di Elena Grammann
Ann Cotten è una poetessa e prosatrice di lingua tedesca, nata nel 1982 a Ames, Iowa, e trasferitasi all’età di cinque anni a Vienna con la famiglia. Attualmente vive fra Vienna e Berlino. Benché il tedesco sia la lingua base della sua produzione, il bilinguismo la porta verso più marcate commistioni, che si allargano anche al giapponese sia per un interesse per la cultura nipponica che per le caratteristiche semiotiche di questa lingua.
Nel 2007 pubblica la sua prima raccolta poetica: Fremdwörterbuchsonette [letteralmente: Sonetti del dizionario delle parole di origine straniera] con Suhrkamp, una delle più importanti e titolate case editrici tedesche. Qualche chiarimento su titolo e struttura della raccolta:
Fremdwort. Un Fremdwort è una parola entrata nella lingua e normalmente germanizzata, ma di origine straniera: greca, latina, più di recente inglese. Ci sono Fremdwörter di uso comune, ad esempio ‘Plastik‘, ma perlopiù essi appartengono al registro colto e/o a linguaggi scientifici, specialistici, tecnici (es. loxodrom, Kontingenz).
Sonetti. Quando mi è arrivata la raccolta e l’ho aperta ci sono rimasta male perché mi aspettavo dei sonetti e non ne vedevo nemmeno uno. In realtà non si tratta veramente di sonetti ma di quelle che Cotten chiama, con una certa libertà mi pare, “sonettesse”, cioè, da definizione, sonetti caudati la cui “coda” si ripete. Ma mentre nel sonetto caudato la coda, ripetibile ad libitum, è una strofetta composta da un settenario più due endecasillabi, le sonettesse di Cotten sono di fatto dei doppi sonetti: cioè a una prima struttura 4-4-6 ne segue un’altra identica (quindi: 4-4-6-4-4-6), o speculare (4-4-6-6-4-4). (Quasi) tutti i settantotto componimenti della raccolta sono doppi, talvolta tripli sonetti.
Struttura. Se si dà un’occhiata all’indice, si vedrà che non riporta i numeri delle pagine (che in effetti non sono numerate) ma i numeri dei sonetti, raggruppati a due a due sulla base del Fremdwort da cui prendono spunto. L’indice, cioè, è costituito da un elenco di Fremdwörter ai quali sono associate coppie di sonetti simmetricamente distribuite attorno a un centro ideale costituito dai sonetti contigui 39-40. I sonetti 33 e 46, sotto, sono una di queste coppie.
Complicato – e costruito. Costruzione e complicazione sembrano presiedere anche alla composizione dei singoli testi – come viene rilevato con un misto di riconoscimento per la versatilità tecnica e rampogna per presunta latitanza dei contenuti. Ma di questo dirò dopo i sonetti.
69 An Induktion To The Blues It’a a very attractive little device that combines a frequency follower with a device that puts out harmony notes to what you’re playing … Its main drawback is that the tone that comes out of it is somewhat like a Farfisa organ. Frank Zappa on the Electro Wagnerian Emancipator Se ne stava coi gomiti piantati vicino al piatto dello stereo e io mi sentivo tremendamente analoga, così in balìa e inerme come un cilindro fonografico, impressivamente riavvolgendomi. Naufragando on the dancefloor, coliambica nelle percussioni alcaiche. Alcaiche?! Non ero preparata, qui, a dei bassi così sottili! E ancora non avevo buttato un occhio alla console, sobbalzando poi al broncio anacreontico. Mi percorse le vene furiosa la sua vista. Tese l’orecchio il battito cardiaco e non si peritò di stendermi come un corto travolta sulla pista. Il vinile si scioglieva come liquirizia. Rigata ancora di spavento mi trascinai al bordo di quel solco. Rimasi a portata di suono. La mia volontà batteva piano. Al piatto, stentava a tener gli occhi aperti e per due volte per poco non cadde lui o rovesciò la birra, e quando passava da un brano all’altro suonava come un dormiveglia a cui si cerca di resistere. (Probabile che lavorasse durante la giornata a un Numero Verde e udisse voci sussurrargli odi attraverso le linee, che il cranio sbattesse contro le istanze dei clienti.) E dopo un altro paio di ore toste, l’aria nel locale è già densa per le odi il mio genio stremato mette su l’ultimo disco e si siede di fianco a me. Cortesemente la sua testa cerca un dialogo, tutto il mio scritto è imbrattato dal suo ciuffo, si mette a parlare in sogno, ma dialetto.
