di Luca Chiarei
La gravità della crisi ambientale e climatica ha assunto una tale urgenza che qualsiasi atto politico, strategia, riforma o misura utile ad arrestarla nel suo precipitare, anche solo di un minuto, verso il punto di non ritorno è, comunque, da perseguire. Di conseguenza l’arcipelago dei soggetti politici verdi e ambientalisti dovrebbe organizzativamente convergere in questa direzione, almeno su quegli obiettivi che possono fare da minimo comun denominatore, invece di frammentarsi ideologicamente o generazionalmente. In parallelo con questo sforzo, non è né contraddittorio né accademico riproporre il tema del libro di Michael Lowy ,”Eco-socialismo, una alternativa radicale alla catastrofe capitalistica” (ed. Ombre Corte 2021).
Il tema specifico del titolo non è certamente nuovo: l’eco-socialismo rappresenta uno dei filoni di pensiero che ancora si pone il problema della rimozione delle cause profonde della crisi ambientale; e non solo da un punto di vista tecnologico ma anche politico e, perché no, etico. Si tratta di una questione tutt’altro che risolta nei movimenti ambientalisti; su di essa ancora si continua a discutere, in quanto riguarda l’intreccio tra crisi ambientale/climatica e le cause socio-economiche che la determinano.
Siamo davanti ad un testo importante non tanto per il dibattito interno tra gli addetti ai lavori dell’ecologismo, da spendere in favore di questa o quella sua componente. Oggi, anzi, proprio la presenza istituzionale di un ministro alla “transizione” ecologica pone la questione in maniera ancora più stringente che in passato, se si prende atto dell’approccio di fondo messo in campo da Cingolani, che è quello di: “tollerare, cioè, ingiustizie sociali insanabili e mettere in conto condizioni climatiche ostili alla sopravvivenza e alla rigenerazione della biosfera, pur di non rinunciare alla combustione dei fossili o al nucleare “riabilitati” da un intervento a valle del ciclo, con la pretesa insensata di ridurre le scorie di una produzione energetica insostenibile.”[1]
A questo aggiungiamo che la crisi pandemica ancora in corso e la possibile fuoriuscita da essa sembra avere ridotto ai minimi termini un’analisi anche sulle cause ambientali che possono averla determinata e, come conseguenza, la ricerca di un cambiamento rispetto alla situazione precedente. Nei fatti, dunque, prevale la volontà politica di trovare/tornare quanto prima al punto di ripristino della realtà conosciuta prima del Covid, paradossalmente proprio per quanto riguarda lo sviluppo economico della crescita sempre e comunque. Eppure ben difficilmente i punti di ripristino si potranno effettivamente realizzare.
A me pare che l’interesse per questo libro risieda in tre elementi:
Una riflessione a partire dai testi che dimostrano quanto la tematica ecologica fosse più o meno già presente nella riflessione teorica di Marx ed Engels. Ovviamente nessuno potrà mai “arruolarli” come antesignani della causa ambientale. Pensiamo, ad esempio, all’obiettivo di fondere in un ambiente unico città e campagna, come espresso in questo passo di Engels: “Solo con la fusione di città e campagna può essere eliminato l’attuale avvelenamento di acqua, aria e solo , solo con questa fusione le masse che oggi agonizzano nelle città saranno messe in una condizione in cui i loro rifiuti saranno adoperati per produrre le piante e non le malattie”. E’ una posizione che oggi suona per lo meno bizzarra. Il contesto, infatti, era completamente diverso dal nostro; ed in quel momento le priorità erano soprattutto quelle di un elementare riscatto dei lavoratori da una condizione di totale sfruttamento. Tuttavia, sono molti gli spunti interessanti; che anche la natura, intesa come disponibilità di risorse naturali, fosse già allora oggetto dello sfruttamento da parte del capitale era ben chiaro ai nostri autori. Da questo punto di vista, anche quei settori della sinistra ancora oggi più legati all’industrialismo potrebbero vedere nella lotta contro i cambiamenti climatici uno dei conflitti fondamentali assecondando la conversione ecologica della società.
