di Ennio Abate
«Visione postuma» di Nadia Campana (Raffaeli 2014) raccoglie in tre sezioni (Visione e biografia, Letteratura inglese e americana, Anni Ottanta) saggi, «appunti sparsi» e note sul lavoro di traduttrice della poetessa. Il titolo – spiegano i curatori (Milo De Angelis, Emi Rabbuffetti e Giovanni Turci) – viene da quello che la stessa Campana aveva dato a un saggio che si legge all’inizio della prima sezione.[1] Il nucleo forte di questi scritti sta secondo me nei tre ritratti che Nadia Campana ha lasciato di Marina Cvetaeva, Emily Brontë e Emily Dickinson. Ed è bene esaminarli con attenzione.
1.
«Circonferenza di Marina Cvetaeva»,[2] testo d’una conferenza del 1982, ci fa capire quanto la poesia per Nadia Campana fosse una pratica ascetica e amorosa allo stesso tempo. In Cvetaeva – sostiene – «non esiste […] frattura tra amore e poesia perché nascono dallo stesso enigma» (p. 28). E fu grazie ad una auto-esclusione dalla vita comune[3] che Marina Cvetaeva poté scrivere «dall’amore e nell’amore abbracciando senza mediazioni l’altro dall’inizio alla fine», svincolando la sua parola poetica dagli impedimenti che verrebbero inevitabilmente dal pensiero e dal credo politico (p. 24). In queste pagine Campana conduce anche una sottile (ma pacata) critica al potere maschile: «Marina è nuova, è poeta e rompe col passato, mentre chi vuole farsi amare da lei cerca di contrattare, di reagire, si immette nello screzio e nel dispetto temendo di perdere il suo potere di maschio» (p. 28). Il maschio in questione è Rilke,[4] presentato imbrigliato da psicologismi, incapace di capire «la sconfinatezza dell’amore» (p. 29) e preoccupato goffamente nella rivendicazione della sua libertà. E, a conferma della sua visione, aggiunge con tono quasi sconsolato: «Come se la libertà non fosse già nella sua poesia e nella solitudine – che ne è la condizione». Sulla base poi di due affermazioni della poetessa russa – una rivolta a Pasternak[5] e l’altra indirizzata a Rilke[6] – Campana insiste sul valore di un «amore impalpabile, ignaro del possesso che alla fine abiura il corpo» e accantona «la carnalità […] a vantaggio del sacro» (p. 28). Ed arriva non solo ad equiparare poesia e santità[7] ma a definire quello della Cvetaeva «uno dei suicidi più puri» o un «puro dispendio di energie» (30). La poesia, dunque, è per lei «ascesi, ascesa» (p. 37), «accettazione di un destino assoluto» (p. 38), «voce arcana e imprecisa che vuole possedere tutto e dare significato alle cose» (p. 49).[8] Un tale culto della poesia come Assoluto esclude ogni concezione materialistica ed è abbondantemente ribadito pure nei frammentari «Appunti su Marina Cvetaeva» (40).
2.
Il saggio successivo sulla Brontë è condotto sulla falsariga di quello sulla Cvetaeva appena esaminato. La Brontë è per Campana una «pura romantica», una «creatura selvaggia e barbarica, orgogliosa e solitaria». Anche di lei mette in risalto il distacco dal mondo: non ha «una fede nel sociale, nel femminismo, nell’evoluzione, nell’innocenza dell’infanzia» (p.7). E anche in lei ritrova il nodo amore/poesia: «la concezione brontiana della passione è ispirata unicamente dalla poesia e pertanto sembra estranea alla civiltà, è quasi presociale, tutta conclusa nella emanazione di cuori selvaggi e dotati di vitalità straordinaria» (54-55). La spinta è la medesima: verso l’Assoluto.[9]
3.
Né si scosta da questo paradigma romantico il ritratto della Dickinson, amata dalla Campana per la medesima ragione apprezzata nelle altre due scrittrici, e cioè «per la sua incapacità di adeguarsi a una realtà culturale che le è stata ostile» (59). E però, ripercorrendo le precedenti interpretazioni della poetessa americana, che la descrivevano come la signorina puritana dai buoni sentimenti o dell’intuizione a scapito di ogni sistematicità di pensiero (59) o delle piccole cose (la casa; il giardino), Campana non solo rileva che nella Dickinson sentimenti e quotidianità «si strutturano in un’articolazione di simboli poetici e filosofici» (68), ma mette in risalto la poesia in quanto linguaggio. Contrasta perciò la facile tendenza di critici e lettori incapaci di vedere «un poeta come uno che non soffre» (62) e pronti a inseguire invece la sua biografia (60) o a rintracciare i suoi «disastri emotivi» (62), cercando «la verità di un poeta fuori dalla sua poesia»(62). Scrivendo della Dickinson, dunque, Campana sembra quasi distanziarsi dal cliché romantico così pressante nel saggi sulla Cvetaeva. Insiste, infatti, sull’importanza di «praticare la creazione come mestiere» (63).[10] Inaspettatamente e contraddittoriamente (rispetto a quanto scritto su Cvetaeva) Campana rivela anche la sua ambivalenza nei confronti della Dickinson: «Ho amato e a volte detestato (nel senso di voler togliere dal testo) la Dickinson per il suo rifiuto di coniugare i desideri con la storia e saldarsi invece in una posizione di monade: l’unica cosa che l’aggancia alla storia è la parola» (64). E sembra persino rimproverare alla Dickinson «una ascetica riduzione dei referenti, che risultano infatti a volte oscuri» (64). Critica pure il neoplatonismo trascendentalista, da cui la Dickinson fu influenzata, giudicandolo «una forma di idealismo» che comportava (in Poe, Hawthorne, Melville ed Emerson) una componente sessuofobica. La breve distanza temporale tra i due testi (1982, quello sulla Cvetaeva; 1984, quello sulla Dickinson) fa pensare che siamo di fronte, se non ad una contraddizione, almeno ad un’oscillazione nel suo modo di accostare le sue poetesse. Presto però ricomposta o non sviscerata, tanto che poi, a conferma della sua visione romantica, scrive anche per la Dickinson: «Il suo è un punto di vista premorale non dialettico, non conflittuale, che mira all’intelligenza delle cose e all’intensità dei rapporti, senza passare attraverso la psicologia e la morale. Scrivendo dice solo se stessa – ma questa è la sua scelta – e la porta avanti in fondo con intransigenza. Gli abbracci e le ripulse che alternava nei confronti delle persone denunciano una volontà di starsene in disparte rispetto al reale» (76).
4.
Il disegno unitario dei tre ritratti fa intravvedere anche una sorta di autoritratto della stessa Campana. Parlando, infatti, di queste sue poetesse-“madri”, parla anche di sé. E svela di star costruendo se stessa, la sua identità di poetessa. Si tratta di un tipo di lettura certamente simpatetico più che critico.[11] Non mi sento di dire che in «Visione postuma» Campana delinei una sorta di trinità letterario-poetica al femminile. Ma l’ipotesi andrebbe vagliata. Come terrei in debito conto le oscillazioni pur minime tra quello che scrive sulla Cvetaeva e quanto afferma sulla Dickinson. Non c’è dubbio che la giovane Nadia Campana stesse orientandosi verso una concezione della poesia come dimensione assoluta. E che i modelli di riferimento da lei scelti rafforzassero una sua propensione alla ricerca in solitudine già salda in lei. Insiste, infatti, a sottolineare che la rivolta della Dickinson fosse avvenuta interamente nella scrittura. O che la solitudine (si potrebbe dire “monacale”) era una condizione indispensabile per un esercizio poetico rigoroso. Si sente, insomma, quanto simpatizzi e condivida la scelta della Dickinson di sollevare «un muro tra il suo privato, gli altri e la chiacchiera» (75). O come approvi il suo «egocentrismo cosmico»[12] e quella sua “tiepidezza” nei confronti degli uomini.[13] Anche della Dickinson, insomma, apprezza la volontà di «puntare lo sguardo sulla poesia e [di trovare] il coraggio che questo lavoro le imponeva a quei tempi come in tutti i tempi» (78). (E pare di cogliere in ciò una sua volontaria distanza dalla “militanza” e dalla “sorellanza” teorizzate e praticate nel movimento femminista di quegli anni, del quale pur subì l’influsso).[14]
5.
