di Umberto Di Donato
Prima dei versi, qualche considerazione in via preliminare-.
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Usciamo da un equivoco: si afferma che chi scrive vuole farsi leggere. È vero, ma dipende da chi. Per quel che mi riguarda, condivido totalmente ciò che Mandel’štam dice benissimo nelle poche pagine del saggio Sull’Interlocutore. Completando il quadro, aggiungo soltanto che alcuni profeti, spirituali, maestri da strapazzo, riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative, basta mettersi all’ascolto. Io non ci credo, l’universale puzza di complotto, ed in più dico che il poeta non è la poesia, ma compone poesie, ripeto, non è la poesia, così come una fonte non è l’acqua. È quest’ultima che noi dovremmo bere, non la cannella. I poeti che profetizzano, che salvificano, che fanno sermoni, in realtà vogliono essere bevuti; e possiamo noi lettori in verità non soddisfarli!? Ora, ponendoci dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza, si può sostenere che se non vengono letti non hanno vita? Non lo so, ma comunque è un loro problema, non il mio, ed in definitiva non di chi le scrive.
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Il gesto, l’azione senza frutto, un interlocutore ipotetico, un altro me. Lotta serrata alle piccole vanità.
Mi preoccuperebbe molto sapere che un mio testo possa emozionare chi frequenta i teatri, i cinema, i festival, gli eventi, i luoghi deputati alla cultura. Anche il libro è un luogo deputato. Il libro non è l’opera, è un supporto, e la possibilità della fruizione attraverso il supporto influenza la collocazione, la distribuzione, induce ad organizzare i singoli testi nello spazio del commercio. Io stesso ho commerciato nella mia preistoria testuale, soggiogato dal libro/supporto e pensandolo nelle mani di qualcuno. Ho recintato, secondo una logica indotta dall’esterno, dodici anni di esperimenti in quattro libri che materialmente non esistono ancora: Motore a combustione interna (1993-2002), Fossa comune (lugliosettembre 2001), Per fortuna non lavoro (2003), Reo confesso (2003-2005). Ormai il danno è fatto.
Vigliacco!
Poi ho capito. Niente più organizzazione, sequenza esclusivamente cronologica. Massima concessione: titolo alla sequenza per connotare l’arco temporale, per connotarlo a me (ma non ne sono ancora certo). Ridurre al minimo la schiavitù.
Nel 2004 scrissi questo testo:
“In verità è il poeta che ammazza la poesia, la violenta, la percuote, è la sua voglia di piedistallo. Quando il poeta contemporaneo va in televisione, ed aspira ad andarci, viene schiacciato nei ritmi serrati della distruzione scientifica, della telecamera crematoria. Poi la pubblicità, che rappresenta il momento in cui l’immagine si sposta dalla piramide dei cadaveri al fumo delle ciminiere di Auschwitz.
Anche nel libro vive lo spirito del gulag, del lager: l’ordine, la disciplina, la sequenzialità degli atti, le sezioni, multipli e sottomultipli; la morte. Ma è una morte che ha in potenzialità la sua resurrezione. Per me il libro, cioè quel tanto d’ordine che si cerca di dare al naturale spirito da fuggiasco del poetare, è il box con recinzione morbida in cui si mettono i bambini. Essi stanno lì, giocano, piangono, si aggrappano alla rete, ma siamo certi che cresceranno, che supereranno il varco. E poi il filo spinato/copertina non è attraversato dall’elettricità. Toccandolo non si corre il rischio di essere folgorati.”.
Adesso lo integro e lo supero nella direzione sopra esposta.