La presa d’atto che una transizione ecologica non possa né calare dall’alto né essere l’effetto di una avanguardia illuminata e consapevole; oppure il frutto di pianificazioni operate da quegli stessi soggetti che determinano l’attuale crisi climatica. Se, come diceva Alex Langer, la conversione ecologica deve essere sentita come preferibile, allora si deve affermare politicamente anche una etica diversa da quella che sostiene l’attuale modello di sviluppo, per il quale, secondo Lowy, “…valori quantitativi che si misurano in 10, 100, 1000 o 1.000.000, non conoscono né il giusto né l’ingiusto, né il bene né il male: essi dissolvono i valori qualitativi…”. Dunque la critica al capitale o – se il termine non piace, chiamiamolo pure modello di sviluppo, sistema economico attuale, ecc. ecc. (al di là dei termini, la sostanza resta quella) -, deve fondarsi su una etica diversa e soprattutto su una prassi politica non schiacciata sulla gestione del presente; il cambiamento deve essere avvertito come indifferibile, a fronte e nonostante il benessere economico diffuso in buona parte dell’occidente ed “aspirato” soltanto da chi ne è escluso.
Infine, la questione della saldatura dei temi della conversione ecologica con quelli del lavoro: “…parlare di ecologia e parlare di socialismo contestualmente vuol dire cogliere la questione fondamentale per la quale, se la transizione ecologica non offre la possibilità di svolgere un lavoro retribuito non solo in una dimensione individuale / artigianale ma generale, ben difficilmente l’ambientalismo sarà credibile per le masse di lavoratori (che per quanto siano disaggregati sempre massa sono)”. Non affrontare tale questione è certamente possibile; e molti soggetti in campo nell’area verde questo fanno, riducendo così la questione ambientale a una semplice proposta di uno stile personale di vita, rinunciando ad un progetto di trasformazione della società, soltanto perché considerato elettoralmente assai poco spendibile.
[1]Mario Agostinelli, Delle funamboliche esternazioni di Cingolani pochi ne ravvisano lo spirito di fondo, da “Il fatto quotidiano” (qui)
ringrazio Luca Chiarei per aver portato all’attenzione il problema ecologico, inscindibile dalle cause che l’hanno generato, cioè l’estremizzazione dello sfruttamento capitalistico dell’aria, del mare, del suolo e del sottosuolo, con relativo immiseriento dell’umano…il procedere di un sistema economico soverchiante contro la natura anzichè in collaborazione con la natura, di cui facciamo parte. E’ come se continuassimo a mutilare parti del nostro stesso corpo…rivedere il meccanismo perverso che ci ha portato davanti al baratro in nome del profitto è semplicemente vitale…quindi arrestare la corsa sfrenata all’accumulo di merci destinate al consumismo, un vero circolo vizioso, con l’impiego di energie rinnovabili, materiali biodegradabili e un lavoro ben distribuito e retribuito a tutti, con meno carico di ore…Un tema, tra l’altro, molto caro ai giovani, quelli meno trascinati nel sistema…
Quindi trovo efficace l’espressione “Eco-socialismo”, proposta da Michael Lowy, per delineare un percorso di svolta. Un’idea già presente in Marx che, considerando il lavoro agricolo, valorizzava quello svolto nella natura e con la natura, rispettandone le leggi in un metabolismo simbiotico, uomo-natura, e non parassitario, uomo-sulla natura. Assurdo allora che il ministro per la “transizione ecologica” ci proponga l’impiego dell’energia nucleare, già messa al bando…in alto non si vuole rinunciare alla produzione a ritmo veloce, la competizione ha raggiunto ormai livelli parossistici e non puo’ che sfociare in una guerra…Dal basso, allora, speriamo che l’arcipelago dei soggetti ambientalisti e di ispirazione socialista si muova compatto e determinato nell’invertire la rotta, se siamo ancora in tempo. Tutti noi dovremo cambiare molte abitudini per trovare un nuovo equilibrio
Mi unisco alla tua speranza finale anche se, a 35 anni di distanza dalla fondazione del primo soggetto politico verde, i soggetti in campo tendono ancora alla chiusura più che alla sintesi delle varie posizioni.
SEGNALAZIONE DALLA RIVISTA FRANCESE “EN ATTENDANT NADEAU”
Per un comunismo dei vivi
diPhilippe Caumières
8 marzo 2022
“ Nell’era del cambiamento climatico e dei disastri globali, il comunismo è ancora rilevante? Questa domanda che apre il libro di Paul Guillibert, un po’ retoricamente, mostra chiaramente che fa parte di un nuovo modo di pensare. In Land and Capital , il filosofo propone una critica ecologica del capitalismo basata sulle analisi forgiate da Karl Marx, Raymond Williams e José Carlos Mariátegui.
