di Giorgio Mannacio
RIMPROVERO ALL’ETERNITA’ Avresti dovuto arrivare nel giorno della gran neve quando stentavo a decifrare un brusio così lieve, mio vicino. E’ la seconda volta nel tempo così breve che un difetto d’amore ti sorprende. Ma adesso anche tu o forse tu soltanto conosci la mia storia. Il resto è letteratura e tu lo sia: non so più leggere ormai. INVERNO I. La neve ha rivelato chi parte e chi ritorna: nessuno può passare inosservato. Del primo le notizie si sfaldano in una scia sempre meno profonda e ciò che avvenne dopo è un'altra cosa. Si sa che l’apparenza non permette altro che struggimento se non bastasse il fumo verticale: lampada o focolare, incendio del giudizio. Nella fuga geometrica dei vetri (non a specchio, ma spia) una luce si sposta e trova rovistando tra le reliquie un’ora da esorcizzare. II. E’ questa l’occasione che rende il mare alla sua vera origine, quasi immoto come se fosse il giorno stesso della separazione da un cielo ancora irato. Si mostra adesso la benevolenza che induce all’utopia d’un viaggio senza conquista, senza comandi circa la destinazione e quella sottile esitazione tra un’onda e la successiva sembra fermare il mondo. IL NOTES STRACCIATO A volte sembra che il tempo incontri qualche perplessità nello sfogliare le pagine del suo diario. La precedente si può stracciare in minuti frammenti non più ricomponibili se non nel verso senza conseguenze della memoria e della riflessione. La successiva svela prima di ogni altra cosa un punto di sutura: la trama di un filo bianco il segno di un’effettiva incollatura. Ma la scrittura che pretenda adesso di riempire di veri eventi l’estasi dell’istante nulla può regalare all’apparenza. FIGURE DEL SONNO Rannicchiato dormiva abbracciando il cuscino. Si stupivano le infermiere nei loro giri insonni tramando confidenze, minime riflessioni e pietà sconvenienti. Sembra che voglia stringere a sé vicino una persona amata, disegnare remoti sentimenti per non dimenticare: così si nasce, così muore. TESTA O CROCE per Antonio Sagredo, amico sconosciuto Si aspetta che la tempesta arrivi; si aspetta che la tempesta passi. Si spera che tutto cambi, che tutto resti eguale. Nella moneta gettata in alto e rovinata al suolo si scioglie ciò che annoda attesa e compimento.
Mi sfugge il senso:
“A volte sembra
…
Ma la scrittura che pretenda adesso
di riempire di veri eventi
l’estasi dell’istante
nulla può regalare all’apparenza.”
Mi sfugge il senso di “Apparenza”, se non è apparizione, fainomai.
Eppure c’è un collegamento tra “sembra” e “apparenza”, e dunque forse vuoi dire che la scrittura illusoriamente crede di sostituire materialmente (riempire) “l’estasi dell’istante”.
trovo le poesie di Giorgio Mannacio lievissime e nello stesso tempo cariche di un’ira repressa (“Rimprovero all’eternità”), ma stemperata come riferendosi ad un destino umano e comune: “…un difetto d’amore”. Poesie lievi e meste, come i passi e le parole sommesse delle infermiere, in un reparto d’ospedale, le quali assistono al mistero della dipartita, tanto simile a quello della nascita, come richiesta di amore…Poesie che sfiorano l’enigma insondabile del nostro esistere nel tempo. Grazie
dedico questi versi a Giorgio Mannacio
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gli occhi cantano
Il tempo tornava sui suoi passi,
sui secondi che non conoscono le ore.
La chiave su cui gli umani si misurano
le loro età gira a vuoto e non ha un dove esistere.
Gli universi che non sanno il proprio spazio
non conoscono i limiti dei loro movimenti
e i confini non danno segnali di riconoscimento
all’umano che sogna solo un luogo immaginario.
12 aprile 2021
a. sagredo
lontani, che rispondenze!
@ Cristiana – Annmaria
Ogni lettura ha in me eco grata.
La vs è anche aderente ad un plausibile senso tra quelli possibili. Tu Cristiana – nonostante le tue prudenti perplessità – cogli nell’ultima parte del tuo testo la centralità dell’apparenza e quindi dell’attimo . E tu Annmaria privilegi nella partecipazione al destino quella particella
” si ” che nella mia modalitù non è mai impersonale. Grazie
Sarebbe necessario uno studio – credo mai fatto – sulla permanenza della rima nella poesia in verso libero degli ultimi cinquant’anni. Verso libero, quindi rime in posizioni non canoniche, ma comunque presenti e determinanti sia come tecnica metrica sia come senso e accostamento di termini e suoni.