1 Il mio è un lavoro di concetto, ma so che alcuni lavori manuali sono davvero tremendi per cui penso che tutti vogliono andare in ufficio. Invece no: «mai otto ore in galera, meglio spargere col caldo nero catrame». Il problema non è il concetto oppure il manuale, ma quell'otto,10,12, così come sei ore a scuola [e che strazio fu per me la scuola!]. Riformare: competenze, competizione, i migliori, che nove volte su dieci non sono figli di poveri o quasi poveri. Sburocratizzare: che vuol dire sostanzialmente tagliare senza risolvere il problema perché i tempi lunghi sono nelle procedure. Io ho risolto in questo modo: ho un impiego, ma non lavoro, o comunque lavoro poco -e per piacere non si sparga troppo in giro la voce-. Desiderare un lavoro. Incredibile! «Che lavoro vuoi fare da grande?». Così comincia presto la rovina. Io volevo fare il terrorista, ma poi ho ripiegato sul pubblico impiego. Chiedo comunque aiuto. Bisaccia, 02.04.2021, ore 09.00-09.30, stanzetta, in tv si parla di lavoro e di riforme. 2 I versi che scendono troppo nel presente hanno di certo vita breve. Ma non importa, nun me ne fréca pròbbie niénde. Morire violentemente mentre si lavora! Io sto lavorando, seduto, senza gocce di sudore sulla fronte. Si lavora non più solo per mangiare, ma per tanti piccoli bisogni singolari. Ipocrita! Eppure la mia colpevolezza è poca cosa rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende, governa o vuole governare [poca cosa ho detto, si badi, e il poco è un essere comunque]. Amministrare il contingente, va bene, è giusto, ma un po' si può pensare -dico un po', un nonnulla- a come lavorare tutti meno, ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire guardandoci negli occhi quel futuro che a me non appartiene? Non ci serve più governo, ma un governo amorevole che dica: «non avete bisogno di me». Non capisco, non avviene nulla. Io ho un programma, minimo, di annientamento, velleitario forse, ma sincero. Al momento ho convinto solo tre persone. Il suo nome ha origini polinesiane e significa godersi il tempo libero. Incredibile la beffa! Grosseto, 06.05.2021, ufficio, ore 11.30-12.00 circa, pensando a Luana morta sul lavoro, e pure a quiru pòveriéddo re Peppino. 3 Vedo vari gruppi, coppie, famiglie, amici. Il tempo libero, il che significa che la rimanente parte del tempo libera non è. Giusto? Cosa si fa nel tempo libero? Niente di libero ovviamente: centri commerciali con acquisti pilotati, bevute e cene in cui si è delle comparse, relazioni con sceneggiatura sottostante. Non si tratta neanche più di massa -e stiamo parlando di una massa grassa-, o di società del consumo; melma, melma, melma. Non è la cultura che manca, o le buone letture -esiste anche la melma colta-, manca l'uomo, l'uomo dignitoso, lo schiavo che sa di essere tale per merito delle bastonate. Schiavo anch'io, ma voglio andare in miniera, che siano torture tutti i giorni. Non so cosa farmene di questa schiavitù con l'aperitivo, con visita guidata nei musei, della promozione fasulla dei diritti, del patrocinio di ministri ed aguzzini. Anche la banca, che già ruba l'altro tempo, vuole il mio tempo libero e mi scrive: «Ciao, hai pensato alle prossime vacanze?», (ma io e la banca da quando siamo amici? -memorandum: prosciugare il conto-). Ma dove sono finito? L'unico tempo libero che mi aspetta inizia sulla soglia del cimitero, ... e meno male. Grosseto, centro, 13.05.2021, ore 19.00-19.30 circa. 4 Pose il comune in memoria dei caduti del quindicidiciotto: sei persone "che con sacrificio onorarono la patria". Chissà se lo rifarebbero, se pensano ancora di aver onorato! Anche questa è una radiosa giornata di maggio, e si dice che siamo in guerra contro un nemico invisibile. I miei nemici al contrario sono onnipresenti e mi guardano storto. Mi considero in una fase da categorie del politico, e devo difendermi purtroppo -anche da questo cane, da questi gatti, da questi uccelli provinciali. In linea d'aria il mare è vicino, vedo il Giglio, qualche vela, la città sfavillante nella piana. Il borgo medievale naturalmente è tutto pietre, archi, vicoli e mattoni. Silenzio! Il paese vive prepotentemente in me. In realtà dovrei fare l'asceta, dovrei compiere il passo decisivo come già feci mille anni fa; sono caduto tante volte, ma non in guerra, e tante volte ancora cadrò. Non posso credere che oggi lanciano bombe invece di abbracciarsi felici e fare un picnic. Cosa trattiene tutta quella gente? Anch'essi vogliono onorare? Terra santa? Dite? Mi rendo conto solo adesso di essere seduto in Vicolo della Saggezza, 2 ... -ed io pensavo che fosse cieco-. Bene, bevo, riempio le borracce e riprendo a pedalare. Il ritorno è quasi tutto in salita. Montorsaio, 15.05.2021 ore 10.00-10.30, panchina, notizia bombardamenti in Palestina. 