Paul Guillibert concepisce così “ un’ontologia materialista adattata all’Antropocene dove la natura, socializzata, resta tuttavia autonoma ”. L’emergere di nuovi esseri viventi in aree abbandonate dopo essere state devastate attesta il ” potere ontologico di generare ” che la natura rappresenta, anche se quest’ultima ” non esiste mai se non in manifestazioni singolari, vere nature storiche “. Comprendiamo anche che il nostro autore difende ” un multinaturalismo storico ” che vuole essere ” una cosmologia per il comunismo nell’Antropocene “. Considera poi, successivamente, tre orientamenti che non distinguono la questione della protezione della natura da quella dell’emancipazione, o, per dirla in altro modo, che considerano la questione del legame con la terra nel quadro di una politica di emancipazione. Si tratta di tre “naturalismi”: quello “storico” di Marx; quello, “culturalista”, di Raymond Williams; e quello “pratico” di José Carlos Mariátegui.
L’analisi dedicata a Marx, molto stimolante e che qui non si può riassumere, si basa sul capitolo dei Manoscritti del 1857-58 ( Grundisse ) intitolato “Forme prima della produzione capitalistica” per individuare ” le premesse della un’ecologia territoriale ”. Marx sostiene, infatti, nel passaggio in esame, che ” la proprietà collettiva garantisce una forma di unità con la terra che è spezzata dalla proprietà privata “, il che contravviene all’idea accettata secondo cui ” il dualismo delle società e della natura ” sarebbe “ il presupposto di un’ontologia della produzione ” poiché risulta essere piuttosto il risultato di un’evoluzione storica.
Paul Guillibert sa benissimo che questa non è l’unica linea di lettura di questi Manoscritti che in realtà presentano due concezioni della storia riferite a due modi di pensare la natura: quello appena affermato, dove essa « appare come la condizione di ogni storia sociale ”; l’altro, dove è inteso “ come l’origine da cui l’umanità deve liberarsi per individualizzare ”. È sciogliendo il filo che lega la prima di queste righe alla riflessione svolta da Marx, dopo il 1870 e la caduta della Comune di Parigi, a partire dai suoi scambi con militanti populisti russi che facevano parte di « una tradizione rivoluzionaria che fonda la futuro del socialismo sullo sviluppo dei comuni agrari », così come dalla sua lettura dell’opera del chimico Liebig che mette in discussione i misfatti dell’agricoltura capitalista per l’ambiente naturale, che il nostro autore fa emergere quella che chiama « un Marx ‘minore’ o ‘minoritario’, quasi sconosciuto durante la sua vita e ignorato dai suoi eredi ”. Si tratta di un Marx che, considerando le condizioni che dovrebbero consentire al comunitarismo russo di superare le tensioni che non può non incontrare a contatto con lo sviluppo capitalista, ritiene che ” le contraddizioni del territoriale e del globale consentono futuri singolari “.
L’evidenziazione in Marx di una preoccupazione per la contingenza storica abbastanza lontana dalla sua tendenza positivista (averlo portato a pensare al futuro delle società sulla base di un’analisi che vuole essere obiettiva perché basata sulla loro infrastruttura economica) trova un bella posterità in Raymond Williams, figura centrale negli studi culturali , per il quale la cultura è “ un aspetto costitutivo di tutti i fenomeni sociali, compresi quelli economici ”. Si percepisce così che egli aspira non tanto all’“ avvento di un nuovo modo di produzione ” quanto alla “ realizzazione di uno stile di vita naturalistico ”. Williams, che si rifiuta di rinunciare ” alla canzone della terraai reazionari, infatti, invita a riconsiderare il nostro rapporto con la natura voltando le spalle sia al “ mito prometeico della produzione ” sia a quello “dell’armonia naturale della campagna ”.