Tornando al rapporto di Campana con la Cvetaeva, bisogna pur aggiungere che era tanta l’identificazione con la poetessa russa da farle provare un certo timore di assoggettamento spirituale. Tanto da scrivere: «Marina mi prende troppo, e mi fa un po’ paura. Questo perché, se non si è un po’ distaccati, si rischia di balbettare. Spero che questa paura non sia troppo grande» (Nota a p. 11). Non mi pare che in quel suo balbettare Campana riveli solo lo smarrimento della poetessa giovane (e allora in formazione) di fronte a un monumento poetico del passato, appena riscoperto e caricato di un pathos ideologico (sì!) tutto particolare proprio dalla cultura femminista degli anni ’70-’80. Non è, quindi, semplice preoccupazione di azzittirsi, di non aver parole sue da scrivere dopo aver ascoltato quelle così definitive della Cvetaeva. Quel timore di balbettare – mi azzardo a dire (e a questo punto affronto con grande cautela interpretativa, ma anche con un po’ di coraggio, la questione delicata del suo suicidio) – veniva da pressioni e tensioni profonde e oscure imposte a una giovane donna, arrivata da Cesena a Milano in anni che videro per tutti un trapasso drammatico e una «strage delle illusioni» di portata storica. Insegnante di inglese nelle scuole medie, in cerca di riconoscimento per il suo desiderio di essere poetessa, Campana capitava in una “tribù metropolitana” (di poeti, poetesse, intellettuali), che, crollate le speranze di cambiamento del ’68-’69, andava incupendosi e s’avviava verso l’inaridimento sociale-politico-culturale, che si prolunga fino ai nostri giorni. Non so quanto una tale comunità fosse più in grado di accogliere lei o altri/altre come lei. Quindi, pur ipotizzando una sorta di sensibilità/propensione personale da parte di Nadia Campana verso il suicidio come risposta possibile ad una pressione insopportabile (proveniente – preciso – dall’interno/esterno) e che il modello cvetaeviano non fosse per lei solo letterario e che, al limite, la Cvetaeva possa essere stata per la giovane Campana anche “maestra di suicidio”, non mi pare che il suo suicidio possa essere presentato come «destino».[15] Mi pare più ragionevole pensare che esso restò, fino al presentarsi di circostanze ignote o da noi indecifrabili, soltanto un vagheggiamento o una suggestione. Che forse s’aggiungevano ad altri consimili impulsi accolti in precedenza.[16]
6.
Mi porrei, però, a questo punto una domanda: «Visione postuma» va giudicata una raccolta di saggi compiuta e matura oppure è fatta di scritti magari di “alto apprendistato” e andrebbe studiata come opera “non finita”, provvisoria e inquieta? Non vorrei che si dimenticasse che Nadia Campana era giovane. E pur avendo in quel periodo della sua vita, come ben appare in questi scritti, già maturato un orientamento romantico-metafisico, a quanto pare a lei congeniale e vissuto con rigore e autenticità, oltre che rafforzato da rapporti culturali e amicali ad esso omogenei, come prova la frequentazione della rivista «Niebo», secondo le dichiarazioni di De Angelis, o dell’area che faceva capo alla tendenza de «La parola innamorata» e delle poetesse vicine a «Donne in poesia», come riferito da Maria Pia Quintavalla, sarebbe sbagliato enfatizzare il valore e la compiutezza di questi suoi saggi.
7.
Questo libretto parallelo alla sua ricerca poetica confluita in «Verso la mente», invece, conferma per me ulteriormente che Nadia Campana puntava decisamente a una mistica.[17] Troppo purista (e indubbiamente giovanile) era la sua diffidenza verso il pensiero. (Come se non conoscesse Leopardi, ad esempio). O verso la politica. (Come se non avesse mai sentito parlare di Fortini, che pure operava ancora a Milano in quegli stessi anni). O verso la storia (anche quella minima, sua, individuale) respinta in modi davvero capziosi e estetizzanti.[18] E che dire dell’aforisma:«Ci sono dei poeti per i quali è impossibile immaginare una vecchiaia»? Rischia di diventare una sorta di epigrafe – netta, conclusiva, profetica – della vita e dell’opera di questa poetessa, su cui letterariamente ricamare, come purtroppo accaduto su tanti poeti e poetesse arrivati al suicidio o morti giovani.[19]
8.
La prefazione a «Visione postuma» di Milo De Angelis[20] a me pare insista a leggere tali scritti troppo alla luce del suicidio della poetessa. Come se potessero essere stati quasi una premessa (o ancor più una premonizione) di quello, un compimento, un “destino”della sua ricerca poetica o letteraria. Nella stessa tentazione cade Gabriella Sica con l’accostamento non solo del suicidio di Campana a quello di Antonia Pozzi ma anche a quello di Beppe Salvia. Con l’aggiunta, in questo caso, di un altro stereotipo estetizzante quando parla di «un estremo volo d’angelo a verticale dal ponte di via Corelli».[21] Ed è la stessa Maria Pia Quintavalla a ricordare l’amica poetessa usando il medesimo linguaggio e le stesse categorie di De Angelis e della Sica.[22] Giova – mi chiedo – avvolgere la figura di Nadia Campana in questo alone romantico-sacrale-destinale? L’ultimo gesto di una vita non necessariamente è il più importante né sempre riordina tutti i precedenti o dà loro un senso decisivo. Nelle riflessioni di Nadia Campana su Marina Cvetaeva ci sono senza dubbio, come dice De Angelis, «venature biografiche». Dubito, invece, come ho detto, che si possa parlare «di impressionante profezia, come se l’autrice avesse scelto questo tipo di scrittura per svelare la parte più segreta di se stessa e il destino che di lì a poco si sarebbe compiuto». I suoi «testi di poetica» trattano, sì, il tema «centrale» (5) della morte; e forse c’è davvero anche il «presagio» (del suicidio, intendo). Tuttavia resto convinto che più importante oggi sia non rimuovere «la seconda morte» (non mi riferisco alla spirituale, cui alludeva Dante, ma a quella storico- politica di fine Novecento). Ne verrebbe meglio illuminata quella individuale di Nadia Campana. E il suo stesso “presagire” assumerebbe un’evidenza ben più concreta. E, perciò, ribalterei pure certe affermazioni di Maria Pia Quintavalla:[23]«chi entrava nel mondo degli anni ottanta», sfuggendo i linguaggi da «agit prop, e tazebao» e «l’oralità vociante» dei «fratelli maggiori» e si rifugiava nelle “sboccianti” riviste, che lei considera «di rifondamenta»,[24]non trovò affatto lì «la nuova patria delle lettere in attesa», ma proprio una malefica e fin troppo «LUSSURIOSA CHIMERA». Altro che «giovani amazzoni» o « neri androgini», di cui ha detto in «Natalizia femminile». Altro che Maddalene di dolore. Quelle e quelli erano giovani donne e uomini avviati, senza cani lupi abbaianti e «Achtung! Scnell, schnell!» ma dopo la storica sconfitta degli anni Settanta ancora oggi mal compresa, verso i lager senza filo spinato della disoccupazione e del precariato. E in quegli anni Milano, come dice un verso De Angelis, diventava sì «muta» ma niente affatto «infinita».
9.
Non si tratta di strappare la poesia e la figura di Nadia Campana al suo habitat neoromantico o neorfico. Né di pensare a una improbabile lettura alternativa di questi saggi o delle poesie di Nadia Campana. Eppure più necessario e doveroso a me pare ricollocare la sua figura di poetessa e di donna nella dimensione storica concreta in cui si mosse, pensò, agì, insegnò, amò. Ricostruendo, se possibile, il suo reale percorso di vita nel passaggio da Cesena alla metropoli milanese e in quei determinati anni di fine Novecento, forse più contorto e comunque non indagato a sufficienza. L’io romantico della Campana deve essere tenuto in relazione con il noi di allora (soprattutto nella Milano culturale e sociale di allora). E, anche indipendentemente da ciò che lei credeva o pensava di sé o degli altri. So che una lettura dei suoi scritti e della sua figura in tale ottica è oggi difficile. Non solo perché scarni appaiono i dati della sua biografia e difficili da ripercorrere sono i suoi legami o le rimozioni delle vicende collettive di anni storicamente cruciali, che vanno dal boom economico alla tragedia dei cosiddetti «anni di piombo», ma perché tutta una cultura letteraria che, nel parlare di una poetessa o di un poeta, non cancella i dati storici, materiali e sociali è quasi scomparsa.
10.