63 Vertiginosi indizi Informazioni sbagliate. Scivola il cappello dalla testa senza sonoro. Con quello avrei dovuto assomigliare, senza assomiglio come una scema a Pete Doherty, barcollo per sale cinematografiche come un clone del cinema. Ciò che vidi è da tempo sci- volato via, e per i titoli di coda ero di nuovo lì; a destra e a manca parlano di cliché e roba del genere, io mi attacco alla birra del buffet, quella è gratis. Ah! Ora che ci penso, ho dimenticato il tampax. Finisco di leggere l’articolo e vado al cesso e appoggio la birra vicino allo specchio. È un po’ che non mi aspetto miglioramenti dalle memorie. La memoria è la morte della sorpresa. E io non mi riconosco. Oh, un effetto della moda. Ci son passata da un pezzo, non mi fa né caldo né freddo affondarmi bevendo, e scrivendo, la faccia. Son poi sempre io e mi avvito storta, alla desperado, nella filettatura dello squagliarsi. Del non essere all’altezza. Motti di spirito da me d’ora in poi li avrà soltanto chi ne fa richiesta scritta. Esco poco, mi frammento parlando con me stessa, divido il letto solo più coi libri. Con i gilet di maglia ostento disprezzo per i cineasti, spruzzo contraddittoriamente marcature in forma di commento da birra. Si meraviglino pure. Al cinema ci van sempre gli stessi, escon fuori e han tutti le nappine.
33 Estensione, Estasi Clic. Esso dove cominciò a ruotare indicò così lungo le rive il fiume. Anorganicamente luminescente, infuriare soltanto in superficie dove infuriava e irraggiungibilmente stridulo ruotava e la luce si polverizzò, schizzò, e perciò – e adesso voglio ridere – refrigerio offrì alle rive, amorevole e chiara. E così iniziando dagli occhi, bocca, ah, capisce niente, in essa si trovano capelli e lottano con lingue per l’attenzione degli sguardi, iniziando, ricercando sguardi? Niente di tutto ciò. Se il punto è: per mezzo di estensione ottenere estasi, deve stare ogni frase e contemplare, espandersi orizzonte e divenire suolo per selvaggi pensieri di espansione a piccole avviticchiati pietre per esempio bianche. Trova poi l’occhio da ruminare nel rispecchiamento, in riflessi di luce che su superfici si scatenano e dicono ciò che mai lingue muoveranno a ripetere. Allora, polmoni, immobilizzatevi e guardate, come le conseguenze vanno alla testa del vostro, be’, cliente. Come ansimano le cellule grigie dietro alle corrispondenze che visitano qui le vostre rime e cercano stimoli. Ehi, volete fare qualcosa? E allora, polmoni, respirate acqua lucente!
46 Estensione, Possesso Il tuo nome si allarga e pensare che un tempo era Cioè cosa? Ancora l’altro giorno eri per me parola straniera. Ora quasi parola non vedo senza che tu stia per tutto ciò che mi manca, e nessun riso si spegne che non mi tenda tu un agguato al fondo; la rima evapora, la misura del verso non torna ed eccoti lì, inghirlandato di foglie e sonetti spazzatura, e, bizzarro volatile, fa una riverenza il tuo concetto e fugge. Di te resta l’immagine dello scomparire da cantarmi in versi dietro la tua schiena, forse la cosa tua più bella in assoluto, o piuttosto l’unica che mi resta da celebrare giacché, scomparso tu, il nome tuo p.t. nient’affatto oltre le labbra – per iscritto? Mai! Eppure: nei lemmi stranieri cerco soltanto il tuo parlare, la tua schiena, che sarebbe indennizzo a ogni parola. Ma invece del silenzio mi tocca un blaterare torbido, abbandonare la speranza, tentare versi mediocri, questo sommesso costante soppesare singole parole, la cosa più prossima, per me, al tuo silenzio. E mi fa da modello la tua schiena p.t. per tutto ciò che balugina come costrutto ideale. Se mi frantumi il mondo in cui io vivo, mi rimane il tuo nome in ogni caso e amo il suono, che, forestierante, da qualche dove giunge, e ride in faccia ai tentativi. Una paroletta straniera basta a richiamarti nei miei versi, ed è pur vero che la tua non spiega nulla, ma promette molto. * *p.t. = praemisso titulo. Formula usata soprattutto in Austria davanti a nomi specialmente collettivi di persone (es. 'pubblico') delle quali non si è in grado di specificare il titolo. L'uso qui è chiaramente ironico. Poiché in tedesco gli aggettivi in posizione predicativa non si accordano, non è dato sapere il genere della persona a cui si rivolge questo sonetto. Ho seguito la consuetudine e ho optato per il maschile. Ma non è detto. Qui, cliccando su ‘Übersetzungen: englisch’ una versione inglese – molto libera, di fatto una riscrittura – fornita dall’autrice stessa. Si può anche sentire la lettura del testo originale dalla voce di Ann Cotten. (NdT)