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Qui forse c’è un refuso:
«Il resto è letteratura e tu lo sia:»
Che si debba leggere: «Il resto è letteratura e tu lo sai:»?
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@ Aguzzi.
Grazie dell’attenzione.. Sulla rima ho scritto tempo fa una breve nota teorica ( la rima ha destato sempre il mio interesse ).
Quanto alla poesia si tratta – nel mio disegno – di una “ ambiguità “ piuttosto che un refuso che presuppone un testo autenticamente stabilito.
Um cordiale saluto da G.Mannacio.
Ambiguità voluta o casuale?
Se voluta, l’ambiguità mi rimanda a un congiuntivo con valore quasi di imperativo, un po’ come dire «Il resto è letteratura e tu lo sia» [e che anche tu sia letteratura].
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Ho letto la nota teorica sulla rima a cui accenni (se ti riferisci a «Note sulla rima» in Poliscritture.it del 30 novembre 2017), che è appunto una «nota teorica». Ma come viene ancora usata e come, concretamente, la si riscontra ancora nella poesia degli ultimi decenni non mi è mi capitato di leggere un testo specifico, e forse non esiste.
Mi è capitato di leggere ricerche specifiche su singoli aspetti, come ad esempio l’ampio saggio di Stefano Pastore intitolato «Il sonetto nel secondo Novecento». Ma l’ampiezza della pratica della rima propone problemi molto più vasti in una casistica assai diversificata. Il sonetto, sicuramente, usa le rime in modo assai diverso dalle rime inserite in una struttura poetica in versi liberi.
La rima può essere un espediente tecnico per accrescere la musicalità (come sosteneva Eugenio Grandinetti commentando la tua nota il 4.12.2017), e in genere lo è. Però nell’uso moderno (ad esempio in alcuni sonetti di Caproni), è ingegnosamente depotenziata, tanto che, pur presente secondo le regole classiche del sonetto, sembra quasi che non ci sia, come avviene a volte per le “rime casuali” inserite in un testo in prosa, dove ci sono ma non si avvertono come tali.
Si tratta comunque di “tecnicalità” della scrittura poetica, pertanto la rima, per riprendere la tua domanda «La rima è creata, inventata o trovata?», è sempre e insieme sia inventata sia trovata. Trovata fra quelle disponibili e talvolta “creata” con neologismi e/o invenzioni lessicali apposite; inventata perché fra tutte quelle disponibili si cerca quella che meglio esprime il senso e la forma che si vuole dare al verso, e nello stesso tempo il senso e la forma si plasma anche sulla base della rima, in uno scambio reciproco che è sicuramente “inventato” dal poeta e costituisce un aspetto dello stile. Leopardi sosteneva che la rima, usata nelle forme metriche chiuse, condizionava il pensiero al 50%. Non nel senso che la rima impedisca di scrivere ciò che si vuole, ma in quello che ciò che si vuole scrivere si adatta alla rima e quindi in una certa misura assume la forma resa necessaria dalla rima.
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In quanto alla domanda: «La rima è creata […]?», in senso linguistico si può dire che il raggruppamento di categorie di termini che presentano la stessa desinenza, e quindi rime (come gli infiniti in are, ere, ire) svolge una funzione logico-grammaticale la cui origine si perde nella notte dei tempi. Le lingue – mi pare – più conservano strutture arcaiche e più rime offrono. Dalla desinenza, nelle lingue più arcaiche, si può immediatamente capire se il termine è un verbo o un sostantivo o un aggettivo o un avverbio.
In poesia questa funzione logico-grammaticale naturalmente non interessa il poeta, per il quale la rima è un elemento tecnico, come lo è anche la mancanza di rime, l’attenzione di alcuni poeti ad evitare assolutamente le rime. L’efficacia o meno va valutata di volta in volta all’interno dell’opera scritta. Tuttavia la sua presenza, come la sua assenza, ha sempre un significato che può essere indagato anche nei suoi aspetti generali, come elemento di un certo periodo di storia della poesia. Le differenze combinate di lessico, sintassi e rima ci dicono subito se abbiamo a che fare con un testo del Trecento o dell’Ottocento. In sostanza, la rima ha anche una sua ragione e forma tecnica e storica che è in relazione alla storia della poesia e al rapporto fra la poesia e il proprio tempo.