Post scriptum. Nel 2010 un amico, che aveva conosciuto Nadia Campana, mi prestò «Verso la mente» (Crocetti 1990) e, ancora desolato, mi raccontò del suo suicidio, della sua sorpresa, non avendo prima mai dato importanza ad alcuni criptici segnali di lei, che ora parevano diventare amaramente chiari. Anche da altre notizie raccolte su questa poetessa, a me fino a quell’anno sconosciuta, m’ero fatto l’idea di una giovane appassionata di poesia e letteratura e ancora in cerca di sé. Si dice che sembrasse sfuggente, stabilisse rapporti diversi con chi incontrava, come adattandosi alla varietà dei caratteri altrui; e fosse di piacevole compagnia, tant’era allegra e parlava delle sue cose, di fantasie, di sogni, dei libri che leggeva. Pare che persino nei suoi colloqui più informali affiorasse la materia prima per poesie quasi pronte o per articoli di critica o per un’autobiografia più o meno svagata. E che improvvisi ma brevi fossero i suoi innamoramenti nelle pause concesse da malesseri e insonnie, da lei curati anche con sonniferi. Cercava come tutti l’amore, ma per scoprire presto che l’altro non faceva per lei. Sapeva incantare, specie gli uomini, ma è quasi certo che nessuno di quelli che la ebbero o la conobbero riuscì a cogliere – non diciamo a placare (ammesso che fosse possibile) – quella che poi è risultata una sua tensione verso l’assoluto (e la morte). La tragica conclusione della vita di Nadia Campana e la frammentarietà e lacunosità delle notizie su di lei mi resero cauto nell’avvicinarmi ai suoi versi. Tanto che, in quel 2010, pubblicai una unica sua composizione sul blog «Moltinpoesia» e commentai: «Ho letto velocemente il suo libretto, stupendomi, da vecchio, della forza giovanile e tragica dei suoi versi». E a un’amica, anche lei poetessa, che allora scrisse: «Capisco che ti sia piaciuta [questa sua poesia]: mi sembra molto bella. Quel che fa rabbia è che le persone così debbano morire suicide», mi venne da replicare: «Forse una certa poesia è un suicidio dilazionato, che sfugge alla chiacchiera. Immagina che pensiero generoso ci vorrebbe per impedire o almeno rallentare l’incedere della morte (in questi versi e in altri)». In occasione ora dell’uscita sia della ristampa di «Verso la mente» sia di «Visione postuma» ho ripreso la riflessione su Nadia Campana, perché quella sua storia, che ritengo “quasi femminista”, e la sua visione romantica dell’amore e della poesia mi hanno riproposto una riflessione su quel clima culturale di cenacoli e sette di femministe e di poeti provenienti dal grande moto del ’68-’69, che avevo seguito allora a distanza e con un misto di attenzione e diffidenza.[25] Esso alimentò a Milano (a questa sola città il mio discorso si riferisce) bisogni e umori confusi – americanizzanti, individualistici, anarco-romantici appunto – di segno opposto a quelli conservatori (di sinistra o di destra), presto rivelatisi però sintomi e anticipazioni stordite di una comune sconfitta. Il mio sguardo sulle poesie e gli scritti di Nadia Campana è critico. Non mosso però da alcuna tardiva rivalsa nei confronti di quell’area politico-culturale milanese. È soprattutto sguardo di pietas. Volentieri accolgo da Pasternak e posso riferirlo anche a Nadia Campana quello che egli affermò per la Cvetaeva: «non sapendo come sfuggire all’orrore, cercò rifugio, a caso, nella morte». In epoche di sconfitte il passaggio da amore a morte è per alcuni e alcune preferibile alla lenta agonia nella routine imposta agli epigoni dai vincitori. Eppure so che suicidi come quello della Campana interrogano i superstiti, i “salvati”. E inducono a chiedersi: poteva quella giovane trovare allora a Milano qualcuno/a che l’aiutasse ad uscire da quel suo groviglio (non so quanto chiaro a lei stessa) tutto interno a una visione romantica della vita e del mondo? A leggere le testimonianze di quanti l’hanno incontrata si direbbe di no. Pare di capire che la sua cerchia di amici e amiche fosse tutta orientata in quella medesima prospettiva neoromantica. E spinte d’altro segno s’erano disfatte o mai la sfiorarono. Gli altri e le altre che la conobbero da vicino, dunque, non videro e non capirono. Perché – questa è la mia risposta – essi/e pure andavano già abbandonando gli unici strumenti – politici, psicanalitici, filosofici – per vedere e capire (e aiutare) tanto faticosamente ricostruiti attorno al ’68-’69. E, al contempo, disfacevano con scelte individualistiche l’intera rete anti-individualistica di rapporti politici e quotidiani spuntati nell’area di Milano e delle sue periferie. Restarono i “dispersi” e le tante, piccole, apocalissi individuali. Come quella di Nadia Campana.
Note
[1] Nulla viene detto dai curatori sulla consistenza o qualità del materiale inedito da cui questo libretto (112 pagine) è tratto.
[2] Il titolo viene dalla Dickinson: «My Business is Circumference», «Il mio mestiere è la circonferenza». In altra traduzione:«La mia Occupazione è la Circonferenza» (da una lettera a T. W. Higginson (July 1862): http://www.emilydickinson.it/l0261-0280.html).
[3] In un passo del saggio gli altri vengono definiti genericamente «plebe» (p.18), la cui esistenza sarebbe «tessuta di costumi e abitudini o sopportazione kantiano-cristiana».
[4] Cfr. Cvetaeva Marina; Rilke Rainer M. – Lettere. Nel 1926, ancora ignaro della morte incombente, Rainer Maria Rilke indirizza, su invito di Boris Pasternak, una lettera a Marina Cvetaeva che accompagna i suoi ultimi due volumi di poesie. Della poetessa esule Rilke non conosce nulla; sa soltanto, attraverso Pasternak, che legge con grande ammirazione i suoi versi. La risposta non si fa attendere. Dall’esilio francese Cvetaeva risponde subito; e in tedesco, la lingua appresa dalla madre nella sua infanzia. E con una lettera d’amore. Alla quale Rilke, a sua volta, risponde con slancio. Senza mai incontrarsi, i due poeti vivono, da una lettera all’altra, la storia di un vero “amor di lontano”, come quello cantato dai trovatori. Un’arcana frenesia sommuove le singole lettere, come se entrambi inconsapevolmente sapessero che il tempo del loro dialogo è fatalmente contato, prossimo a scadere. (http://www.ibs.it/code/9788877108258/cvetaeva-marina/lettere.html)
[5] «Capiscimi: l’insaziabile, eterno odio di Psiche per Eva, di cui in me non c’è nulla. E di Psiche, invece – tutto…» (p. 27).
[6] «L’amore vive di esclusione, di segregazione, di allontanamento. Vive nelle parole e muore nelle azioni» (p. 27).
[7] «Nella poesia come nella santità si tratta di “morire al mondo”, capovolgendo e prendendosi gioco delle definizioni della cultura e dei porti tranquilli e vicini» (p. 36).
[8] E coerentemente con questa visione della poesia e dell’amore Campana risale alle figure immaginate dai trovatori (Tristano e Isotta, Merlino, Vivienne, Perceval: «una passione tutta occidentale, individuale, ma ancora immaginata dentro allo stesso cammino in cui si trova il sacro»). Ed è da questa sponda del sacro (o del metafisico?) che critica i limiti dell’amore romantico e la concezione occidentale di amore caratterizzata in fondo dal sadomasochismo. Scrive: «nell’artista romantico si osserva […] un’incapacità di definire l’amato, perché non lo si può “vedere”, è troppo vicino, e nel contempo diverso, incomprensibile, perseverante nella sua totale alterità» (p. 26), per cui «si dà come metafora e come tale viene amato». E sottolinea con forza – e qui pare emergere ancora il tratto femminista del suo pensiero – che «le donne cantate dai poeti uomini quasi sempre non sono donne vere, cioè non appaiono nella loro concretezza». Campana distingue la Cvetaeva dal romanticismo e dalla tradizione occidentale. Per lei « come nei greci e in gran parte dell’anima russa» la simpatia prenderebbe il sopravvento sul desiderio (p. 25) e confluirebbe in una «malinconia estatica che ricorda il tantrismo, nel suo paradosso di lasciarsi rapire da ciò che è infinito (perché l’amore è infinito), senza volontà di conservare o di giungere a un esito» (p. 26).
[9] «Un’illazione superficiale può far parlare di influssi romantici, ma essi non bastano a spiegare quell’immaginazione così assoluta, autistica, fino alla perversione, non circoscrivibile con definizioni culturali e stilistiche» (55). E più oltre: «In queste pagine manca qualsiasi tipo di dialettica tra i due mondi – quello della storia e quello della immaginazione creativa» ( 57).
