di Elena Grammann
[ “Gli anni settanta si muovono, ondeggiano e fluttuano, si aprono dappertutto a tentativi di uscire dalla famiglia, l’esecrata famiglia” (Elvio Fachinelli, citato da E.A. qui). Si muovono ondeggiano e fluttuano, ma l’uscita dalla famiglia non è stata una passeggiata.]
“Sembra un treno del Far West” commentò il ragazzo giovane straniero salendo sulla littorina con i sedili di legno che faceva servizio locale.
La ragazza giovane autoctona provò a guardare il treno con occhi diversi per vedere se poteva avere la stessa impressione. Ma aveva visto poche cose straniere e soprattutto era troppo tesa per riuscirci. Però forse sì, forse i sedili a listelli di legno erano antiquati, ammise a se stessa con un sorriso forzato.
Il ragazzo straniero era, in un senso non ufficiale ma non per questo meno sostanziale, il suo fidanzato. Si erano conosciuti da qualche parte in Europa, si erano scritti quasi giornalmente per cinque o sei mesi ed ora eccolo qui. Per tutta l’interminabile mattina in cui lo aveva aspettato alla stazione aveva sperato che non arrivasse.
Se la ragazza fosse capace di riflettere sarebbe sicuramente meno tesa. Non si sentirebbe responsabile per i sedili di legno, per le occhiate della gente sul trenino locale, per l’incontro, fra poco, con i suoi genitori e per ogni singolo istante che scocca. Se la ragazza fosse capace di riflettere magari gli avrebbe scritto, semplicemente, di non venire. Avrebbe fatto una bella lista dei motivi che sconsigliavano di continuare quel rapporto: troppo complicato, troppo pieno di problemi, soprattutto troppo inconsistente (ma che ne sa lei, di consistenza e inconsistenza), e gli avrebbe detto addio. Per lettera.
Ma forse, a pensarci bene, non è che non sia capace di riflettere; anche questo, sì, in un certo senso; ma soprattutto non riesce a immaginare il futuro, non riesce a immaginare che il presente possa diventare irrilevante, possa modificarsi; è prigioniera del presente, lo prende terribilmente sul serio, ad ogni stimolo una reazione: immediata, definitiva; e, per il rispetto che si deve, eterna.
È debole e orribilmente ricattabile. Basta farle pesare un po’ di sofferenza, un po’ di amore, un debito minimo, che lei si sente subito in colpa; insisti un po’ e farà esattamente quello che vuoi; insisti un po’ e vedrai che la leghi ben stretta; poi, quando non ce la fa più e scalpita, tutti trovano che è volubile e egoista.
Il ragazzo straniero le ha scritto tutti i giorni per sei mesi. Nelle lettere le diceva quanto stava male e che non riusciva a respirare e il medico aveva detto che era psicosomatico. Le diceva anche tutto quello che stava facendo per iscriverla all’università, trovare un appartamento eccetera. Ora lui è qua e lei è orrendamente a disagio ma non può assolutamente ammetterlo perché non è la reazione corretta.
Poi è anche vero che lei è giovane, malleabile, sventata, pronta a cavare dal presente quel che si può. Pian piano il disagio si allenta, diventa sopportabile, anzi a tratti non lo avverte nemmeno più.
La vigilia di Natale vanno a fare un giro in città. La città è bella: scura, illuminata, luccicante. Dove sta lui di città così belle non ce ne sono. Lui la prende un po’ come se gli fosse dovuta.
Per uno che non riusciva a respirare si è rimesso piuttosto bene: è deciso, sa quello che vuole, si incazza se non lo ottiene. Ad esempio ha deciso che offrirà ai genitori di lei un cesto natalizio e cesto natalizio dev’essere. Lei non capisce nemmeno bene cos’è. Loro non si fanno manco i regali per Natale, figuriamoci i cesti. Però bisogna andare dal cestaio e fare il giro dei negozi di alimentari del centro e cercare esattamente quel che vuole e fare una cosa proprio come lui se la immagina. Lui si prende ridicolmente sul serio – forse perché è uno che fa le cose sul serio; lei lo sfotte un po’ per questo – forse perché lei in fondo non fa mai niente sul serio. In seguito lui la odierà per le sfottiture e lei lo odierà perché lui gliele farà pagare care. Per il momento però lui ha abbastanza buon gioco perché sa con precisione quello che vuole: vuole portarsela là nel suo paese. Lei invece non sa affatto quello che vuole, è completamente disorientata, la realtà è una matassa che non riesce a districare, è perfino incapace di trovare una via e un numero civico, figuriamoci le linee direttrici di un’esistenza. A dir la verità c’è una cosa che vuole assolutamente e sa di volere, ed è scrivere un romanzo; ma lo rimanda a più in là nella vita perché non ha idea di cosa metterci dentro.