SEGNALAZIONE
Paolo Giovannetti
Modi
della poesia italiana
contemporanea
Forme e tecniche dal 1950 a oggi
Carocci editore
1a edizione, marzo 2005
Indice
Introduzione 9
1. Dal primo al secondo Novecento 15
1.1. L’eredità del modernismo 15
1.2. Alcune invarianti formali 19
1.3. Alcune poetiche del secondo Novecento 28
2. L’enunciazione, il racconto, il libro di poesia 41
2.1. Nuove figure enunciative 41
2.2. La narrazione 54
2.3. Il libro di poesia 65
3. Lingua/lingue, figuralità 73
3.1. La lingua, le lingue 73
3.2. Poesia in lingua: medietas, sintassi, retorica 75
3.3. Una nuova lingua per la poesia? Le altre lingue 95
4. Le metriche 105
4.1. Molte questioni aperte 105
4.2. Evoluzione del «verso novecentesco». Crisi dell’endecasillabo? 113
7
4.3. Il verso accentuale 120
4.4. Il verso lungo whitmaniano e la poesia in prosa 127
4.5. Il verso informale 133
4.6. Le forme dialettali 137
4.7. Le forme chiuse 141
Appendice. Postmodernità? 145
Bibliografia 155
Indice dei nomi 165
Aguzzi
In primo luogo grazie per le dense osservazioni che servono a chiarire a me stesso alcune idee sulla rima. Queste sono in gran parte derivate da quella che chiamo la mia “ esperienza poetica” che attraverso da moltissimo tempo. Ma occorre una brevissima premessa. Il lavoro poetico è una tecnè, un fare artigianale in cui il pensiero vigilante ha un ruolo essenziale. In questo senso la rima è sempre cercata ma ciò in via di principio non significa che “ non possa essere trovata per caso “.
Per usare una formula di altre discipline “ in principio era il progetto “ ed esso alla fine si realizza e manifesta nell’opera . La rima – voluta o trovata – deve essere coerente con il progetto e in questa affermazione è compresa o esclusa la necessità di essa. Può servire – come sosteneva Grandinetti – a realizzare il fine della musicalità ma penso che questa conclusione vada corretta. Il regno dei suoni cui la musicalità appartiene “ non conosce la rima “ e la grande lirica greca la raggiunge attraverso la giustapposizione di “ quantita “ ( metrica )ed anche con la suggestione della contemporanea visione di immagini reali o fantastiche. I voli pindarici ( es. “ ottima è l’acqua “ )ne sono un esempio.
Alcune volte l’identità dopo l’accento – che formalmente la caratterizza – può realizzare nell’economia generale del testo a una chiusura significativa ( come a dire: cosa vuoi di più se anche la rima mi dà ragione ? ) Di questa funzione ho dato qualche esempio nel mio testo
“ teorico “ . La rima può servire a rassicurarci dell’esistenza di una armonia prestabilita ovvero avvertirci del disordine universale .
L’uso della virgolettatura del termine teorico che accompagna queste osservazioni sottolinea che non voglio e non so scrivere un testo teorico ma semplicemente testimoniare una esperienza, un modo di fare. Mi pare che tu abbia saggiamente avvertito che forse una teoria sulla rima è impossibile o quasi.
Un cordale saluto da Giorgio Mannacio.
Vorrei aggiungere che la rima, e l’assonanza, così come il ritmo, guidano -nei contrasti come negli accordi- la produzione del pensiero, richiamando quelle pause e quei raccordi che instradano l’ideazione, nel panorama linguistico di cui si dispone.
@ Mannacio
«Il lavoro poetico è una tecnè, un fare artigianale in cui il pensiero vigilante ha un ruolo essenziale». Sono perfettamente d’accordo. Ho paragonato altre volte il lavoro del poeta al lavoro di qualunque altro artigiano. Le componenti che rendono pessimo, o medio, o buono, o eccellente, o eccezionalmente geniale il lavoro e il prodotto sono essenzialmente due: il primo è la profonda, o meno, conoscenza del sapere che la tradizione trasmette, di cui le tecniche sono una componente importante ma non la sola che conti; la seconda è la capacità di innovare la tradizione, arricchirla con apporti originali (anche qui, non solo apporti tecnici ma di tutte le componenti che costituiscono un testo). Fra tradizione e innovazione si svolge la storia letteraria, ma anche quella delle arti e direi, persino, quella dell’industria. In sostanza di tutte le attività umane. Chi resta solo all’interno della tradizione senza significative innovazioni nel migliore dei casi è un buon epigono, un continuatore di forme già note. Ma non lascia tracce significative e non fa storia. Boccaccio, già ai suoi tempi, distingueva i “poeti” – e intendeva dire i “veri poeti”, gli innovatori, quelli che hanno uno stile personale e originale – e i “verseggiatori” – quelli che scrivono in versi, conoscendone la tecnica, ma senza dire nulla di nuovo.