[10] La Dickinson – scrive – «cerca la prima parola», quella «capace di dare l’origine dei fatti» (61) e ha un «enorme desiderio di rinnovamento linguistico». E più avanti: nella Dickinson «la poesia è una voglia di esperire il tutto nel linguaggio» (63)
[11] De Angelis, il prefatore di «Visione postuma», nota giustamente che Nadia Campana «introduce nella sua frase [saggistica] il pathos della scrittura poetica e sembra precipitare con tutta la sua anima nei personaggi e nei libri che descrive» (11).
[12] «Il centro è lei: la persona amata è un gradino della mente nel suo itinerario verso la conoscenza» (76).
[13] «Cerca negli uomini e nelle cose delle somiglianze e delle dissomiglianze a cui contrapporsi»(75).
[14] Influsso che mi appare abbastanza indiretto e sotterraneo. Lo rivela, credo, quando si dice inquietata e irritata dal fatto che nella Dickinson «la scrittura [sta] al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile» (77). Allo stesso tempo è però troppo colpita da quella poesia autentica, per non ribadire (frettolosamente?) la ripulsa – sua e di tanti in quel trapasso dagli anni Settanta agli Ottanta – di ogni atteggiamento che, con qualche approssimazione, possiamo chiamare “ideologico”. Infatti, quella scelta di solitudine in nome della “religione della poesia” alla Dickinson le appare «più forte dell’ideologia e [del]la violenza dispotica di ogni interpretazione, politica e psicanalitica che sia» (77). Né esita a “proteggerla” – direi – con un’ideologia più leggera e genericamente estetizzante, sostenendo con giovanile disinvoltura che «la bellezza è di per sé rivoluzionaria e i suoi semi portano frutti, anche se non nell’immediato» (78).
[15] E’ il rischio che vedo affiorare nella prefazione di De Angelis ma anche in altre testimonianze, di cui dirò più avanti.
[16] Va notato che i versi di Majakovskij, che Campana riporta (« Come si dice,/ l’incidente è chiuso»), somigliano, nella loro stringatezza, al biglietto che Cesare Pavese lasciò al momento del suo suicidio: « Va bene? Non fate troppi pettegolezzi». Campana collega, sì, il suicidio della Cvetaeva a fallimento e stanchezza (32), ma tende a sublimarlo. Lo presenta, infatti, come frutto di «passione» e quasi coronamento di quel suo «puro dispendio di energie», che nella morte avrebbe incontrato «il suo limite estremo» (30) . Oppure ne parla come di un «itinerario della mente», che prenderebbe la forma della «fuga verso la dimora di ciò che non ha forma». E questa dimora viene da lei presentata come luogo dove «tutto è perfetto, bello, elevato». Parla anche esplicitamente di «desiderio di morte». (Sullo sfondo il Freud di Eros e Tanathos). E però respinge (sempre troppo frettolosamente e giovanilmente, a mio parere) ogni approfondimento sulla «causalità o il concatenamento storico che l’hanno provocato», affermando con leggerezza che «darebbe inizio a un lamento o a una recriminazione». Non sembra neppure avvedersi che il suicidio della Cvetaeva interrompesse non solo la sua vita ma proprio quella stessa ricerca poetica che lei tanto ammirava. Si deve, poi, tener conto del fatto che la tentazione di suicidio per Nadia Campana come per tanti e tante che vissero o vivono in un periodo di depressione storica prolungata era ancora controbilanciata dalla passione per la poesia, la scrittura, dagli innamoramenti, dalla frequentazione dei luoghi di vita culturale della Milano di quegli anni. Non voglio semplificare. Ma i giochi non erano fatti. E un’analisi più attenta di questi scritti e delle poesie di Nadia Campana in relazione a quel contesto storico d’allora forse rivelerebbe oscillazioni e incertezze e vuoti etici e politici ( della stessa Campana e di altri/e) da non leggere alla luce ultimativa e tragicista del “destino”. (Vedi Post scriptum più avanti).
[17] Si leggano affermazioni fortemente spiritualistiche come questa: «Con la rapacità di un aviatore, di una Lilith scuote dall’”alcova con il suo carico di mariti e di mogli” (p. 143) i suoi muscoli e quelli del suo amato per trasportarlo verso un’”isola”, una “divinità”, un “Sinai”, un marmo puro, una sensualità che non entra nel recinto dei 5 sensi» (48). E anche negli «Appunti su Marina Cveataeva» troviamo numerose conferme di questa direzione. Ad esempio: «come se la realtà non avesse significato nel suo esserci, nei suoi particolari, nelle sue inclinazioni, ma fosse necessario uno slancio “religioso” che colleghi e renda armonico il disordine vitale. Nostalgia di dio e di vedere un evento in ogni cosa» (49).
[18] Vedi in proposito questi due passi: – «Chi vorrebbe mantenerlo [il passato, etc.] diventerebbe una glossa di sé. Non gli resterebbe che osservare l’inscenamento del proprio spasimo e questo è già più insopportabile della morte» (33); – «Il coraggio non tergiversa di fronte all’impossibilità di vivere senza barattare, senza mercanteggiare con la storia» (34). Se condivisibile e il rifiuto morale della «mascherata» imposta dalle convenzioni sociali, manca una qualsiasi attenzione alle sue cause e ragioni sociali e politiche, segno evidente dei tempi di smarrimento in cui in quegli anni si stava entrando tutti. E non a caso, invece della ribellione, in Nadia Campana è una visione sacrificale che s’impone. Come lei scrive, «viene preferita la calma offerta di sé». A chi poi?
[19] Diffido del mito che potrebbe costruirsi attorno alla figura di Nadia Campana, e cioè della “poetessa giovane ma che ha già raggiunto la maturità” e che, perciò, muore o può anche morire. Ci sento l’eco di una secolare e deteriore tradizione giovanilistica, che parte dall’antico «Muore giovane chi è caro agli Dei» di Menandro e arriva a certe estreme propaggini neoromantiche odierne. Mito, che potrebbe essere convalidato con le stesse parole della Campana. Ad esempio dalla sua preferenza per la famiglia dei «Rimbaud, Mozart, Purcell, Keats, Byron, Drieu La Rochelle» (34) contrapposta a quella dei «Bach, Dante, Eliot e Dostoevskij», questi ultimi svalutati come tremebondi bacchettoni per la smania che gli attribuisce di scavare o rovistare «in qualche parte del passato» solo per «trarre fuori la conversione a un’ortodossia religiosa» (35). Correggendo polemicamente questo aforisma della Campana, direi invece: di alcuni poeti (e di alcune poetesse) è impossibile immaginare la vecchiaia, non perché abbiano raggiunta in modi fulminei da giovani la maturità (chi può dirlo con certezza che, al momento della morte, quella fosse proprio la loro maturità?), ma perché – e qui mi seguiranno solo quanti sono disposti ad uscire da una dimensione assoluta dell’io e a mettersi nel campo della dialettica io-altri o io/società o io /mondo ( specificando cosa vada inteso con tali termini) – quanti entrarono (direttamente e indirettamente) nella vita della Campana finirono per essere (consapevoli o meno) d’impedimento alla sua più piena maturazione. ( E questo, anche se può apparire ideologico, non vale soltanto per lei o soltanto per poeti e poetesse).