Fra Natale e Capodanno fanno i soliti giri, questi succedanei striminziti del Grand Tour: Bologna, Firenze, Venezia. Andata e ritorno in giornata. Quando vanno a Bologna il treno è talmente stipato che fino a Modena viaggiano in una specie di vagone spedizioni dove c’è anche un maiale in gabbia. A Venezia vanno al consolato del paese straniero a far vidimare dei documenti che serviranno alla sua inscrizione all’università straniera. Lui ha preso in mano la situazione; lei lascia fare, stupita che queste cose si facciano realmente, che siano fatte, che accadano. Allo stesso tempo ognuno di questi passi la porta più vicina all’università straniera, senza che lei abbia detto veramente di sì. Anzi sul momento, la prima volta che la cosa era saltata fuori, le era parsa un’enormità.
Di nuovo la fa ridere perché la cosa che gli sta veramente a cuore, a Venezia, è mangiare in un ristorante tipico. Non corrisponde alla sua idea di cultura, che è austera. Però ammira la naturalezza con cui lui entra nei ristoranti, ordina, consuma e paga. Lei al ristorante ci è andata pochissimo, e mai con la famiglia; i camerieri le fanno soggezione, quasi quasi si alzerebbe in piedi quando arrivano; inoltre fino all’ultimo ha il terrore di non avere abbastanza soldi.
Lei ha già la patente, lui no. Vanno un po’ in giro con la vecchia millecento di suo padre, il pomeriggio o la sera. Si vede che lui è abituato in un mondo in cui i figli fanno abbastanza quello che gli pare e nessuno gli chiede conto, molto diverso da qui. Però lui si intende che le cose debbano andare come è abituato lui e di nuovo lei è grandemente a disagio e ci sono alcune scene spiacevoli fra lei e i suoi genitori.
Una volta – sono in macchina per un giro panoramico sulle colline – litigano di brutto. Lui insiste perché lei si trasferisca su da lui, si iscriva all’università là eccetera. Ha preparato tutto e non vede alcun problema. Lei dice chiaramente che è una roba da matti e che non se la sente. Lui la mette come se lei si fosse rimangiata la parola e le ingiunge di portarlo immediatamente alla stazione. Lei lo prega di non partire; striscia quasi, finché lui magnanimamente rinuncia alla rottura e alla partenza. Subito dopo lei se ne pente. Si chiede perché non ce lo ha portato alla stazione, visto che voleva partire. Non sa se lo ha fatto perché tiene a lui o perché ha paura della figura che farebbe; perché ormai si sente tenuta a un certo comportamento. Comunque sospetta che non sarebbe partito, sospetta che fosse tutta una finta.
Se la ragazza fosse un po’ meno ingenua, un po’ più abituata a riflettere, un po’ più consapevole di certi meccanismi neanche tanto nascosti, fiuterebbe il ricatto, si farebbe diffidente e remerebbe al largo finché ha una possibilità di manovra. Perché più tardi, quando è andata a finire che lei è su nel paese straniero e lui ha il coltello dalla parte del manico, allora le fa vedere i sorci verdi col suo sistema del ricatto.
Alla fine delle vacanze di Natale, subito dopo Capodanno, il ragazzo riparte. Sono praticamente d’accordo che lei lo seguirà qualche giorno dopo.