***
In quanto alla “musicalità” e alle tecniche per ottenerla, certamente cambiano di lingua in lingua. In italiano manca la “quantità” (sebbene qualche residuo ci sia, non è abbastanza significativo di per sé), sostituita dalla rima e/o assonanza e/o consonanza. Credo che la musicalità di una lingua dipenda dal fatto che per migliaia e migliaia di anni tutti i testi sono stati solo orali e la musicalità, il ritmo, facilita la memoria e la trasmissione. Inoltre, nelle forme “solenni” di comunicazione, la parola orale era accompagnata spesso da musica strumentale o dal canto. La canzone, sinergia di parole e musica, credo che preceda la poesia senza musica di accompagnamento. Alle origini della poesia italiana la rima dovette apparire come elemento essenziale per ottenere effetti musicali, con o senza accompagnamento musicale o canto. Infatti, nel Duecento e Trecento non abbiamo poesia italiana non rimata. Il rapporto fra musica delle parole e musica del canto poi a poco a poco si perde e nasce il verso sciolto. Salvo qualche raro (e grossolano) esempio anteriore, è a metà del Cinquecento che l’endecasillabo sciolto entra nella metrica italiana e diventa predominante in alcuni generi poetici, in concorrenza con l’ottava, la sestina e la terzina. Con Leopardi s’inaugura la canzone a struttura non più classica, dantesca o petrarchesca che sia, priva di strofe identiche nella struttura metrica, con un uso del verso e della rima che esce da ogni precedente struttura metrica chiusa. Il verso libero non rimato o poco rimato è un ulteriore radicale mutamento, proprio del Novecento. Ma reca in sé un pericolo. Nella buona poesia il verso libero non è privo di metrica (misura e ritmo, musicalità), ma questa è costruita dal poeta liberamente, insieme e interna al verso, fa parte del lessico e della sintassi. Non è uno schema esterno entro il quale calare il proprio testo. Ma nella cattiva poesia il verso libero è troppo spesso libero da ogni metrica e scade in una prosaicità dove il verso è indicato solo dall’andare a capo, quando però l’andare a capo è arbitrario, non ha una sua ragione forte radicata nella musicalità. Allora non si hanno più i “versi”, ma solo sequenze di parole ordinabili in più modi del tutto equivalenti.
In tempi più recenti una ulteriore attenuazione del rapporto fra musica e testo poetico si ha nella poesia in prosa, e in quella in versi analoga alla prosa, dove la musicalità linguistica è quasi del tutto affidata al significato, alla sua eco emozionale, e poco o nulla alla struttura metrica in sé.
Credo pertanto che fra le molteplici ragioni per cui talvolta si usano ancora le rime, si evidenziano come particolarmente significative queste:
a) Per assicurare musicalità al testo ed evitare lo scadere nella prosaicità, quando un certo tipo di musicalità, che consiste poi nel ritorno del suono rimato, quindi in una cadenza particolare, si ritiene necessario o comunque utile al tipo di testo a cui si applica.
b) Quando la metrica rimata è di per sé parte essenziale del tipo di testo, senza la quale quel testo sarebbe un’altra cosa. Ad esempio nelle filastrocche, in certa poesia scherzosa e/o satirica, negli epigrammi, in molta poesia dialettale, nella voluta imitazione di forme classiche volta a ottenere particolari effetti.
c) Infine come tecnica retorica, per sottolineare, caricare di effetti e significati, alcuni termini e versi. Ad esempio nelle «chiusure significative» citate da Mannacio.
Cristiana, ben detto ! Un saluto da G.Mannacio.
@ A tutti gli intervenuti un grazie. Ne è risultato un mosaico di osservazioni sulle quali riflettere. L’impianto generale dell’ultimo di Aguzzi mi convince e stimola. Ci sono molte cose da aggiungere, nulla da cancellare. G. Mannacio
Buon ultimo e con poco tempo a disposizione ringrazio l’amico Mannacio per i suoi versi.