[20] La posizione particolare di De Angelis dipende dal suo esserle stato amico e maestro. Almeno a quanto si legge da una testimonianza di Gabriella Sica: «Si era avvicinata ai poeti della rivista “Niebo”, in particolare a Milo De Angelis, condividendone il senso “tragico” e radicale della poesia […] In Distante un padre del 1989 Milo De Angelis ricorda in almeno due poesie Nadia. In Tartarughe dal becco d’ansia la fa parlare in prima persona: “Sono lucentezza e disunione / Jean Seberg mi chiamavano da piccola / Sono una stella dal talento casuale”. L’altra poesia, intitolata proprio Verso la mente, inizia così: “Prima che dormissero le mirabelle / e la vera carta diventasse cieca / indietreggiò sentendosi / colpita…”. In Biografia sommaria del 1999 Milo le dedica ancora una poesia, ampia e autobiografica, sullo sfondo di una Milano “muta e infinita”, Cartina muta, in cui a fatica prova a ricordare esattamente quello che accadde, “i fatti e le parole” che si scambiarono, davanti a un chiosco, con “due bicchieri di vino rosso”, nella sua “ultima giornata”. «… quasi in un ripetersi di uno stesso tragico accumulo di linee spezzate, Milo De Angelis scrive di Nadia: “Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia / … / dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al saluto / del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo, / è lo stesso che una volta chiamai amore, qui / nella nebbia della Comasina”…. Nadia aveva detto no, no a tutti gli inibitori del respiro e della poesia». (http://poesia.blog.rainews.it/2014/02/24/poeti-da-riscoprire-nadia-campana/)
[21] Cfr. sempre (http://poesia.blog.rainews.it/2014/02/24/poeti-da-riscoprire-nadia-campana/)
[22] Come De Angelis, infatti, interpreta la vicenda dell’amica alla luce della categoria destino. Parla di «incontri del destino» («De Angelis e la Dickinson, due opposti poli dell’assillante “chi sono io, chi sei tu”»). Come se l’io non si definisse anche rispetto agli altri, a chi sono gli altri. E troppo genericamente o solo metaforicamente allude al contesto storico di quegli anni («i deserti assoluti, ereditati dagli anni di piombo»). Pure lei l’accosta all’altra poetessa suicida, Antonia Pozzi. Come se queste analogie fossero determinanti per la comprensione della sua poesia e dei suoi scritti. Come se, appunto, il suicidio fosse un dato essenziale della sua poesia (o addirittura dei poeti migliori o “geniali”). E verrebbe da obiettare che poesia si costruisce solo in quanto non ci si suidica o semmai in quanto si resiste alla tentazione o desiderio di suicidio. Che interrompe la ricerca di poesia, non la produce. E al massimo potrebbe essere un pensiero che alimenta, come altri, un certo tipo di poesia. Quintavalla si appella anche all’autorità di Andrea Zanzotto per convalidare una leggenda delle donne (e poetesse?) di quegli anni come «amazzoni, vittime». (Leggenda ripresa pure dalla Sica: « Si muoveva in città con innocenza e baldanza amazzonica»). Ma è riferibile a Nadia Campana? In un passo di «Visione postuma» sembra lei stessa respingerla: «Un altro falso mito affibbiato alle scrittrici è quello di vederle sotto il profilo di amazzoni. Mito che ha affascinato tanti scrittori» (78). Anzi lo vede come un tentativo di confinarle in «comunità marginali femminili». Che poi Zanzotto abbia parlato di un “culto della poesia”, in un intervento a Radio Lugano Svizzera, del 1987 e 1989 e abbia scritto de «“le confraternite ispirate dai più strenui ardori”, le ragazze cioè che aprirono il sentiero,divenuto un mare, mar rosso del movimento, e del pensiero femminile / femminista: “ Valga per tutte, il nome di Nadia (scrive A.Z.), in cui tutte furono protagoniste”, di una “meglio crudeltà” queste giovani “impegnate in un’auto spendersi ritroso.“» che dire? Fa parte della retorica e della mitizzazione del femminismo cui hanno contributo anche alcuni scrittori. Del resto anche i grandi poeti possono dire cose generiche e fare un ossequio senza andare a indagare a fondo. O stravedere proprio per una pretesa di indagare solo i “fondi” (o i fondali). (Cfr. http://www.poesia2punto0.com/2011/12/26/per-una-lettura-di-maria-pia-quintavalla-a-zanzotto/)
[23] Cfr. [http://www.milanocosa.it/autori/maria-pia-quintavalla]
[24] Si riferisce, come già detto, a «Niebo», alle antologie femminili-femministe, alla serie di «Donne in poesia», a «La Parola innamorata».
[25] Ne ho riferito in prosa e in poesia nel mio «Donne seni petrosi» del 2010.
Mi pare di capire che anche lei condivida il “fatto privato” e interno alla comunita’ letteraria milanese di quel periodo, un ambiente certamente duro per una ragazza di provincia ancora in formazione. Saluti.
Leggo sempre con commozione, ogni volta, una rilettura della poesia, qui delle poetica, di Nadia Campana.
Si parla delle sue eroine o muse, come di soggetti nuovi di transfert (Simone De Beauvoir, è uno dei nostri libri di lettura in comune), ma si frappongono, oltre alle belle e intense note di lettura, anche interpretazioni erronee. Sul misticismo ad es. visto che sarebbe diventato l’humus comune di formazione di tante di noi, autrici e intellettuali, nel decennio novanta, con la lettura di Zambrano, Campo e Weil. Nadia fu anticipatrice semmai.
Non entrerò nel merito, invece, delle numerose citazioni, occorrerebbe un materiale che non abbiamo sottomano, ma mi soffermerò su errori di fraintendimento, che mi riguardano. Forse, si equivoca perché non si conoscono i pezzi da me pubblicati, nel luglio e settembre 2014, su Leggendaria, numero 106, luglio 2014, rubrica Primopiano; il secondo, su Viadogana , http://www.libreriadelledonne.it/nadia-campana /). Vedrò di ripostarli su altri blog o riviste di poesia. Il pezzo che si cita risale invece al 2010, uno scritto altamente emozionale, reattivo, pubblicato sul web, Dedalus, e su Lapoesiaelospirito, poi circolato in FB, in un racconto – articolo, non di esegesi, ma di bisogno di rompere il silenzio con una narrazione di quegli anni. Dove si tratta, anche tramite note autobiografiche, la difficile uscita dagli anni settanta italiani. Quel pezzo precede ovviamente la lettura degli scritti saggistici in Visione postuma, pubblicati nella ristampa Raffaelli 2014.
Un passo indietro ora, per ricordare l’appello da me lanciato a Book City 2013, agli editori per le autrici rubricate ne Le Silenziose, Nadia Campana e Piera Oppezzo, per ottenerne ristampa dell’opera, introvabile in entrambe. Con un bellissimo esito e la volontà dei curatori (De Angelis, Turci, Rabuffetti) di ristampare Verso la mente e di pubblicare Visione postuma. Occorreva colmare questa lacuna.
Non è vero io sostenga la fatalità di un destino al suicidio, *come * Sica, semmai leggo come un acuto e radicale, momento di un pensiero-passione che porta Nadia, coeva a Rosselli, Plath, Sexton, alla ricerca e rilettura di madri e sorelle, per riscrivere una geneologia di scrittrici libere, come Cvetaeva e Dickinson. Esponendosi tuttavia, a una solitaria e rischiosa estraneità, poi.
Nella relazione tenuta a Book City presentando la sezione de Le Silenziose, dibattevo sulla portata di quegli anni, leggendo fra i tanti effetti *obbligati* di quegli anni, carichi di nemesi, un separatismo maschile e femminile, concretatosi nelle rispettive antologie degli anni settanta / ottanta; sinomino quest’ultimo, di strozzature della società civile e culturale molto dure e immedicate, nei conflitti. Una sola eccezione, l’ esperienza di Porta e Siciliano, in Poesia italiana degli anni settanta, Feltrinelli, 1979.
Altrettanto vero che, con Nadia, non mi riconobbi nel mito delle amazzoni, tappa troppo ideologica verso identità di fondazione, ma lo lessi piuttosto come eredità – proiezione dell’ immaginario maschile, così come fu storicizzato. Nella poesia citata, Natalizia femminile, tratta da Lettere giovani, Campanotto 1990, traccio un’allegoria di maschere come stati del movimento delle donne, rima della diaspora. Maschere idealizzate ma inadeguate, approssimazioni ad identità, provvisorie. Recito: “Pensate ai neri budda che eravamo / donneunuchi, neri androgini / maschere vive e sante / ma soprattutto magre, / magri cavalieri moderni “.
Dove scrivo la parola amazzone?
Nel mio pezzo La mente come unico oggetto di osservazione, in Leggendaria n 106, gioisco della critica portata da Nadia alle pseudo incarnazioni dove il femminile è il Lontano, e il mito di Diana declina ne l’amazzone, e sono all’unisono quando Essa aspira al ruolo di compagna-Altra, che vuole dall’empatia e dall’amore, agape ad eros, riavvicinare uomini e donne nel comune cammino del sacro e della poesia, verso un’originaria “amorosa perfezione femminile “. Siamo lontani mille miglia da adesioni a quelle mitologie.
Quanto alla mitizzaziane del femminismo. Quale, di chi ? Non ricordo autori che ne fecero apologia, semmai la discreta simpatia di Porta, che ne titolò una rubrica su Alfabeta, chiedendomi il permesso di citare correttamente lo spirito di quello “specifico in più “, poi la espansiva empatia di Majorino, o la calvinistica curiosità di Fortini.