Lei prova a dirlo in famiglia, prova a chiederlo. Sua madre non prende nemmeno in considerazione la possibilità, suo padre invece le fa una scenata tremenda in sala da pranzo. Si vede che finalmente è sbottato, si vede che finalmente dice la sua dopo essersi dovuto sopportare la presenza di quel tizio che non si capiva bene cosa ci facesse lì; si vede che se fosse stato per lui non lo avrebbe certo tollerato; si vede che il tizio ha potuto soggiornare nella casa soltanto in virtù di una certa eccentricità della madre, di una sua visione un po’ barocca delle convenienze, di un suo mettere il cuore prima delle regole – sempre che le regole vengano poi rispettate, si capisce. Suo padre la investe con una violenza che esplode raramente in lui, che esplode in lui quando non ne può più, quando ha l’impressione che le cose vadano veramente oltre. Lei sta in un angolo e piange come una vite tagliata, piange e singhiozza orribilmente, orribilmente consapevole che suo padre ha ragione, consapevole che tutto il tempo lo ha offeso e lo sta offendendo, consapevole della propria abiezione e in qualche oscuro modo consapevole della necessità di questa abiezione. “Cosa vuoi da noi?” urla suo padre, “Ma cosa vuoi da noi?” urla ancora. Giusto, giustissimo, corretto, non può che essere d’accordo. Cosa vuole da loro? Hanno accolto in casa questo tizio che viene da lontano e si scopa la loro figlia, cosa che loro non sanno ma potrebbero benissimo immaginare; cosa vuole ancora da loro? Niente, corretto, non può volere niente.
Così un pomeriggio parte di nascosto – senza autorizzazione, senza benedizione, e ovviamente senza soldi.
Durante quelle vacanze di Natale una volta vanno al cinema. Non sa proprio cosa ci siano andati a fare, dal momento che lui non sa la lingua e quindi non capisce niente. E infatti a metà film si stufa e vuole uscire, vuole che se ne vadano. A lei dispiace un po’ perché il film le piaceva, ma se lui vuole andare bisogna andare, non c’è niente da fare. Vanno in un locale in cui lei non è mai stata perché non va mai in città di sera. Effettivamente, nell’arretratezza generale della provincia bisogna dire che lei è particolarmente arretrata. Sono seduti uno di fianco all’altra su divanetti bassi e bevono qualcosa e lui dice c’è una cosa che mi piace moltissimo di te e sfiora col dito lo zigomo o meglio una specie di gonfiore dolce fra la palpebra e lo zigomo. Più avanti lei si guarda qualche volta nello specchio, di profilo, ed è vero, c’è questo gonfiore così dolce e lei prima non lo sapeva.
Le racconta che, da ragazzino, si era messo in testa che voleva sposare una giapponese. Lei crede che sia per questo che le piace: per la follia ragionata, pianificatrice; per il senso del possesso: ancora adesso non può che provare ammirazione per il modo in cui, mezza giornata dopo averla conosciuta, dichiara a quelli del suo gruppo che da questo momento lei viene con lui.
In un suo modo egoistico (ce n’è un altro?) lui l’ha amata e continuerà ad amarla sinceramente, profondamente. Ma cosa vuol dire? Soltanto che ha bisogno di lei, non vuol dire altro.
Quando nel paese straniero lei faticosamente si metterà sulle sue gambe, e sarà indipendente, e non sarà più ricattabile, quando sarà stufa di vedere i sorci verdi e finalmente lo pianterà, lui soffrirà moltissimo.
La opposizione tra le due educazioni dei due giovani è la sostanza del racconto, la famiglia ha protetto lei facendola sviluppare entro le convenienze e timorosa di contraddire in genere: eppure – pianti a parte – lei ha seguito, obbedendo a un altro, anche una sua quasi inconsapevole voglia di uscire dalla famiglia.
Il ragazzo invece è stato educato a volere e realizzare – sarebbe la famosa “libertà” – ma ha problemi “psicosomatici” iniziali e una vera sofferenza dell’io, ferito dall’indipendenza di lei, alla fine del racconto e della storia.
La morale che io ne ho tratto è che la nostra provinciale e familiare educazione vince formando anticipatamente personalità (forse solo femminili?) complesse, timorose in quanto consapevoli, consapevoli soprattutto dei vari contesti di appartenenza, dal più vicino in poi. Personalità che si svilupperanno in autonomia solo quando contemporaneamente padroneggeranno a sufficienza i contesti.
Due culture. Lungo periodo e maturazione. Dall’altra parte padronaggio e azione con fragilità personale.
Nel caso specifico vince lei, uno a zero.