5 Un clima, un momento, un'aria che anticipa e che presuppone; intorno a me, meglio: su di me come una muta. E quindi un ritmo, interno, sereno, serrato, da qualche parte, emerge e pian piano s'impone. Scelgo di dare o di non dare corso. Poi sarei figlio del mio tempo, della mia epoca. Ma lei di chi è figlia? Ha vita propria oppure è un congegno creato per sfinire? Cosa vuole da me? E se la misura della mia vita fossero i millenni a quale epoca apparterrei? Schiavo di tutto, ... se già nelle strutture del linguaggio si annidano il potere, la gabbia e la prigione; quindi si consiglia di sabotare la sintassi, di attaccare dall'interno ma per molti interno significa cravatta. Sabotare il linguaggio a mio avviso non si può. Neanche col silenzio. Già che ci siamo perché non ai ceppi? Così è la muta -non la musa- che mi viene in soccorso, che mi affranca, che mi aiuta. "Con potete culo quelle pulirvi il bandiere". Non sono riuscito a dargli torto -pur nella la normalità della sintassi-. Bisaccia, 02.06.2021, festa della repubblica, stanzetta, poi la voce di un contestatore, ore 12.30-13.00 circa. 6 Seduto sotto il tiglio sto pensando, rimuginando, ma non dovrei. Non renderò quest'albero sacro, e credo che oggi non m'illuminerò -nel senso del Buddha intendo-. Non illuminato, ma comunque tranquillo. Estendere questo stato, isolarmi, stare solo. Devo risolvere il problema del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio. Se mi licenziassi domani, pur riducendo al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei. Non so rubare, scassinare, investire in borsa, non so ingannare. E allora? E allora una bestemmia ci starebbe bene, ma non Antonio però, il santo patrono al cui cospetto tutto questo accade. Non posso nemmeno farmi monaco, prete perché dovrei battezzarmi e tutto il resto (e tutto il resto è in ogni confessione). Pietrificarmi? Magari! Il mio futuro, tolto lo svanire degli affetti, è nel suicidio o nell'ascesi -in ufficio infatti ho iniziato a meditare, concentrazione su un solo punto-. ... ... Ma cosa c'è? Sembra che il vento adesso stia parlando: «Perché non aspetti la pensione?». Maledetto, vuoi provocarmi, vuoi litigare? Calmo. Un solo punto, un solo punto. Bisaccia, 18.07.2021, Convento, ore 10.30-10.45, più o meno. 7 Insomma ho provato, letto, riletto, analizzato, pensato. E allora anch'io nel mio parlar voglio esser aspro[1]: mi stanno con dolcezza inculando, ma non ancora del tutto violato ad un'azione cruenta sto pensando. Se Dante il sommo celebrato in parlamento, nelle chiese e nei bordelli, ha condannato decine di persone, perché non posso io desiderare che qualcuno bruci vivo nelle fiamme di un talk show televisivo? «Bastardo, ti vaccineremo». Povero me. No pax. Mi disturba tutto, dico sempre le stesse cose -ma le dico bene-, ho raffinato le mie capacità di analisi, di sintesi e la mia forma non è poi così meschina. L'amore non mi basta, i miracoli, la gioia, gli appelli alla bellezza che si fa puttana, consolazione e propaganda. Non parlerò più con nessuno, ho deciso, neppure con gli uccelli. Io mi svago al tavolino e lavoro in società[2]. Visto che non sopporto più il lavoro è tempo di tagliarlo nella parte che non mi dà sostentamento. Si, l'uomo è un essere sociale, ma io credo non essenzialmente. Non mi interessa cos'è nella sua essenza, non ho voglia adesso di filosofare. Mi basta evitare per il momento il fango. ... Inizia così il mio mediocre medio evo. Grosseto, 12.08.2021, sul letto, ore 20.00-20.30 circa, rielaborando registrazione vocale. 