SECONDA PARTE CON APPENDICE
di Franco Romanò
Torniamo ora alle lezioni di Sraffa. Le abbiamo lasciate in un momento che possiamo ancora considerare un preambolo, che continua con una divagazione che riguarda in particolare Adam Smith e i presupposti della sua ricerca, che Sraffa vede nella necessità di attaccare il mercantilismo. Nel prosieguo, il discorso si allarga alle concezioni filosofiche ed è proprio su questo argomento che Sraffa fa questa affermazione:
… Dobbiamo ricordare … la differenza fra la moderna e nostra concezione della legge naturale e quella che ne aveva Smith … Noi concepiamo la legge naturale come il modo in cui una particolare classe di eventi si verifica, tale che essa non possa avvenire in nessun altro modo. Per Smith la legge naturale è una sorta di forza esterna direzionata verso fini benefici e armoniosi, ai quali è tuttavia possibile sfuggire, a condizione che si diventi però passibili di una sanzione … Tale nozione è particolarmente adatta quando una particolare politica chiamata in causa deve essere rappresentata come una legge naturale, in un modo cioè che la moderna concezione di legge naturale rifiuta.
Smith era davvero così ingenuo? In realtà, il bersaglio polemico di Sraffa è più vasto. L’idea di far credere che una teoria economica sia conforme alle leggi naturali era certamente il sogno di Smith, tuttavia, la ricerca di Sraffa, non coltiva l’illusione – scientista – di eliminare qualsiasi elemento ideologico (cosa impossibile), ma di ridurne al minimo la presenza in una teoria. Il progetto di preparare l’armatura o lo scheletro di una teoria che almeno nelle sue equazioni di base eliminasse il più possibile l’area dell’arbitrarietà, non è affatto un progetto asettico o neutro, perché è comunque ancorato alla consapevolezza che ciò è possibile fino a un certo punto. Dopo Smith, le Lezioni non potevano che riprendere da Ricardo, cui tuttavia Sraffa dedica poche e scontate affermazioni in questa fase, per concludere poi con Torrens:
… Gli interessi pratici di Ricardo sono più ovvi. Era un uomo d’affari che trascorse gran parte del suo tempo nello Stock Exchange. Il suo interesse nei confronti della politica economica nasceva dalle controversie quotidiane in cui era coinvolto … Solo in tarda età s’interessò di teoria economica e lo fece per un suo personale piacere, scrivendo i Principi di Economia Politica … Il suo focus è interamente dedicato alla distribuzione e la sua teoria del valore va compresa considerando tale punto di vista; perciò essa guarda molto di più al valore dei fattori della produzione piuttosto che al prezzo dei prodotti (a differenza di Smith ndr) … In una lettera a Malthus egli scrive: “Voi pensate che la politica economica sia lo studio sulla natura e le cause della ricchezza; io penso invece che si tratta di uno studio sulle leggi che determinano la divisone del prodotto di un’impresa fra le classi che concorrono alla sua formazione.” …
Nella prefazione dei suoi Principi ritorna sulla questione: “… il problema principale della Politica Economica è quello di determinare le leggi che regolano la distribuzione del prodotto della terra, tutto ciò che viene dalla sua superficie, unito al lavoro, alle macchine e al capitale, fra le tre classi sociali della comunità: i proprietari terrieri, i possessori di capitali necessari alla coltivazione, i lavoratori”.