Grazie dell’interpretazione Cristiana, a questa angolatura non avevo pensato ma non posso dire che non torni tutto.
Sull’educazione: la nostra “provinciale e familiare” (e religiosa, e scolastica) proteggeva molto, dava sicurezza, ma non si può certo dire che educasse alla libertà. All’epoca, personalmente questa educazione alla libertà non l’ho incontrata – forse perché il contesto era veramente provinciale.
Dall’altra parte, cioè al nord, – e a prescindere dal caso specifico – li ho trovati molto più liberi e consapevoli; il che vuol dire meno protetti, meno sottoposti a tutele e tutori, dunque eventualmente anche più fragili.
Ma adesso, come il cappuccino è diventato un’ovvietà fino al circolo polare, così mi pare che anche la pedagogia pratica si omogeneizzi sempre di più.
Certo che come educazione alla libertà segue un cammino un po’ perverso. Perinde ac cadaver, hai presente?, deve essere sceso per li rami nella educazione familiare. Eppure i Gesuiti e il papa nero di potere ne hanno.
Quello che tu hai messo in risalto più che mai è l’adesione passiva della ragazza, che però non sa dire mai no. Prima alla famiglia, poi al moroso, tuttavia cambiare fonte di autorità è un bel passaggio: quindi non è una sola, allora sono io che scelgo, sempre più, e “faticosamente si metterà sulle sue gambe”.
E chi la ferma più, una così?
E poi, bellissimo titolo un po’ ossimorico, se è un natale non è un intermezzo!
molto bello il racconto di Elena, che illumina su un periodo che è stato di importanza cruciale per la vita di molte ragazze di allora. Mi ha colpito anche perchè posso dire di aver vissuto un’esperienza analoga a quella della giovane sprovveduta e disorientata descritta durante l’intermezzo di Natale del 1974- intermezzo forse perchè si puo’ immaginare il prima e il dopo come qualcosa di corposo e stravolgente, in grado di cambiare il corso delle vite- Il non detto è sorprendentemente complesso, secondo me e non c’era solo il desiderio di scardinare rapporti familiari troppo vincolanti, c’erano in nuce delle scelte precise, anche di ordine politico, se vuoi, senza sottovalutare la portata emotiva dei sentimenti..Per me l’esperienza si riassunse in un paio di incontri importanti, nella luce illuminante (o accecante) della piena giovinezza e poi solo lettere a distanza, ma allora per me fu un fatto enorme…che, d’altra parte, davanti alla cruda realtà, si vanifico’ come neve al sole. Ma non l’atto di coraggio che resto’ ad agire dentro, con molte ricadute e ritorni, comunque una scelta portata avanti nel tempo di apertura verso “l’altro” culturalmente, socialmente, geograficamente…Il movimento del ’68 era da poco alle spalle e, anche se non partecipato, aveva agito come un sasso lanciato in uno stagno a disegnare cerchi concentrici in uno spazio indefinito…grazie
“Il movimento del ’68 era da poco alle spalle e, anche se non partecipato, aveva agito come un sasso lanciato in uno stagno a disegnare cerchi concentrici in uno spazio indefinito…” (A.L.)
Sì, questo è l’orizzonte, questi “cerchi concentrici” inarrestabili di libertà che creano conflitti dolorosi e lunghi da risolvere sia nella coscienza del singolo che nei suoi rapporti con la famiglia e il resto della società. Soprattutto se il “resto della società” è provinciale e perfino rurale. Perché ricordiamoci che la “campagna” non è soltanto un luogo di (più o meno) intatta natura, ma anche un luogo di profonda stupidità (lo vide già Leopardi, mi pare, contro gli idilli rousseauiani).
Grazie a te Annamaria per il commento che apre a un momento condiviso e plurale: “un periodo che è stato di importanza cruciale per la vita di molte ragazze di allora” (A.L.)
SPUNTI/ACCOSTAMENTI/ MEMENTO
«Scrivevo ad una mia amica che fossimo andati più in provincia invece che rimanere sempre a Milano o nell’hinterland; ed avessimo guardato di più la televisione…»
( Dalla Lettera di Piero Del Giudice a Franco Fortini: https://www.poliscritture.it/2018/11/02/militanze-fortini-del-giudice/)