Da un esame sommario del materiale, non abbondantissimo, che si può trovare in rete su Ann Cotten e in particolare sui Fremdwörterbuchsonette, emerge una divisione abbastanza netta fra le valutazioni tiepide o benevolmente paternalistiche da parte della stampa ufficiale (FAZ, Die Zeit) e l’entusiasmo dei giovani intellettuali e soprattutto della scena dei poetry slam. Ciò che l’ufficialità eccepisce o comunque sottolinea è una mancanza di serietà. Dei Sonetti viene rilevato il carattere di gioco – gioco con le costrizioni della forma fissa, gioco delle libere associazioni a partire dalla trovata stravagante delle parole straniere. I più benevoli avanzano paragoni poetici: la tenda del circo, gli acrobati, la danza su un puro ritmo. Una venticinquenne Ann Cotten, un po’ impacciata ancorché si subodori il carattere deciso (qui una breve conversazione, con lettura dei sonetti 63 e 69), non nega e anzi rincara: a proposito del progetto complessivo – dunque non solo la forma fissa del sonetto, ma l’intera costruzione della raccolta – parla di Denkmaschine: macchina per pensare, come se da un pensiero spontaneo, diciamo libero, non ci si potesse più aspettare gran che (libero e spontaneo – specifichiamo a scanso di equivoci – nel senso di ‘naturale’; ma l’artificio, il “corsetto del sonetto” o di altro dispositivo, è del tutto estraneo a supposti interessi collettivi). Viene svelato anche l’arcano dei Fremdwōrter, delle parole straniere – bizzarra fonte di ispirazione dalla connotazione iperculturale e vagamente pedante. Il motivo, viene spiegato nella breve conversazione, è che le parole straniere sono un po’ come corpi estranei nella lingua, non sono cariche di associazioni come le altre, le quali altre proprio per questo appaiono usurate e inservibili. Le parole straniere sono precisamente una sfida a cercare associazioni impensate – impensate perché a nessuno verrebbe in mente di cercarne, ad esempio, a ‘lossodromico’ (che è il primo lemma della raccolta), e in generale a termini, come si diceva nell’introduzione, sostanzialmente scientifici o tecnici. Una sfida a trovare associazioni e approdare così a sentieri imbattuti della lingua-mente. Dove mi porta salpare da una parola, il cui significato devo spesso cercare o controllare sul dizionario? Da quali nuove angolature mi mostra le cose? Cosa mi dice, eventualmente, di me e dell’altro? È chiaro che questo tipo di approccio presuppone la subordinazione del soggetto immaginante a una rete di immaginari che esiste e si sviluppa in modo indipendente dall’individuo; la stessa subordinazione o, se si vuole, cambio di prospettiva, che nei sonetti di Cotten sposta il focus della visione dal soggetto e dal fatto a circostanze concomitanti, a derive, tipiche Cotten, in cui la parola (es. il solco del disco in An Induktion To The Blues) prende corpo e ingigantisce la sua essenza metaforica fino a inglobare la realtà del soggetto: “Rigata ancora di spavento / mi trascinai al bordo di quel solco”; o Estensione, Estasi, dove ai polmoni viene chiesto, per corrispondere alla richiesta di estasi, di respirare acqua lucente. L’immaginario di Ann Cotten è la metaforicità della lingua, presa sul serio e indagata in spazi non ancora logorati dall’uso. È questo che i recensenti ufficiali chiamano ‘gioco’, magari sotto la tenda poetica del circo, e che scatena invece l’entusiasmo del pubblico dei poetry slam. Sicuramente una parte di gioco c’è, ma è un gioco serio perché individua la potenza del linguaggio e del suo immaginario, e il dominio che esso esercita su soggetti che l’abbaglio di una certa tradizione vorrebbe continuare a rappresentarci come istanze di giudizio indipendente.
La Ann Cotten dei Sonetti è una poetessa venticinquenne: molto giovane benché provvista di rimarchevole autocoscienza. Nei prossimi post vorrei seguire il suo sviluppo.
Ann Cotten, Fremdwörterbuchsonette, Suhrkamp 2007
no-te-vo-lissimo !
Grazie, Dario. Apprezzo molto.
Nelle 8 poesie ho notato che i concetti astratti e scientifici, di lingue di origine straniera, li usa anche per rintracciare collegamenti corpo-emozioni-mente, esplorando i propri processi elementari percettivi e propriocettivi. Elena Grammann conclude la lettura di Ann Cotten con “provvista di rimarchevole autocoscienza”, la parola contiene anche le proprietà percettive e autopercettive.
Per esempio: in “induzione”: la musica (che infatti i Talebani respingono e addirittura proibiscono!) è collegata al suo vedere il corpo del cantante. Come egli fisicamente si muove (“Probabile che lavorasse durante la giornata/a un Numero Verde e udisse voci/sussurrargli odi attraverso le linee” … “tutto il mio scritto è imbrattato dal suo ciuffo,/ si mette a parlare in sogno, ma dialetto.”) si collega ai moti emotivi che echeggiano col mondo emozionale di lei che ascolta.