Le parole usate in tale definizione sono assai significative. S’intende infatti con esse applicare tale definizione alla distribuzione dell’intero prodotto nazionale, ma egli nomina solo i prodotti della terra … Tale teoria della distribuzione costituiva un argomento moltoforte contro le Leggi sul Grano e la controversia che ne sorse … Nelle successive edizioni dei Principi si possono trovare affermazioni opposte a supporto di entrambi i punti di vista … Tuttavia, qualunque cosa egli avesse in mente, la sua teoria del valore fu intesa dai contemporanei in questo modo: che la quantità di lavoro era la sola causa del valore ed è questo in definitiva che importava … Nel conflitto fra lavoro e capitale essa diventava ovviamente un argomento molto forte a favore del lavoro. … Per Torrens, invece, non è il lavoro diretto a determinare il valore, ma il lavoro indiretto, cioè accumulato, che egli identifica con il capitale … Tale affermazione gli permette di sostenere che solo il capitale determina il valore e di dare nello stesso tempio l’impressione che egli consideri anche il lavoro, ma si tratta di una soluzione puramente verbale. McCullogh … cambia la definizione della parola ‘lavoro’ e include in essa ogni cosa suscettibile di influenzare il valore del prodotto e afferma: “Il lavoro può essere propriamente definito come qualsiasi operazione o azione, sia essa compiuta da esseri umani, animali, macchine o agenti naturali che tendono a portare a un certo risultato desiderato” Ma in questo modo, se i materiali vengono misurati come costo del lavoro, ma direttamente come materiali, ci sarebbe quella stessa omogeneità con la teoria del costi fisici di Petty e dei Fisiocratici …
Il modo in cui affronta il pensiero di Ricardo permette di ribadire il metodo e gli obiettivi che Sraffa si propone. Il suo intento, che è poi la chiave delle Lezioni, sta nel separare le questioni datate dal nucleo veritativo che le proposizioni classiche, tutte – e quindi a partire dai fisiocratici – mantengono ancora, per poterle usare contrapponendole alle teorie marginaliste e alla scuola austriaca. Per questo la sua disamina, vasta e a volte pedante, è tuttavia necessaria. In Produzione di merci a mezzo merci tutto questo lavorio di decenni sfocerà tuttavia in un giudizio molto chiaro contenuto nella Prefazione del libro e ripreso nel capitolo finale intitolato Sulle fonti. Nella prima Sraffa scriverà:
… L’indagine riguarda esclusivamente quelle proprietà di un sistema economico che sono indipendenti da variazioni nel volume della produzione, e nelle proporzioni fra i “fattori” impiegati. Questo punto di vista, che è quello degli economisti classici da Adamo Smith a Ricardo è stato sommerso e dimenticato in seguito all’avvento della teoria “marginale” …
Nel capitolo finale fra i classici verranno recuperati anche Torrens, i fisiocratici e Marx. Il secondo aspetto del suo metodo è basato anche su una sorta di applicazione flessibile del rasoio di Occam. Lo vediamo proprio quando si riferisce al modo in cui vengono recepite le affermazioni di Ricardo: non è tanto importante capire fin nel dettaglio cosa intendesse dire, ma il modo in cui una definizione decisiva come quella del valore che dipende solo dalla quantità di lavoro incorporato è stata recepita. Del resto, tale definizione è addirittura il titolo di un capitolo dei Principi di Ricardo e dunque difficilmente può essere equivocata in quel contesto. Sraffa ritorna sempre a ripetere in forme diverse che una teoria economica non può che risentire dei conflitti sociali che sottostanno ad essa e il problema della distribuzione del reddito fra le diverse classi era ed è il problema dei problemi e lo sarà naturalmente per Marx. Le note che seguono le riflessioni precedenti sono dedicate a Malthus e altri. Pur importanti da un punto di vista storiografico, si possono tralasciare per giungere a una prima svolta nelle Lezioni. In ogni caso e come sempre il testo inglese in Appendice è completo.
… I primi anni settanta costituiscono un momento di svolta nella storia dell’economia. Da un lato Marx pubblicò Il Capitale, dove la critica al sistema capitalistico è interamente basata su McCulloch, una soluzione che sembra sciocca a prima vista; ma lo è davvero? Naturalmente, dal punto di vista della distribuzione, ci sta in essa tutta la differenza fra lavoro umano e lavoro di un cavallo: il consumo di un uomo è parte del prodotto nazionale, quello di un cavallo no. Perché, tuttavia, dovrebbero avere un diverso effetto sul valore del prodotto, nel caso in cui essi svolgessero un compito simile?…
Può sembrare un approccio minimalista l’esempio scelto da Sraffa, tuttavia nella sua affermazione, egli riconosce che la svolta degli anni ’70 gira intorno alla pubblicazione del Capitale. È quanto afferma nel finale, pur lasciando in sospeso una questione rilevante che viene posta dall’interrogativo conclusivo sulla differenza fra il lavoro di un cavallo e il lavoro umano. Tuttavia, subito dopo, egli comincia ad affrontare un’altra questione: la nascita del marginalismo, infatti, è di poco successiva al diffondersi del pensiero di Marx ed è proprio a questa teoria che si rivolge nel prosieguo, con una nuova mossa del cavallo che lascia in sospeso cosa egli pensi veramente, aldilà della battuta su McCulloch, che non riprende esattamente la formula di Marx e anche a questo dovremo dedicare attenzione. Si può anticipare che i problemi che Sraffa lascia in sospeso anche nelle Lezioni, verranno ripresi nel 1940 quando la cura dell’opera omnia di Ricardo sarà conclusa. Così prosegue Sraffa:
… Sull’altro versante, la nuova teoria del valore basata esclusivamente sull’utilità marginale, fu inventata quasi simultaneamente e indipendentemente gli uni dagli altri, in Inghilterra da Jevons, da Menger in Austria e da Walras in Francia, il solo ad essere consapevole di quanto lontano si andasse con il marginalismo e nella prefazione della sua Teoria di Economia Politica afferma che occorreva rovesciare completamente tutte le dottrine nate intorno al binomio Ricardo-Mill e ricominciare daccapo … Il fatto realmente nuovo e che costituì una rottura nella tradizione della Politica economica, era che la teoria marginale fosse proposta da economisti professionali mentre i precursori erano soltanto degli amateurs della materia o peggio … A questo proposito preferisco la visione del problema che hanno il professor Fetter e sir Ashley, e cioè che esiste una stretta relazione fra l’apparire del marxismo e la pronta e straordinaria accettazione della teoria dell’utilità marginale fra gli economisti ortodossi i quali essendo dei conservatori erano soltanto felici di sbarazzarsi della teoria del valore lavoro, nonostante l’enorme autorità della tradizione economica classica.