8 Mio caro parliamone, ma sii chiaro, diretto, schietto. Desidero un milione di euro -anche il porcospino lo voleva, ma io coscientemente-. La realtà mi assale, e la realtà sono anche gli altri. Poeti, filosofi e scienziati non mi servono più a nulla. Dove un po' di pace? Forse in un bosco percorrendo un bel sentiero. I sostenitori della realpolitik non rompessero oltremodo. Non sono confuso, o frustrato; spesso i realisti affermano che posizioni e posture tali sono una forma di disturbo, ... o meglio: una forma d'impotenza. Come se dovessi per forza dire che la vita è vita ed è così com'è. No, non lo dico e preferisco subire, incassare, prendere legnate. Quante parole, è un turbinio di bocche aperte, un ammasso di coglionerie. I giornalisti andrebbero tutti imbavagliati, mi avvelenano il sangue. Non lo posso permettere. -Sessanta secondi di pubblicità-. Monopolio della forza legittima. Gira e rigira sempre questo è il punto. Ma si, maledico tutti i miei contemporanei, oggi mi è presa così; e per non dimenticare che questa è una poesia faccio presente che la pineta di fronte è come il colle, l'orizzonte -neutrale- è mio compagno, e il naufragar m'è dolce in questo stagno [zampilli d'acqua, tre papere, un ranocchio]. Vai, adesso mi sento meglio, lo sfogo è servito. Ritratto la parte non lirica. Grosseto, Parco Giotto, 23.08.2021, ore 19.00-19.30, più o meno. 9 Perché un essere umano, un buon cittadino non dovrebbe provare odio? Dicono che odiare sia dannoso, che questo sentimento è brutto, peccaminoso. Stupidaggini! Io di questi tempi odio, ed anche tanto. Il treno è in ritardo, niente coincidenza, sono mascherato, controllato, divise ovunque e poi transenne, obliterazioni, tornelli. È chiaro che non la finiranno più. Oggi non farò colpi di testa (domani chissà), ma fatemi almeno odiare. Così, banalmente, prevedibilmente, da intelligenza mediocre e luogo comunista, mi vedo solo con un mitra in mano, e di fronte a me tanti governi in fila, sindacati, imprenditori, intellettuali. Sono questi maniaci dell'apparire, dell'emergere, gestire, questi cultori della norma, dementi seriali, democratici per finta, animali, vermi, a tenerci adesso tutti sotto scacco. Su, via, sono inerme, dal punto di vista della prassi innocuo, ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic creativo di un grilletto. Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire. Allora dite quello che vi pare, già conosco l'apparato retorico che mi si potrebbe di certo contrapporre. Detto questo, io non mi rodo il fegato, né ho del fegato. Dopo tutto resto un moderato. Roma, stazione Termini, 27.08.2021, ore 10.15-10.45, più o meno. 10 In certi momenti esprimersi è fatica, e vorrei cedere il passo. Ma non devo, ma non posso. Non sono irresponsabile come un dio, ed ogni giorno è una piccola conquista. Mi disturba la mia mortalità, dover lavorare per nutrirmi e per poter lavorare domani. Edificare esige tempo. Sono tormentato, di giorno e di notte, ma non si tratta del tormento ridicolo dell'artista. Sacrificherei tutta l'arte del mondo per un attimo di chiarezza, per uno sguardo diretto sull'abisso, sull'oscuro, sull'orrido e il melmoso. Non ho risposte all'assurdo che c'è nell'esistenza, e il volere non è potere in questo campo. Formalizzare una volontà, abbattere il mostro, quello che ci opprime dall'esterno, e quello che ci schiaccia dall'interno -che poi è lo stesso mentre si diverte ad una festa di carnevale-. Io non rivendico per me cose speciali, quello che voglio lo voglio per tutti: poche/nulle pene per il sostentamento, e poi tempo, tempo, tempo. Se un giorno si arrivasse a risolvere definitivamente il problema delle necessità materiali, a risolverlo urbi et orbi, resterebbe comunque quello della mortalità. E qui saranno guai! Si sarebbe tentati di dire che le esperienze sublunari sono un argine in qualche modo (ed infatti non mi lasciano disperare di certo a tempo pieno). [ ] A proposito di disperazione: oggi si va a votare; ma io no, così da tempo ho deciso. «Allora devi stare zitto, non ti puoi lamentare». E chi si lamenta. Io affermo, io asserisco, io subisco l'ordine parlamentargovernativo. Io sono incudine! La rappresentanza non mi interessa, e non voglio rappresentare. Bocciato il pensiero liberale, se considero il linguaggio di molti autori marxisti mi manca il respiro. Potrei anche condividere molte cose, ma l'aria è tutto. Così preferisco le soleggiate scampagnate fuori porta delle dolci correnti libertarie. Adesso posso dirlo caro Errico, e non si tratta di una semplice opinione: tra una mite utopia e la cruda certezza dei macelli scelgo la prima e incasso. Concludendo, noto che in tv stanno da tempo sibilando i draghi; io non sono (ahi me) l'arcangelo Michele, ma dico amichevolmente ai miei nemici: tenetevi il PIL, scopatevi il PIL, impiccatevi al PIL. Grosseto, 03.10.2021, sul divano, ore 21.00-22.00. [1] Dante, Commedia. [2] K. Kraus, Detti e Contraddetti.