Ai critici spiega che “La memoria è la morte della sorpresa. E io non mi riconosco”, la memoria è senz’altro insufficiente all’autoesplorazione. E intima: “Motti di spirito da me d’ora in poi li avrà soltanto chi ne fa richiesta scritta”. Assumendosi il compito di riconoscere il lavoro che lei seriamente fa?
trovo le poesie di Ann Cotten molto costruite e raffinate, anche per l’inserimento di parole straniere, tuttavia, alla semplice lettura, si dispiegano in un linguaggio disinvolto e, spesso, colloquiale…I versi, ben misurati, rappresentano l’immagine molto concreta -vista l’immersione globale dell’autrice nel corpo, nei corpi, che spesso interpella come entità autonome: gli occhi, i polmoni, la bocca, la schiena o gli oggetti…- di una ragazza disinibita, vuoi complessata, che si lancia a capofitto nelle attività ludiche dei coetanei…amori e corteggiamenti inclusi. Tuttavia ricca di una grande consapevolezza nel sentire… Una poesia come un susseguirsi di veloci istantanee visive, sonore, calate nel centro…Bella la presentazione! Grazie Elena
@ Cristiana e Annamaria
Ho cercato di riflettere sul coinvolgimento del corpo, al quale fate riferimento entrambe e che io avevo invece trascurato, quindi grazie di averlo rilevato. Mi chiedo anche perché non vi avessi fatto attenzione, dal momento che è veramente molto presente – a volte in modo quasi fastidioso. Certo, ognuno segue la propria pista privilegiata, e la mia era rendere conto dell’impressione di un discorso poetico che sembra svilupparsi “a mezz’aria” fra le cose – oggetti, ma anche sentimenti – e la lingua, ma come aspirato potentemente verso quest’ultima. Un motivo potrebbe però essere anche quello che osserva Annamaria, e cioè che il corpo appare quasi smembrato in “entità autonome: gli occhi, i polmoni, la bocca, la schiena” su cui si appunta l’occhio di una coscienza parimenti poco unitaria. Il tutto non proprio organico, piuttosto antinaturalistico. Sembrerebbe che l’io che parla non si prenda troppo sul serio come fenomeno (come rifiuterebbe, credo, di prendere sul serio anche solo per un attimo i talebani) e abbia bisogno di queste “parole straniere” (cilindro fonografico, percussioni alcaiche, la “paroletta straniera”) per legarsi a qualcosa. Ma la mia è poco più di un’impressione, e non smentisce la presenza concreta del corpo che andrebbe meglio indagata, come le modalità della percezione e dell’autopercezione.
C’è anche da tenere presente che questa “opera prima” non è del tutto omogenea, ci sono a mio parere poesie più giovanili (“Vertiginosi indizi” mi pare una poesia tutto sommato giovanile) e altre più sofisticate e consapevoli. Volevo aggiungere qui la traduzione di un altro sonetto che mi sembra interessante dai punti di vista sollevati, ma non ce l’ho fatta a finirla. Se riesco la metto domani.
Le “entità autonome: gli occhi, i polmoni, la bocca, la schiena” in cui il corpo appare smembrato non risponde forse alle parole di origine straniera, ognuna delle quali è “autonoma” produzione metaforica per la lingua?
“questo sommesso costante soppesare singole parole,/la cosa più prossima, per me, al tuo silenzio./E mi fa da modello la tua schiena p.t./per tutto ciò che balugina come costrutto ideale.” La schiena (scudo?)-scomparire-indennizzo-modello. Tutta la poesia ricama su comporre una interezza e il “sommesso costante soppesare singole parole/la cosa più prossima, per me, al tuo silenzio.”
Del resto anche nella precedente *estensione* occhi e bocca cercano l’attenzione degli sguardi? Niente affatto, ma estasi, “selvaggi pensieri di espansione” avviticchiati a piccole pietre (le parole?) beispielsweise weisse (la ripetizione weise-weisse allude forse alla grossezza necessaria della lingua?) per esempio bianche. Un analogo richiamo in Spiegelung collega però gli occhi a “riflessi di luce che su superfici si scatenano/e dicono ciò che mai lingue muoveranno/a ripetere”, e quindi “ansimano le cellule grigie dietro alle/
corrispondenze che visitano qui le vostre rime/e cercano stimoli.” Di nuovo: alla considerazione localizzata del corpo corrisponde una inevitabilmente necessaria sfrangiatura dello scrivere. Intera è la luce, l’acqua, i riflessi…
Vedo la prospettiva e ti do ragione. Ti ringrazio anche per l’esame attento e illuminante. Io non sono poeta e me ne accorgo.
Mi piacerebbe riprendere il discorso, magari in un breve post. Mo’ rifletto e vedo.
Grazie Cristiana
Per ora plaudo, ma come Te, Elena, “vorrei seguire il suo sviluppo”.
Quanto all’affermazione “la memoria è la morte della sorpresa” non mi sorprende affatto. La memoria tutto sommato è un giuoco, anche circense… per tutta una vita o esistenza.
qQ
a. s.
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dal :
” Il verdetto oppose un forse al tribunale della memoria” (1971)
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Il Nulla (si) deturpò (per) eventi rari e oscure sinergie.