Un’anima schiva e antimondana come Andrea Zanzotto, che scrisse i volumi critici di Fantasie di avvicinamento, parla delle possibili rivoluzioni vitali entrate nel nuovo millennio, (saggio Cantari dolorosi, su Nuovi Argomenti, marzo 1993), nominando quella del pensiero delle libertà femminile accanto a quella del pensiero informatico, ma apprezza come più portatrice di futuro, la prima. Nella trasmissione a Radio svizzera Lugano accennava con garbo a rivoluzioni appena sognate, per designare l’area generativa dal ’68, sulla poetica di Maria Pia Quintavalla, ripreso poi nell’ampio saggio su Nuovi Argomenti. Lo fa mentre rende onore alla bella prefazione di Nadia Campana scritta al mio Il Cantare, poiché la conosceva.
La sua lettura suggerisce mondi sororali, nascenti e adolescenti, per un tipo di orizzontalità nuova, esposta, delle “giovani di incomparabile intimo splendore” dove “tutte poterono essere protagoniste”: cioè parla del capovolgimento del fare poltico gerarchico della politica tradizionale, che portò a stringere “i più strenui ardori e omertà” e favorì la nascita di un certo “culto della poesia”; lo stesso clima per cui leggere Cvetaeva, Celan era permettere di germogliare alla parola di poesia, dopo taluni diktat di azzeramenti avanguardistici. Dovremmo ripartire, oggi, da un ascolto integrale di queste voci inedite, di quella “meglio gioventù”, come quella di Nadia Campana, dove le mutazioni eserienziali traversarono la parola, i costumi, i sentimenti, divenendone parte costitutiva, di una poetica. Inaugurando una poesia portatrice di urgenze e bellezze radicali dove il privato e il politico vivere si riconoscono e riconciliano: Le prime cose, titola una piccola silloge di Nadia C. su Pratopagano. O quando esclama: ” Marina è nuova è poeta e rompe col passato”!
Aggiungo che per me ricercare sulle due autrici, Campana e Oppezzo, ha dato tanta gioia e passione, oltre che un forte investimento di energie, ma ora non dovrebbe arenarsi, se condiviso in un orizzonte di ricerca e di aperture dell’esegesi critica, per non ri-perdersi in labirinti dove già Nadia si perse.
Resto quindi in sintonia, e intimo accordo, con la lettura che Anedda ne fece all’indomani della prima uscita di Verso la mente, nel 1990, e cioè che la parte vitale, e procreatrice di attesa, di un “non ancora” è così presente nella sua poesia, e scorra nei suoi versi fino alla fine, da non fare pensare a una inevitabilità del suo morire.
Così come restano compresenti, entro il mistero che va rispettato le altre note dissolventi e dissonanti, in un ossimorica andatura, di cui parla Milo De Angelis nelle introduzioni ai libri.
Maria Pia Quintavalla
Bibliografia utilizzata:
Verso la mente e Visione postuma di Nadia Campana, Raffaelli editore, Rimini, 2014
Andrea Zanzotto, Cantari dolorosi, Nuovi Argomenti n. 2, gennaio – marzo 1995
Antonella Anedda, Taccuino tragico di un itinerario verso la mente, La talpa libri, Il Manifesto, ottobre 1990
Maria Pia Quintavalla, La mente come unico oggetto di osservazione, Leggendaria, n 106, luglio 2014
Maria Pia Quintavalla, Sulla poesia di Nadia Campana, Viadogana, settembre 2014
@ Quintavalla
Le mie due riflessioni su «Verso la mente» e «Visione postuma» di Nadia Campana possono ben essere “fantasie di avvicinamento” quasi come quelle di Zanzotto . E una certa distanza dalla poetica e dall’orientamento culturale di Nadia Campana può avermi indotto a qualche fraintendimento.
In tal senso le precisazioni che fai le accetto volentieri. Le questioni però da me toccate (concezione romantico-mistica dell’amore; «fatalità di un destino al suicidio» o meno; accoglienza reale o fittizia del lavoro di Nadia Campana da parte dell’ambiente letterario milanese; mitizzazione o meno del femminismo) restano aperte. e andrebbero studiate più a fondo.
Io ho solo messo in campo una *mia* interpretazione e resto disponibile a correggerla, se nuovi dati o argomentazioni saranno proposti. da te, da altre, da altri. Come resto disponibile a leggere e valutare (ma anche a pubblicare sul sito di POLISCRITTURE) gli scritti da te indicati (su «Leggendaria» o su «Viadogana», che, non avendo trovato sul Web in questa mia prima esplorazione, non ho potuto considerare.
Resto però convinto che il mio tentativo di valutare il lascito di Nadia Campana da un punto di vista esterno ( critico ma non necessariamente ostile) all’amicalità o anche alla sororità femminil-femminista possa alla fine risultare benefico e non un’intrusione.
P.s.
Su un punto tutto sommato marginale. Siccome chiedi:« Dove scrivo la parola amazzone?», riporto i passi dal link in cui è contenuta:
https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2010/02/20/per-nadia-campana/
Pozzi come Nadia ascendeva e scalava le montagne.
Come lei pensava che solo la culla prosodica e lampeggiante dei significanti placava il dolore, il dettato interiore, anzi ne ricreasse un mondo nel mondo, di già noto. Anche là, un “culto della poesia”, come lo chiamerà Andrea Zanzotto, in un intervento a Radio Lugano Svizzera, del 1987 e 1989 scrivendo de “le confraternite ispirate dai più strenui ardori”, le ragazze cioè che aprirono il sentiero,divenuto un mare, mar rosso del movimento, e del pensiero femminile / femminista:
“ Valga per tutte, il nome di Nadia (scrive A.Z.), in cui tutte furono protagoniste”, di una “meglio crudeltà” queste giovani “impegnate in un’auto spendersi ritroso.“
Un’auto spendersi, fino al rischio di caduta della linea, sempre A.Z. ne spiega, nella prefazione al mio Estranea (canzone), il peccato per superbia o voglia di Dio, (che) finisce nell’auto annullamento, dopo la carestia, a causa di essa; di confraternite ispirate ai più cupi ardori, e a un sotterraneo culto, della poesia. Amazzoni, vittime.
Parlava ammirata, di una lei così diversa, dell’astro nascente di Patrizia Valduga. Come di un come, e con chi, risalire la luce; di donne sole, risvegliate e spavalde ancora, immemori o da poco memori e coscienti, giovani amazzoni ( “i neri androgini” di cui scrivo in “Natalizia femminile” ), come di cavalieri moderni ecc. Divenute poi, chi libere papesse, chi dominae, imperatrici.
Aggiungo che nel primo brano il termine pare riferito a Zanzotto e nel secondo a Nadia Campana, ma sembrerebbe assimilato anche da te che scrivevi (senza prenderne le distanze, come fai adesso…). Ma – ripeto – non insisto. La questione è per me secondaria.
un primo pensiero, ma utto da riprendere ( sarò fuori casa fino a sera )Ci mancherebbe fossero intrusioni, le critiche e i contributi di lettura alla poesia di Nadia Campana, e l’area da cui io la si vuole rileggere – anche – come femminile, di intelligenza, una diminuzione: riprendo Antonio Porta , da lo “specifico in più” di lettura da destini, e vocazioni vissute dall’interno, come connotate anche in quel senso. Non stupisca Essa ci parli di eroine e sorelle, donne scrittrici, in questi saggi, da poco leggibili.e così preziosi illuminanti.
le mitizzazioni del femminismo, sinceramente non le ri trovo in me , né in lei, ma forse appartenevano a chi le idealizzò per mantenere tale separata visione del mondo ma non tradusse,:occorre pensare a un paese come l ‘Italia, catacombino nei saperi, (cattolico – comunista ) che si era alle prime vulgata( di Carla Lonzi, di Luce Irigaray o della Kristeva, della Cixous, e che uno sguardo saggistico nuovo esisteva nella cultura anglosassone, ma non in Italia; successivamente sarebbe entrato con la letture critiche di Rasy, Livi, Frabotta, Vitale, Bulgheroni, Guiducci, ma tant’è, quello sguardo iniziava il suo cammino.
Credo alle mie definizioni in poesia più che a miei…poteri saggistici, quindi quando descrivo come un gruppo seppure in ordine sparso di fanciulle che si risvegliavano ad una comunità, quella letteraria, alludo a un mito della giovinezza, dove dovettero essere precursore,, e specialemnte “viste “. QUEL mito, però delle amazzoni aveva una forte ambivalenza non a caso evocando la mutilazione di un femminile debole di sè, e che fu ricusato poi da Nadia C.i n una lucida auto consapevolezza.Io osservo in effetti, nel pezzo uscito su LPELS un clima fabuloso, quanto io vedo le figurazioni della giovani degli iniziali anni ottanta prima del disincanto parlo da esterna, come di assunzioni di tali archetipi più culturali ereditate che intimamente credute. tanto è vero, Essa lo ha disdetto proprio negli scritti, i piu’ densi, su Marina Cveaetva.