Intellettualmente stimolante, il naturalismo culturale rimane probabilmente troppo vago per offrire un reale orientamento pratico, tanto più che il rischio di “una radicalizzazione romantica della comunità radicata ” non sembra proprio scongiurato. Paul Guillibert lo sa bene, ma non intende “ privarsi del repertorio critico di motivi naturalisti ”. Invita anche a comprendere che questa ambivalenza “ fa parte di una contraddizione storica la cui risoluzione sarà politica ”. Si rivolge quindi all’opera del peruviano José Carlos Mariátegui che, poiché ha cercato una via per il socialismo dando uno sguardo un po’ mitizzato al “comunismo inca”, gli sembra illustrare “un modo esemplare per tener conto dell’aspirazione pratica al ritorno alla terra in una lungimirante filosofia del comunismo ”. Abbinandolo alle tesi sviluppate da Ernst Bloch – l’autore de Il principio della speranza che, dal 1935, cercò di rendere conto dell’ascesa del fascismo in Europa e del successo del nazismo in particolare – e senza mai evitare le difficoltà che ciò pone, il nostro autore sostiene che il mito dell’attaccamento alla terra può svolgere il ruolo di “ orizzonte utopico soggettivamente necessario per un movimento rivoluzionario ‘che liberamente inventa il futuro’ ”.
Si comprenderà, più che una presentazione seguita da una tesi, Paul Guillibert propone, sempre con grande chiarezza, la presentazione di momenti della storia del marxismo consentendo la difesa di un comunismo che deve ” rifondare la sua cosmologia su un naturalismo rinnovato ” mentre puntare alla “ riappropriazione delle condizioni di sussistenza contro la monopolizzazione capitalista ”: quello che chiama “ un comunismo dei vivi ”, includendo così “ un comunismo vivente ” che si oppone a ogni dogmatismo; un “ comunismo del lavoro vivo ” che contesta ogni forma di sfruttamento in quest’area; e “ un comunismo dei vivi ” che incoraggia “ la difesa di beni comuni multispecifici “.
Segnaliamo in conclusione che, preoccupato dell’effettiva realizzazione di questo orientamento, l’autore propone di aggiornare ” temporaneamente ” la strategia del ” doppio potere nell’Antropocene “, tenendo conto dei ” consigli ecologicicome controlli e contrappesi necessari al potere dello Stato. Questa analisi, avanzata a conclusione del libro, insieme suggestiva e non sufficientemente precisa, ci fa rammaricare che l’autore non abbia tenuto più in considerazione i contributi di pensatori critici della burocrazia che non hanno mai rinunciato alla lotta per l’emancipazione di tutti. in un mondo di cui avevano perfettamente misurato la fragilità, ignorando notevolmente il progetto di autonomia difeso da Castoriadis. Ciò non toglie in alcun modo il grande interesse di quest’opera che è totalmente in sintonia con le sfide del suo tempo.
(Da https://www.en-attendant-nadeau.fr/2022/03/08/communisme-vivants-guillibert/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-n-146-2)
SEGNALAZIONE
Marxismo ed ecologia: analisi di un dibattito internazionale – di Francesco Barbetta
http://effimera.org/marxismo-ed-ecologia-analisi-di-un-dibattito-internazionale-di-francesco-barbetta/?fbclid=IwAR03av0W2wEtSpsYMJhIl2V2VSk6jUy9Eq6bSEPLSGIeqDjvzFgqmSqvw58
Il volume di Jacopo Nicola Bergamo, Marxismo ed ecologia. Origine e sviluppo di un dibattito globale (ombre corte, 2022) – che la recensione di Francesco Barbetta discute nel dettaglio – si propone di fare il punto su un ambito di discussione, quello appunto dell’eco-marxismo, in grande fermento negli ultimi anni.
Un buon modo per inquadrare la dinamica del confronto è quello di distinguere tra analisi che si propongono di mostrare la dimensione ecologista dell’opera di Marx – in modo tale che il Moro di Treviri si presenti come ambientalista ante litteram – e analisi che invece si propongono di interrogare l’archivio marxiano a partire dalla politicizzazione della crisi ecologica tra gli anni 60 e 70 del secolo scorso – a partire, cioè, da un insieme di problemi che, semplicemente, non esisteva ai tempi in cui Marx scriveva.
Del primo gruppo fanno parte i teorici della frattura metabolica (Burkett, Foster, Saito), del secondo chi ha esplorato strade più sperimentali, spesso sulla scia dei movimenti sociali (Federici, Merchant, O’Connor). Vi sono poi voci (Malm, Moore, Salleh) che rivendicano una continuità forte col pensiero di Marx – e pure con il marxismo – senza esprimersi direttamente su questo passaggio.
Quasi superfluo concludere ribadendo che la posta in gioco del dibattito in oggetto non è filologica ma politica: solo la riflessione collettiva potrà trasformare le varie opzioni teoriche in efficaci strumenti del conflitto sociale (Emanuele Leonardi).