Dal capezzale al sudario, come un prodigio inattuale,
fu esonerata la memoria della sua corteccia.
Sui marmi una nidiata di cervelli e di rancidi malleoli.
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Ma oblio e memoria non sono le ultime parole!
Perché siete contro natura!
Perché – più di voi, poveri topi! – il Poeta
conosce e disconosce gli dei
e finge, perché sa, che è un aborto benedetto
la risata – dei Dèmoni!
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Sia lasciato alla memoria ciò che non ricordo,
è già al termine l’inizio di una carnale storia.
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UN ECO CHE NON RITORNA NON HA MEMORIA : è OBLIO!
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Perché disturbiamo la memoria del futuro?
Forse perché la verità ci ha preceduti con la menzogna
o forse perché le congetture sul presente non sono umane.
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Come la memoria che non era più alla mia lingua che un ricordo di una altra lingua.
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al 2020
Grazie, Antonio. L’approvazione, anche solo sub condicione, di un poeta vuol dir qualcosa.
E grazie per la poesia. Tocca in me corde sensibili. Valore e limite della memoria è un tema che attualmente mi prende. Probabile sopravvalutazione della memoria. Rimango legata all’autobiografismo (definitivamente?) ma mi è diventato sospetto.
“la verità ci ha preceduti con la menzogna” – ci dibattiamo sempre lì, e il ricorso alla memoria diventa dubbio…
Grazie
” Sembrerebbe che l’io che parla non si prenda troppo sul serio come fenomeno (come rifiuterebbe, credo, di prendere sul serio anche solo per un attimo i talebani) ” (Grammann)
Mi colpisce questo accenno di Elena all’io in crisi e ai talibani in un discorso sulla poesia di Ann Cotten, che a me pare attenta a una quotidianità tutta metropolitana (e occidentale) e al gioco (serio senz’altro) possibile con il linguaggio poetico.
Lo noto non per tornare a polemizzare su un tema storico e politico che ci divide, ma solo per riaffacciare in una riflessione sulla poesia una mia vecchia ipotesi (ovviamente “moralistica”): quell’io poetico *non può* prendersi sul serio proprio perché rimuove la storia, le guerre e gli orrori commessi dai talibani ( e da quelli che li combattono). Soltanto un io/noi o un noi può cominciare o ricominciare a *prendere sul serio* quel rimosso (che alcuni insistono a chiamare storia), a indagarlo, a riproporre la questione della sua relazione con il quotidiano, i corpi, il linguaggio, ecc .
@Ennio: A me pare che la giovan(issima) Ann Cotten segua un’altra necessità, sarebbe come… dotarsi di artigli e finezze mentali più affilate per combattere efficacemente dalla nostra cultura. Non tanto indagare criticamente il contrappeso al dominio che abbiamo (storicamente) esercitato fin sul mondo intero, quanto ricostituire una soggettività umana impigrita, accomodata nei suoi passati domini.
@ Ennio
Come dicevo l’altro giorno in calce a “La bisaccia del diavolo”, ogni interpretazione sufficientemente fondata sul testo è lecita. Più che lecita dunque, oltre che interessante, la tua osservazione (e chissà, magari qualche parte di me voleva dire proprio quello, in fin dei conti le parole hanno una loro autonomia, superiore a quella del soggetto).
Tuttavia, poiché nel caso presente l’autore – cioè io – è ancora vivente, può precisare la sua intenzione.
– l’accenno ai talebani era una eco alla frase di Cristiana “…la musica (che infatti i Talebani respingono e addirittura proibiscono!)”
– io non ho parlato, e non parlerei, di soggetto “in crisi”. L’espressione “in crisi” rimanda, con implicazione negativa di decadenza, a una situazione precedente in cui il soggetto aveva, o aveva raggiunto, una sua giusta dimensione o modo di essere. Questa però non è la mia prospettiva.
– con la frase “l’io che parla (…) rifiuterebbe, credo, di prendere sul serio anche solo per un attimo i talebani” non intendo qualche tipo di rimozione, speculare a un deprecabile indebolimento dell’io quale invece dovrebbe essere, bensì che per l’io di cui sto parlando i talebani non sono, in nessun senso, una possibilità; al massimo un fatto bruto – come una brutta malattia che ti viene, che sicuramente ha le sue cause, evitabili o inevitabili, ma che in quanto malattia mortale non è una possibilità dell’io, bensì la sua negazione.
@ Cristiana
“ricostituire una soggettività umana impigrita, accomodata nei suoi passati domini” (C.F.)
Prospettiva interessante, da confrontare con gli sviluppi di Ann Cotten.
ann cotten suona bene come dylan thomas…. alla lontana qualche somiglianza
COMMENTO E PROVOCAZIONI
Premesso che non solo i talibani proibiscono la musica (del mondo!), per me il cenno ai talibani può equivalere, sì, anche al rimando a «un fatto bruto – come una brutta malattia che ti viene, che sicuramente ha le sue cause, evitabili o inevitabili, ma che in quanto malattia mortale non è una possibilità dell’io, bensì la sua negazione» (Elena Grammann). E alla storia “malata” d’oggi. Cosa c’è, infatti, di più bruto e che nega ciò che come io (ma anche come io/noi o come “noi[di sinistra o comunista] di una volta”) desideriamo o consideriamo desiderabile?