Ed anche sull’amore romantico mistico c’è il suo forte rimprovero alla figura femminile, se luogo di proiezioni e non prescelto, dalle donne, che nei miei saggi cito. Poco spazio tuttavia esisteva all’immaginario amoroso in quei cupi anni settanta: Donne dépense, donne impazzite donne icone della morte. “Una donna ” di Sibilla Aleramo lo narrò già, e molto bene.
Ma l’intreccio di letteratura, sessualità e simbolico entrava nelle letture freudiane e lacaniane anche dalla porta principale.alleggerendo molte parti ideologiche.
Di recente altre riletture di ritorno alla epica, in Vicinelli e Rosselli, ha riconfermato ipotesi di un ‘epica femminile inedita, ma vorrei parlarne a puntate data la vastità del tema, e il rischio sempre alto, è certo di di un linguaggio che riduce e impoverisce anzichè ampliare. essendo tali ottiche parte di quello specifico in più che non è sineddoche del tutto, ma nazi sua parte mancante.
La poesia di Nadia chiama in causa forti ragioni e forti energie vitali, anche apollinee, a volte più spesso di eros altamente sublimato, ma anche qui definire come sospetta una eventuale spinta mistica è erroneo; essa fa parte intrinseca di molta scrittura dell’ immaginario femminile E forse l’asso di picche cui si allude negli scritti saggistici è una donna vincente , inedita, come sarebbe diventata. Vorrei tonare più tardi su varie cose, compreso la non ricettività del clima culturale di allora. Ho sollecitato il link a Leggendaria e a Viadogana , se mai le riposterò integrali, Grazie per ora. avendo sessioni di esame.MPia Quintavalla
Grande, forte poeta, vitale e dolente,che meriterebbe un saggio vero, ampio,come è stato scritto per Silvia Plath, Dickinson,, Anne sexton, per la Cvetaeva.. I poeti suicidi non sono tali per malinconia, debolezza, ma per forza vitale, saudade, intensità emotiva,, carattere, scontro violento con una vita mediocre e di chiacchiere meschine. Si uccidono per eccesso di vita , per ardore e amore di vita intensa. Ne scrive Borgna, Ne L’arcpelago delle emozioni. E, per dirla con Majakovskij: ?la barca dell’amore s’è infranta contro la vita’. Su questo bisognerebbe riflettere molto, scrivere, se è ancora tempo di poesia, per non ripetere le solite banalità . Si tratta poeti/e forti, duri, che non cercano facili conforti, banali vissuti sentimentali. Cerano pathos, trasformazione ,, rinnovamento del sè. E questa non è una affermazione teorica, ma una considerazione che nasce dalla lettura dei loro versi.,dal nodo che ti afferra violentemente alla gola. E dal fatto che resistono ancora al tempo, alle riletture. C’è in loro un eccesso di vita.
@ Gaetano
“Si uccidono per eccesso di vita, per ardore e amore di vita intensa.”
Ne è proprio sicura?
E ammesso che sia così, noi ce la dovremmo cavare scrivendoci su un “saggio vero, ampio”?
Io, facendo attenzione alla retorica, indagherei cos’è questo “eccesso di vita”…
@ Gaetano
POSTILLA: LETTURA DA MEDITARE
Sia l’amico Alvarez (autore del saggio critico Il Dio selvaggio -Il suicidio come arte, Rizzoli 1971), sia Ted Hughes abbandonarono al dunque la Plath, l’uno in un modo, l’altro in un altro, quando essa mise in atto un secondo tentativo di suicidio.
Che poi la ricerca artistica all’ alto livello al quale la por-
tò la Plath, e a una tale intensità, sia un rischio mortale di
per sé, purtroppo ogni artista lo sa bene fin dall’inizio del
suo vocazionale sperimentare con la vita; così come ogni
donna sa che non sempre la vita matrimoniale, i mestieri
di casa, i figli, il sostegno al marito (possibilmente non del-
la stessa professione!) e l’indipendenza economica posso-
no coincidere con la realizzazione piena d’una vocazione
creativa. Potremmo studiare quanto ci pare l’adolescen-
za, le lettere e la biografia della Plath senza mai trovare al-
tro che “specchi” doppi e deformanti. Parla più chiaro il
suo verso, ed è più onesto. Che si smetta d’insistere sulle
poesie intitolate Papà, Lady Lazarus, Lesbo, Orlo, Morte
& c., Tre donne (dramma per radio), che sono oramai da
tutti scelte in una specie di tardiva frenesia per lo psico-
logico, l’orrido, il privato, la causa nascosta; e si ricordi
invece che tutte le migliori poesie della Plath hanno anzi
per titoli frasi o vocaboli poeticamente neutri o ambigui,
come Il giardino del maniero, Cime tempestose, Autunno
del ranocchio, I campi di Parliament Hill, La cornacchia nel
tempo piovoso, Apprensioni, Mistica, Amnesiaco, Talidomi-
de, Ariel, La luna e il tasso, Piccola fuga. Già dai titoli e nei
loro temi sottintesi, s’indovinerebbe che la Plath è misti-
ca e allo stesso tempo concreta nelle metafore, come nel
suo secco musicale linguaggio, degna seguace di Shelley
e Keats, o di Blake e della Dickinson, e che le sue origini
piccolo borghesi non vanno derise per una manciata di
lettere semi umoristiche, commoventi anzi per la stima e la
gentilezza del rapporto che rivelano nei confronti di una
madre abbastanza colta da comprenderne la generosità.
Se proprio dobbiamo commentare in senso psicobiogra-
fico le lettere e la vita della Plath, possiamo soltanto aggiun-
gere che non è certo la madre Aurelia che dev’ essere ritenuta
responsabile, come è stato più volte fatto, di quell’inevita-
bilmente riuscito suicidio del 1963. Questa “inevitabilità”
si nota anche nel progressivo indurirsi, come pietre scheg-
ge, delle ultime poesie: come se la Plath stessa fosse consa-
pevole di chiudere un suo problema di eccesso di vita:tra-
vasata e distillata sino alle essenze finali. La sua giovanile
esperienza di psichiatri ed elettroshock del 1953 l’aveva
spaventata anche se non danneggiata (vogliamo sperare) fi-
siologicamente. A Londra, nel 1963, sarebbero bastati una
più autentica spinta ambientale, più soldi, “la volontà”, per
sostituire all’ antico e antiquato ospedale psichiatrico uno
psicologo. Non dimentichiamo del resto che fondamentale (probabilmente) resta nella Plath il non chiarito proble-
ma del padre, perso quando lei aveva nove anni, e mai ri-
trovato in forma “sostitutiva”.
E dunque, male o mai risolto psicologicamente quel
suo problema di fondo, visto che il trauma infantile e poi
adolescenziale (gli ospedali psichiatrici, gli elettroshock
ad esso aggiunto è un duplice trauma non risolvibile attra-
verso la “confessionalità” di quelle poche ma aspre poesie
di intento riscattatorio, che infatti scadono molto qualità-
tivamente e che sono “tracce” del trauma da affrontare. […] Così, dalle lettere e dalla biografia d’una poetessa di tanto inusuale talento, forse una sola interpretazione è ricavabile: se accusando simbolicamente “la madre” si accusa in sua vece una società terapeuticamente ignorante e meccanicistica, e, quel che è peggio, incosciente nel suo matriarcato di stampo capitalistico, lo si può ben fare: ma allora tanto vale farlo anche per l’Italia e l’Inghilterra, dove di certo si spererebbe che negli anni novanta l’influenza ambientale possa salvare in tempo, possa salvare anche dal suicidio e dalle sue attenzioni critiche così pubblicizzate
(Da «Istinto di morte e istinto di piacere in Silvia Plath» in Amelia Rosselli, «L’opera completa», Mondadori 2012, pp. 1229 -1231)
RIORDINADIARIO.
Poveri i poeti e le poetesse che si suicidano…(A margine della serata milanese in memoria di Nadia Campana).
Questo mi è venuto da pensare la sera del 9 aprile 2015 quando, a conclusione degli interventi che hanno ricordato a un pubblico per fortuna numeroso la poesia di Nadia Campana alla Palazzina Liberty di Milano, me ne sono tornato un po’ deluso a casa.