Queste dieci poesie di Umberto Di Donato mi sono piaciute. Prima reazione: Che simpatico burlone anarcoide!
Grande merito: è un tipo di poesia, che non si sottrae al dialogo e al confronto tra gente comune; non lo restringe agli specialisti; non si avvolge nell’oscurità (o nella spocchia) dell’Io lirico Assoluto.
E perciò le ho rilette e aggiungo queste note veloci:
1. Di Donato fa bene a posizionarsi con la sua iniziale, onesta, dichiarazione di poetica: abbasso i poeti «profeti, spirituali, maestri da strapazzo [che] riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative ». (Non è che ce l’abbia anche col suo concittadino Franco Armimio? Se sì, in buona parte condivido);
2. Sono meno in sintonia quando invita a porsi «dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza». Eh, no! Per me ci sono i testi, ma c’è anche il lettore; e c’è – complicatissimo da cogliere nei suoi effetti su entrambi, ma irrinunciabile – il maledetto ‘contesto’. Per cui, se oggi i testi – e non solo quelli poetici – «non vengono letti», sono cazzi acidi per tutti. (O almeno per quella buona parte degli umani leggenti e pensanti). E non è problema che riguardi solo i versi arrivati al «libro» o entrati «nello spazio del commercio», ma anche di quelli che finiscono nella discarica dei social. Vuol dire che si è spento (o si sta spegnendo) la luce nella ex Istituzione poesia (o nelle ex patrie lettere). E pure nei suoi paraggi. Quindi, sì, quasi non si legge più (o non si sa più leggere). E specialmente da parte di chi, per condizioni di vita sottomessa o alienata, di lettura, come esercizio critico, avrebbe bisogno per scattare (e non schiattare).
3. Passando ai testi di Di Donato ci trovo:
a. un’ossimoricità anarchica burlona (l’ho detto) e spiazzante:
Io volevo fare il terrorista, ma poi
ho ripiegato sul pubblico impiego.
Chiedo comunque aiuto.
b. un’attenzione – toh, un poeta che ne parla ancora in toni saggiamente materialistici – al lavoro, dimensione dell’umano che resta tuttora atrocemente divisa in intellettuale e materiale (e va benissimo ricordarlo anche in poesia):
Il mio è un lavoro di concetto,
ma so che alcuni
lavori manuali sono
davvero tremendi,
Lavoro poi che, per la gente comune (milioni di persone), resta tuttora un problema di sopravvivenza materiale:
Devo risolvere il problema
del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio.
Se mi licenziassi domani, pur riducendo
al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei.
Non so rubare, scassinare, investire in borsa,
non so ingannare. E allora?
c. sprazzi dell’ideologia (anarchica anche questa e da movimento del ’77) del rifiuto del lavoro:
ho un impiego, ma non lavoro,
o comunque lavoro poco
-e per piacere non si sparga
troppo in giro la voce-.
Desiderare un lavoro. Incredibile!
«Che lavoro vuoi fare da grande?».
Così comincia presto la rovina.
P.s.
Su questo ultimo punto mi verrebbe la voglia di ripescare discorsi seppelliti, ma per ora mi permetto di notare che Di Donato – formatosi in una situazione che ha visto la scomparsa di qualsiasi politica di matrice marxiana sulla “liberazione del lavoro” (e non “dal lavoro”), finisce, secondo me, anche lui e malgrado le sue intenzioni, per moraleggiare e colpevolizzarsi:
Si lavora non più solo
per mangiare, ma per tanti
piccoli bisogni singolari.
Ipocrita! Eppure la mia
colpevolezza è poca cosa
rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende,
governa o vuole governare
[poca cosa ho detto, si badi,
e il poco è un essere comunque.
Oppure per ripiegare in un vacuo “riformismo”, che già s’è perso per strada (ricordate il discorso sulle 35 ore?), e in sogno insidioso di “governo amorevole”:
Amministrare il contingente, va bene, è giusto,
ma un po’ si può pensare
-dico un po’, un nonnulla- a come lavorare tutti meno,
ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire
guardandoci negli occhi quel futuro
che a me non appartiene?
Non ci serve più governo,
ma un governo amorevole che dica:
«non avete bisogno di me».
Oppure a lanciarsi in utopismi alla Lafargue:
Io ho un programma, minimo, di annientamento,
velleitario forse, ma sincero.
Al momento ho convinto solo tre persone.
Il suo nome ha origini
polinesiane e significa
godersi il tempo libero.