Quanto a Ann Cotten – «venticinquenne: molto giovane» – inseguendola in quel che resta nei testi qui proposti delle sue immersioni nella musica di Frank Zappa, la vedo – lo dice lei – che se ne sta «in balìa e inerme come un cilindro fonografico» di fronte ai suoi idoli. La vedo impreparata non solo « a dei bassi così sottili» ma a chissà a quali colpi che le arriveranno dalla vita. O barcollare «per sale cinematografiche come un clone», tra gente che non l’attrae («a destra e a manca parlano di cliché e roba del genere» e – per disperazione? – attaccarsi «alla birra del buffet, quella è gratis.Ah!». O, sfacciata e sovrana, abbassare di colpo il tono delle sue poesie «molto costruite e raffinate, anche per l’inserimento di parole straniere» (Locatelli) con riferimenti maliziosi a sue privatissime fisime («Ora che ci penso, ho dimenticato il tampax»; «Finisco di leggere l’articolo e vado al cesso/ e appoggio la birra vicino allo specchio»). Detto all’ingrosso, questa *sta male*: se dichiara il suo (suppongo) «non essere all’altezza», se confessa (ma anche se fingesse la prenderei sul serio):«Esco poco, mi frammento parlando/ con me stessa, divido il letto solo più/ coi libri», se – come nota Elena ha «bisogno di queste “parole straniere” (cilindro fonografico, percussioni alcaiche, la “paroletta straniera”) per legarsi a qualcosa».
E se la poesia non va consumata come un dolce ma presa come un’invocazione profonda, Anna Cotten suscita in me simpatia e distaccata per ora (non la conosco!) preoccupazione per la fragilità del delirio poetico di cui sta soffrendo e godendo.
Ed è evidente che, così giovane, non si aspetti «miglioramenti dalle memorie» o possa baldanzosa e sventata dire: «La memoria è la morte della sorpresa. E io/non mi riconosco». A venticinque anni se lo può permettere.
Ma – e qui passo alle provocazioni – stupisco che Antonio Sagredo se la cavi con un’approvazione accondiscendente: «Quanto all’affermazione “la memoria è la morte della sorpresa” non mi sorprende affatto. La memoria tutto sommato è un giuoco, anche circense… per tutta una vita o esistenza», mi urta. Che Elena Grammann si accodi, pur perplessa: «Valore e limite della memoria è un tema che attualmente mi prende. Probabile sopravvalutazione della memoria. Rimango legata all’autobiografismo (definitivamente?) ma mi è diventato sospetto». E che Cristiana Fischer – cancellando Proust e non solo lui (Canetti, Joseph e Philip Roth e altri e altre che subito non mi vengono in mente) – scriva: «la memoria è senz’altro insufficiente all’autoesplorazione.
Un’ultima obiezione. Sarò fuori moda ma io tutti questi discorsi sul corpo che entrerebbe nella poesia – in blocco o a frammenti – non l’ho mai veramente digeriti o capiti. Dov’è tutta questa «immersione globale dell’autrice nel corpo, nei corpi, che spesso interpella come entità autonome: gli occhi, i polmoni, la bocca, la schiena o gli oggetti…» (Annamaria Locatelli)? Pongo un problema che mi aiuterete a capire: memoria e corpo quando entrano nel linguaggio (poetico) cosa diventano? (Si può partire anche da Dante, eh!)
P.s
Poi a me piacerebbe parlare di poesia senza mai distrarre l’occhio e la mente e il sentire dalla cronaca più bruta. Tipo e a caso: «L’ONU e l’OMS hanno espresso preoccupazione per la situazione umanitaria e sanitaria nel martoriato paese. Secondo stime dell’ACNUR, nei prossimi giorni si prevede circa mezzo milione di profughi che tenteranno di lasciare l’Afghanistan per via terra. Nel comunicato si legge : “Un terzo della popolazione è a rischio fame, una situazione oggettiva che i paesi confinanti devono prendere in considerazione al di là della valutazione politica”. Per l’OMS la situazione è tragica perché molto personale sanitario, soprattutto femminile, è fuggito dal paese, mancano anche le forniture mediche a causa delle precarie condizioni di sicurezza negli aeroporti. Ieri è atterrato a Qandahar un aereo di “Medici senza frontiere” e altri organismi internazionali pensano di usare l’aeroporto di Mazar Sharif, nel nord, per far giungere gli aiuti sanitari»
La poesia di Ann Cotten, comunque la si valuti, non è né un dolce né un’invocazione profonda. Lo dico perché se ti muovi fra queste due categorie rischi di non cogliere il punto.