Insomma, una bellissima giovane, corteggiatissima, avviata dall’allora autorevole Antonio Porta a un inizio di carriera di traduttrice (della Dickinson poi!…), inserita nella rete del femminismo milanese d’avanguardia, d’un tratto decide di scomparire e si butta dal ponte di Via Corelli. Poi silenzio su di lei per anni. E, infine, benvenuta la riedizione delle sue poesie e dei suoi scritti in prosa e questo avvio di riabilitazione postuma come poetessa organizzato dalla Casa della Poesia di Milano.
Ma perché – insisto a chiedermi – non una parola su un suicidio che, come ho scritto, interroga «i superstiti, i “salvati”» e, nel suo insieme, quella «“tribù metropolitana” (di poeti, poetesse, intellettuali), che, crollate le speranze di cambiamento del ’68-’69, andava incupendosi e s’avviava verso l’inaridimento sociale-politico-culturale, che si prolunga fino ai nostri giorni»?
Ora è vero che Nadia Campana separava, di suo, biografia da poesia. E faceva anche benese si pensa ai troppi pettegolezzi che si costruiscono sulle biografie dei poeti ai danni delle loro opere. È vero pure che le parole risuonate nella sala della Palazzina Liberty quella sera non sono state malvage ma interessanti.
Milo De Angelis ha ripetuto la sua tesi: una giovane che starebbe tutta in quei cinque anni dedicati alla poesia e che non avrebbe potuto accedere alla «maturità». Aglieco ci ha parlato del “vitalismo” di Nadia Campana e di quella sua «voce che irrompe nella parola» (?!). Marco Forti dell’importanza del suo «sconfinamento» e di un qualche legame con la psicanalisi. Maria Pia Quintavalla della spinta che aveva alla «trascendenza». Silvio Raffo della sua «empatia pericolosa con la sovrumana Dickinson», pur così fertile quando tradusse quelle cento poesie della poetessa americana «scelte per elezione». E Giovanni Turci ha letto con commozione alcuni testi inediti dell’amica rivelatori della sua «difficoltà di ritrovarsi nella storia».
Ma sul suicidio?
Non è curiosità morbosa la mia. Né presunzione di poter illuminare con forzati riflettori razionalistici ciò che sfugge alla ragione. Però – per la miseria! – interrogarsi e tentare di capire quanto quel suo gesto finale abbia avuto soltanto origine nei meandri insondabili del suo inconscio di giovane donna o accogliesse suggestioni di certi modelli poetici del passato a lei cari (la Cvetaeva ad es.); o quanto, invece, andasse ricondotto – *anche* (e non *soprattutto*) – a certi stili di vita freddi, distratti, vanagloriosi, cinici ed egoisti che sono prevalsi nella sempre più spappolata società letteraria milanese, è una perdita di tempo? Viva il Culto (astratto e “mistico”) della Poesia e poveri i poeti e le poetesse che si suicidano, dunque?
Questa serata non ha consentito dibattito per il umero di iterventi; al nostro primo incontro, al castello sforzesco, a Book City, la relazione partì e rimase a lungo entro il contesto di quegli anni, anche letterario, ed entro le gravi ferite che gli anni di piombo lasciarono aperte in Italia, nei giovani cui ho dedicato due serie, in quanto “invisibili “, per entrare poi nella sua sete di figure sororali, cui ancorare quell’afflato utopico e amoroso, pieno e deluso, di attese disattese. Sono arrivata tardi , nel 1983 in autunno, sufficiente a cogliere quell esito di clima che dalle sue parole esce sia straziato che trasfigurato. aspirare a questa terrena metafisica della poesia, che non è un travestimento orpello ma una scelta rispetto al deserto cui Nadia aderì .Maria Pia Quintavalla
@ Quintavalla
Della serata del 9 aprile non ho lamentato la mancanza di dibattito né tantomeno di un dibattito sugli strascichi degli anni Settanta a Milano che di certo non poteva avvenire in quella sede, ma semplicemente la censura/autocensura o l’assenza di qualsiasi interrogativo sulla questione del suicidio di Nadia Campana. E’ questo che mi pare un po’ ipocrita e insopportabile.
Io credo sia passato troppo tempo dalla scomparsa di Nadia alla riedizione (in parte ampliata) dei suoi testi. Anche la serata alla Casa della poesia ha dei grossi limiti. Il tributo di alcuni amici testimoni non è oro colato: l’amico di Cesena che sta ancora cercando inediti, la voce dell’attrice brava ma che ovviamente non può far tornare Nadia e accentua un senso di estraneità, la presenza di De Angelis un ingombrante marchio di garanzia, coordinatore della serata; lo psicanalista un po’ sottotono e infine forse la più partecipe ma con rimpianti Maria Pia Quintavalla.
Dicevo del tempo che gioca brutti scherzi. Onore al merito certo a Nadia Campana, sia come poetessa che come traduttrice. La mia cara amica oggi appare molto più brava che ai tempi andati; ma a proposito di scherzi: quella telefonata simbolica della partenza di un viaggio senza ritorno che nessuno ha capito come la mettiamo? Sia amici che morosi l’hanno frequentata in molteplici dimensioni e il ricordo li lascia un po’ di stucco come allora, forse con una eccessiva fretta, stiracchiata, dilatata nel tempo, senza possibilità di riprendersi, probabilmente definitiva, perchè la storia di Nadia è un libro mai chiuso e appare in un certo senso piantato lì. Ora c’è solo una uscita di servizio della riedizione dei testi, con la bella immagine segnalibro con un gran bel punto di domanda.
Non siamo agli esami di riparazione. Il cofanetto “Verso la mente”, “Visone postuma” è una bella impresa, ma resta sempre un viaggio di sola andata.
Nadia non è voluta tornare o qualcuno è responsabile della sua scomparsa? Forse oggi è inutile rinvangare una vita e un affetto che ci ha reso tutti un po’ incompiuti.
Di certo siamo in molti di più di allora che vorremmo capire. La società letteraria rimane un pensiero astratto, una costante indifferente. Un poeta resiste con i suoi testi,o almeno così sembra.
Uno e nessuno. Nadia sei tutti noi!
Sono grata al commento di Alberto Mari, amico affettuoso di Nadia , che la conobbe a fondo, volendole un sincero bene: qui Alberto si accorge dell’ estraneità del tempo che ha isolato la figura di Nadia che, come ha scritto Andrea Zanzotto, resta impigliata, e cupamente mortificata nella stagione di utopie vinte; un passo indietro, ora, e con raccapriccio: Chi mai ha ricevuto questa telefonata e non ne ha detto, né l’ha preso in considerazione ??! Io esordii al primo intervento a Book City, novembre 2013, inteso come appello per la rilettura e ristampa di due dimenticate: Nadia Campana e Piera Oppezzo (anche se mi sono soffermata assai più sull’ amica ) con una affermazione precisa: “che Milano doveva chiedere scusa a Nadia Campana, per non avere accolto e compreso la sua stretta di mano e la sua poesia, me compresa, e ho lasciato che questo amo, il “suo” dolore e il “nostro”rimorso agisse, sulla realtà. Editori, curatori, pubblico hanno risposto, con viva commozione, che ha messo in moto questo tentativo di ritorno del tempo; in alcuni interventi ho riavvertito anche nella serata di aprile, certamente chi non la conobbe non può ricordare e non può restare al cospetto di questo impatto, che rimarrà frontale per tutti e per sempre. Ho volutamente spostato il livello della ricostruzione di questa domanda, carica di rimpianto, è vero, in quella serata (Dopo essermi spostata da due anni a questa parte,alla LUD di Milano, a Sasso Marconi, a Trieste, a Bari, ora a Parma) ed essermi appoggiata ad altre testimonianze, dopo Anedda e Zanzotto che ne hanno scritto, a un corrimano nuovo di sorelle ignote, come Maria Zambrano, senza sperare di esaurire la sua sete, con la sensazione della triste vanità, del fine pista incontrato nel mutismo da caduta della linea, che ferma quella stretta di mano della sua poesia…che non fu così forte se non fu recepita? Se non per la promessa di uno studio critico che ancora deve svilupparsi, se ne è parlato anche con Raffo, che la riscopre fra le eccellenze della traduzione dickinsoniana, in uno studio appassionato e critico di lei, futuro della sua scrittura, “lettera al mondo che a lei non scrisse mai “. Grazie, Maria Pia Quintavalla.
P.S. Un mio intervento migliore sarà leggere le molte sottolineature con cui mi restituiva i libri che ci prestavamo, uno fra altri, “Riflessioni su Christa T.”, sulla carestia di tempo di cui eravamo preda, da veri alienati.