Malgrado abbia piena consapevolezza del miraggio del cosiddetto “tempo libero”:
Cosa si fa nel tempo libero?
Niente di libero ovviamente:
centri commerciali con acquisti pilotati,
bevute e cene in cui
si è delle comparse, relazioni
con sceneggiatura sottostante.
E così, il suo anarchismo (simpatico ripeto), finisce per evitare i problemi sociali, oggi più complicati di ieri; e rispondervi (da poeta? in nome del lirismo poetico?) con lo sberleffo:
I versi che scendono troppo
nel presente hanno di certo vita breve.
Ma non importa,
nun me ne fréca pròbbie niénde.
Sotto sotto, però, Di Donato sa che lo sberleffo è dello schiavo, appunto (e che non basta!):
manca l’uomo, l’uomo dignitoso,
lo schiavo che sa di essere
tale per merito delle bastonate.
E allora rischia di inseguire lo schiavo (o la parte “schiava” di noi) nelle sue tendenze masochiste e vittimistiche:
Come se dovessi per forza dire
che la vita è vita ed è così com’è.
No, non lo dico e preferisco
subire, incassare, prendere legnate.
Ribadite più volte:
Su, via, sono inerme,
dal punto di vista della prassi innocuo,
ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic
creativo di un grilletto.
Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire.
Allora dite quello che vi pare,
già conosco l’apparato
retorico che mi si potrebbe
di certo contrapporre.
Detto questo,
io non mi rodo il fegato,
né ho del fegato.
Dopo tutto resto un moderato.
Oppure di vagheggiare – ancora! – la consolazione utopica del solitario, dell’eremita, che a me non pare migliore della poesia che pretende «doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative»:
Non illuminato, ma comunque tranquillo.
Estendere questo stato, isolarmi, stare solo.
In realtà dovrei fare l’asceta, dovrei
compiere il passo decisivo come già
feci mille anni fa; sono caduto
tante volte, ma non in guerra,
e tante volte ancora cadrò.
Non posso credere che oggi
lanciano bombe invece
di abbracciarsi felici e fare un picnic.
Cosa trattiene tutta quella gente?
Anch’essi vogliono onorare?
Un po’ consolatoria lo stesso:
Vai, adesso mi sento meglio,
lo sfogo è servito. Ritratto
la parte non lirica.
O la disperazione:
L’unico tempo libero che mi aspetta
inizia sulla soglia del cimitero,
… e meno male.
Dove può portare questo dissenso recitato e teatrale?
Mi disturba tutto,
dico sempre le stesse cose
-ma le dico bene-,
ho raffinato le mie capacità
di analisi, di sintesi e la mia
forma non è poi così meschina.
L’amore non mi basta, i miracoli, la gioia,
gli appelli alla bellezza che si fa
puttana, consolazione e propaganda.
Non parlerò più con nessuno, ho deciso,
neppure con gli uccelli.
E questo evitamento della complessità e serietà dei problemi?
Si, l’uomo è un essere sociale,
ma io credo non essenzialmente.
Non mi interessa cos’è nella sua essenza,
non ho voglia adesso di filosofare.
Mi basta evitare per il momento il fango.
Tendenza a trattare i sentimenti e non l’oggetttivà:
Perché un essere umano,
un buon cittadino non dovrebbe
provare odio?
Dicono che odiare sia dannoso,
che questo sentimento è brutto,
peccaminoso. Stupidaggini!
Gentile Abate, la ringrazio per l’attenzione. Ho letto le sue osservazioni e soprattutto ho apprezzato le sue critiche, che accolgo e che sostanzialmente condivido. Nel suo commento lei riporta un mio verso: “Chiedo comunque aiuto”; ecco, lei con i suoi dubbi mi sta aiutando, ed io con serietà rifletterò e cercherò di orientarmi meglio.
Grazie di nuovo e un saluto a tutti
Umberto
@ Umberto Di Donato
Buon lavoro.
Una alternanza continua tra estraneità e rimpicciolimento, motivata la prima e motivato anche il secondo, a fine lettura irritazione. Come si fa a rinunciare: alla critica del comando capitalistico del lavoro e alle storture sociali necessariamente introiettate, con l’irrisione del riformismo, per ripiegare sui “tanti/piccoli bisogni singolari”?
La autoderisione percorre i testi come lo svuotamento del contesto. E non va bene, non va bene, non va bene… perché io sono una moralista!
(Però, ci vuole anche un certo coraggio, lo riconosco, da moralista appunto.)