio ne fa nascere uno a me: cioè che quelli dell’ufficio-stampa feltrinelliano abbiano spedito le copie a casaccio. Infatti in quella destinata a lei io avevo fatto una dedica, nella prima pagina bianca. Speriamo che il guaio non sia enorme. La ringrazio dell’interessamento per le mie cosette. Il racconto lungo satirico non uscirà da Feltrinelli, ma da Bompiani, a giorni. Si intitola L’integrazione, ed è la storia di un fallimento milanese, nei gorghi dell’industria della cultura. Se ci riesco, gliene faccio mandare una copia; ma non sarà facile, perché quella antica casa editrice va famosa per la sua tirchieria. / Qua le cose, naturalmente, vanno molto male: io lavoro per Feltrinelli, ma non da lui. Sto a casa e traduco freneticamente, e sono stanco. Mi ricordo sempre di lei, specialmente quando passiamo qualche serata con l’amico mio Luciano Cafagna, anche lui esiliato a Milano.
In procinto di licenziarsi, il 15 marzo ’64 da Napoli Bianciardi scrive al professore la lettera più confidenziale: Ieri l’altro sera siamo andati al cinema e ieri sera a sentire una conferenza dibattito di Pasolini, che non avevo mai sentito parlare e che ieri sera ha parlato tanto che mi basterà, credo, per il resto della mia vita – ma del resto neanche queste cose sono inutili, perché ci permettono di capire come non bisogna essere e che cosa bisogna fare: ieri sera Pasolini ha fatto “il comunista che civetta con la religione” mettendo a nudo, davanti a un pubblico di 500 persone almeno, il suo animo esacerbato e ossessionato da una crisi che è, dice lui, quella stessa che travaglia il comunismo mondiale e lo pone fuori della storia. Non mi è parso si trattasse di una vera e propria palinodia, ma piuttosto di un grido d’allarme ai suoi compagni di ieri: state attenti, che mi perdete! Una cosa terribile. Naturalmente il succo del discorso era questo: leggete il mio ultimo libro (dove si parla di questa “crisi” [Poesia in forma di rosa]) e andate a vedere il mio film (sui Vangeli [Il Vangelo secondo Matteo]).
Poi, da Sant’Anna di Rapallo dove s’era appena trasferito, il 12 dicembre 1964: il ritardo della mia risposta non è per cattiva volontà. Vede, io ormai sto a Milano meno che posso. Coi soldi che ho guadagnato dal libro [La vita agra], ho comperato un appartamento qui vicino a Rapallo, al piede delle colline, e mi ci trovo parecchio bene. Faccio un salto su nella capitale morale, ogni tanto, anzi meno che posso, e poi ritorno qua, dove lavoro, passeggio, e ho giornate lunghissime. / Ma veniamo al dunque. Già altri mi avevano chiesto di Stanislao Bianciardi. No, purtroppo non è mio parente. Gli antenati miei suoi coetanei erano ancora a Siena, e tenevano un caffè: poi uno dei figli diventò medico, venne a condotta nelle Maremme, e ci morì giovanissimo. / I Bianciardi di Ponticello sull’Amiata erano lì da prima, e se abbandonavano i campi, diventavano preti oppure riformatori religiosi. L’Amiata ne ha avuti parecchi, da Brindano [Bartolomeo Marosi di Petroio] al Santo Davide [Lazzaretti], perché l’Amiata, anche culturalmente, è un’isola, e non somiglia né al senese né al grossetano. Sa che esiste ancora una comunità giurisdavidica (si chiamano così) che segue i riti e gli insegnamenti del Lazzeretti? Tempo fa li andai a trovare: si battezzano a fuoco, hanno una specie di divisa, una volta ogni anno si radunano, alcuni fratelli sono in America, e così hanno trovato persino i soldi per pubblicare certi inediti di Davide (Il libro dei celesti fiori [1873], per esempio). / Ma ora mi accorgo di star insegnando la matematica a Gauss. Mi scusi. Anzi, già che ci sono, le confesserò il mio ultimo peccato. Non contento del libro su Garibaldi, ho scritto un romanzo sulla battaglia di Custoza [La battaglia soda, Rizzoli]. Peggio: l’ho scritto in prima persona, e con lo stile dei memorialisti del secondo Ottocento. Insomma, un falso Giuseppe Bandi, mio conterraneo. Se lei lo vuole, e se mi promette di non tirarmi le orecchie per l’impudenza, dopo, io glielo faccio mandare. / E ora la ringrazio tanto, di avermi ricordato, di ricordarmi, ma principalmente di non aver scordato mio padre, che era una persona perbene, ma sul serio.
D’altronde, lo stesso Cantimori dopo i fatti d’Ungheria s’era ritirato nel suo particulare, tornando a tempo pieno alla storia ereticale. Morirà nel 1966, in tempo per ricevere il 19 maggio da Dortmund un’ultima cartolina di saluto del suo ereticale allievo.

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Le lettere, conservate all’Archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa, le ho trascritte nelle poche pause di una ricerca condensata poi in due pubblicazioni a mia cura: Sapere aude! Il carteggio Sebastiano Timpanaro-Cantimori, in “Belfagor”, VI, 2009, e Il carteggio Cantimori-Giolitti, in “Italia contemporanea”, n. 265, 2011.

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