E parimenti, se ne fai la poesia di un’adolescente fragile in balìa dei suoi idoli che parla di mestruazioni – cioè se ne fai un caso particolare, biografico – non cogli il punto. Con questo: è possibile che il punto non sia interessante – ma tu non lo cogli.
Sulla memoria: precisamente lavorando sulla memoria mi sono venuti dei dubbi sulla sua servibilità per la ricostruzione di se stessi – adesso, cioè un secolo dopo Proust, beninteso per me, e indipendentemente dalla boutade di Ann Cotten. Ripeto: parlo per me.
Sul corpo: il discorso non si può fare in due righe e io non sono nemmeno preparata a farlo; però l’osservazione di Cristiana e Annamaria è corretta: c’è un’insistenza sulla fisicità, un dettagliarla quasi inutile, che Cristiana interpreta come sforzo di ricostituzione, mentre io ci vedevo, almeno in parte, qualcosa come una riduzione a oggetto. E’ come se non fosse più così ovvio di avere un corpo; il proprio corpo e le sue parti danno nell’occhio, e questo mi sembra qualcosa di nuovo, di insolito. Poi chiaramente va interpretato.
“E’ come se non fosse più così ovvio di avere un corpo”, perchè c’è un corpo precostruito, che si mostra, è un avatar del corpo di carne proprio. Per questo insistevo sul lato propriocettivo della poesia, sull’abbinare i sensi (prevale la vista) alle parole.
Quanto alla impressione di Ennio “questa sta male”, proprio nella poesia Vertiginosi Indizi, che raccoglie barcollamenti e storte andature, si rivolge ad alcuni, a critici ho supposto, ai quali esibisce questa sua giovinezza “non all’altezza”. Tuttavia li avverte:
“Motti di spirito da me/d’ora in poi li avrà soltanto chi ne fa/richiesta scritta”. Come dire che il futuro è suo. E per una che si proietta nel futuro la memoria, in effetti, “è la morte della sorpresa”.
Spiegami meglio: l’azione propriocettiva della poesia (percezione del proprio corpo) indicherebbe/promuoverebbe una maggiore consapevolezza del medesimo?
Cos’è il corpo precostituito e in che rapporti è col corpo di carne? Ne permette la conoscibilità?
Niente di che, Elena. L’aspetto, con cui ci presentiamo agli altri, è conformato ad aspettative sociali, è il gestire, l’andatura, la “maschera” del viso espressa dai numerosissimi muscoli facciali, che dicono di certe disposizioni di fondo della persona e insieme dei sensi che attribuisce al suo interagire. Insomma: tu vedi uno, una, e hai subito certe informazioni sociali e, ti piace/non ti piace.
Altra è la sensazione di inermita’ di chi si mostra, sempre in fondo suo malgrado. Quella è più ampia e comporta mediazioni linguistiche, forse quello cui alludeva Ennio chiedendo cosa sarebbe quel corpo in generale di cui dicevamo. È lo stato di apertura, o di attesa, o di intenzione, o di relativa chiusura, (o di rinuncia a esserci con/tra: e caddi come corpo morto cade). Questo stato di consapevolezza ha un versante interno oltre a quello esterno dell’aspetto. E c’è una doppia lingua: quella dello scambio e quella interna che lo accompagna.
La lingua interna, in assenza di scambio, magari in immaginari scambi con soggetti assenti -lontani, morti, costruiti storicamente come i “santi” o altri personaggi simbolici- appartiene alla poesia, insieme al piacere della bellezza e alla presenza del corpo proprio mentre si poetizza.
queste poesie di Ann Cotten pubblicate, come prima raccolta, all’età di 25 anni probabilmente furono composte in età ancora piu’ giovane, e poi riviste. L’autrice, giovanissima, si rapporta spesso alla sua fisicità, ad un corpo, il suo, che stenta a riconoscere, ingombrante, robotico nel suo funzionamento smembrato…Come se a tratti gli organi che presiedono ai sensi, ma anche quelli interni prendessero autonomamente il “controllo” della situazione, sbandando, cosi’ da dover essere sollecitati. In altri momenti la vista estende il suo sentire, davanti alla luminosità del fiume sino all’ “estensione estasi”, oppure davanti alla “schiena” di un lui desiderato sino all’ “estensione possesso”…Fenomeni visivi e psicosomatici che spesso colgono di sorpresa i giovanissimi, i cui corpi subiscono metamorfosi repentine, che stravolgono il senso della propria identità, fino ad allora infantile. Un corpo che imbarazza davanti allo specchio, fa sentire a disagio in una forma nuova, non da se stessi volutamente costruita…La giovane autrice è poi una persona particolarmente sensibile, appartata negli interessi intellettuali, con una storia di bilinguismo alle spalle che la fa identificare con la “paroletta straniera”, da interpretare nel suo mistero…Piu’ che ai critici, secondo me, Ann Cotten si rivolge ai coetanei, da cui desidera essere accolta anche nella sua eccentricità, non derisa, come fanno supporre questi versi: “Motti di spirito da me/ d’ora in poi li avrà/soltanto chi ne fa/richiesta scritta”. Il suo rapporto con la Storia potrà trovare una sua collocazione solo in seguito…
@ Elena
Avevo scritto in generale e non riferito proprio a Anna Cotten: «E se la poesia non va consumata come un dolce ma presa come un’invocazione profonda» e, comunque, non afferro dalla tua risposta quale sia per te «il punto». Se lo indichi, ci ragiono su.
@ Cristiana
Non mi pare automatico che dall’esibizione della « sua giovinezza “non all’altezza”» si possa dedurre che «il futuro è suo». Né che in genere, se si esclude il caso dei futuristi (delle loro dichiarazioni più che delle loro pratiche), quelli che hanno avuto capacità di proiezione nel futuro abbiano fatto a meno della memoria.
@ Annamaria (ma anche a Elena e Cristiana)
D’accordo che « l’autrice, giovanissima, si rapporta spesso alla sua fisicità, ad un corpo, il suo, che stenta a riconoscere, ingombrante, robotico nel suo funzionamento smembrato», ma io ho posto un problema un po’ diverso: « memoria e corpo quando entrano nel linguaggio (poetico) cosa diventano?». Semplificando si può rispondere: vengono – attraverso un linguaggio o vari linguaggi – rappresentati: diventano immagini, subiscono comunque processi di sublimazione, deformazione, astrazione, derealizzazione, spettacolarizzazione, come tutto ciò che indichiamo con il termine “reale” o “realtà”; e questo (anche in Cotten come in altri) ha delle conseguenze che smentiscono i cliché oggi abusati del “corpo che entra in poesia” o in letteratura o in arte, ecc. Detto altrimenti: non è il corpo che entra ma qualche altra cosa.
Per essere precisa: il 27 agosto alle 12.56 ho riportato il verso (tradotto) di Ann Cotten: “La memoria è la morte della sorpresa”, correlando memoria a sorpresa. Ho quindi sottolineato che la memoria è *insufficiente* all’autoesplorazione, che non implica cancellare il lavoro di Proust Canetti&co, cioè “fare a meno” della memoria.
Il futuro è suo, lo ho affermato perchè ho letto la poesia come rivolta a quelli che “Si meraviglino pure.” Quelli che, nella mia lettura, la assumono come non all’altezza. E’ una interpretazione, del tutto diversa da quella di Annamaria che legge invece la poesia come rivolta ai coetanei.
«E se la poesia non va consumata come un dolce ma presa come un’invocazione profonda»
Ho capito adesso cosa intendi: se la poesia va presa come un’invocazione profonda, cioè come la prendi (presumibilmente) tu, dovremmo preoccuparci di questa ragazzina che “sta male”, di questa povera poetessa fragilina persa nel suo inconsistente deliro poetico.
In alternativa, se uno non la vede così, vuol dire che consuma la poesia come un dolce.
Fantastico.
@ Elena Grammann
Ma che risposta è? Ti ho chiesto di indicarmi qual è il “punto” che a me sfuggirebbe per ragionarci su ma, invece di dirmelo, fai delle supposizioni stiracchiate sulla mia frase?
Ti faccio notare che di Anna Cotten non ho ho scritto che è una “povera poetessa fragilina persa nel suo inconsistente delirio poetico” . Ho espresso invece la mia ” preoccupazione per la fragilità del delirio poetico di cui sta soffrendo e godendo “. L'”inconsistente” lo metti tu, non io. E io del *delirio poetico* ho grande stima, pur conoscendone i rischi. La mia è l’ipotesi di un lettore partecipe per una poetessa che non conosco. Né vedo che ci sia di male nel dire quello che uno sente di fronte a dei versi. Non ho mica sostenuto che la mia interpretazione è quella giusta e unica, eh!
provo a rispondere a Ennio anche se non so se ho capito bene la domanda…secondo me la memoria è tatuata nel corpo di ogni persona, corpo che diventa un libro aperto, illustrato con parole e immagini, per chi lo sa leggere. Per cui se, come credo per Ann Cotten, ci sia stata una storia pregressa di diversità e di emarginazione, quindi di sofferenza, emerge, in questo caso, tramutata in un serio “gioco” poetico. Ma, in sordina, le poesie di A.C. ci parlano anche di una Storia collettiva, di minoranze, sebbene non ancora consapevole…I talebani potevano alla fine interessarla
@ Cristiana Fischer (30 agosto 2021 alle 6.18)
Grazie Cristiana, non sono sicura di aver capito tutto ma cercherò di rifletterci.
Avevo accennato a un altro sonetto di Cotten che mi sarebbe piaciuto presentare. L’ho pubblicato sul mio blog. Chi è interessato può leggerlo qui: https://dallamiatazzadite.com/2021/08/30/un-altro-sonetto-della-stessa/
il punto qui in questione è il punto g?