L’ironia con cui Sraffa ricostruisce tale passaggio storico, mi sembra degna di nota. Il marginalismo, cioè il ritorno all’economia volgare da parte di quelli che chiama amateurs (ma in altre occasioni usa parole ancora più forti), viene fatta improvvisamente propria da illustri accademici. Siamo cioè in un contesto ben diverso da quello descritto in precedenza, laddove Sraffa parlava della cristallizzazione della teoria che porta con sé scorie ideologiche. Nel caso del marginalismo la falsa coscienza è il punto di partenza non la sua deriva e Sraffa in fondo lo dice con tale affermazione, niente affatto neutra e che mi sembra utile riprendere:
… esiste una stretta relazione fra l’apparire del marxismo e la pronta e straordinaria accettazione della teoria dell’utilità marginale fra gli economisti ortodossi i quali essendo dei conservatori erano soltanto felici di sbarazzarsi della teoria del valore lavoro, nonostante l’enorme autorità della tradizione economica classica …
Una ragione dunque del tutto ideologica e connessa con l’osservazione precedente riguardante la svolta degli anni ’70 che si coagula poi intorno alla pubblicazione del Capitale. A questo punto si pone tuttavia un interrogativo. Vista la nettezza con cui Sraffa si esprime nei confronti di una teoria che definirà con il termine di aberrazione, cosa gli impedisce di dichiarare apertamente il suo ritorno all’economia classica e a Marx? La risposta si trova in parte negli scritti coevi alle Lezioni, su cui è necessario ritornare, chiarendo tuttavia che una soluzione definitiva dei dilemmi in cui Sraffa si trova impigliato, la troveremo solo con molta pazienza e molti anni dopo. Peraltro, tale dilemma lo conosciamo già perché è il solito e cioè come tenersi in equilibrio fra la critica radicale del marginalismo e un ritorno sic et simpliciter ai classici, che egli ritiene altrettanto improponibile.
Torniamo allora per la seconda volta al saggio di Neri Salvadori e Kurz dedicato agli scritti coevi alle Lezioni. Nel capitolo del loro saggio intitolato Ulteriori osservazioni, essi così si esprimono:
Per Sraffa la teoria del valore lavoro era la più importante di una singola-ultima-causa-della teoria del valore, prima dell’avvento del marginalismo. Tuttavia, essendo critico nei confronti del marginalismo egli valutava la teoria assai prossima a quel nucleo dell’approccio fisico al problema del costo reale, dal momento che basava la sua spiegazione sullo stesso set di dati fisici: il sistema della produzione in uso, espresso in termini di quantità di prodotto consumato e prodotto, e il salario reale, dati che avevano una esistenza oggettiva e potevano essere misurati fisicamente. … In questo studio noi forniremo alcune evidenze che si trovano negli SP (Sraffa papers ndr), che hanno a che fare con questo tema. In primo luogo, considereremo il primo approccio di Sraffa al problema, quando si domanda se sia solo il lavoro umano a creare valore …
Nella Nota 18, Neri Salvadori e Kurz riportano un documento del ‘29 in cui Sraffa specificò le quantità da prendere in considerazione nella teoria economica in questo modo:
… tali sono le quantità di diversi materiali usati o prodotti, terra, quantità di lavoro, lunghezza del periodo. Queste sono le sole quantità che devono entrare come costanti un teoria economica e questo vanno assunto come conosciute e date …
Questo dimostra che già dal 1929 Sraffa s’interrogava in materia di lavoro e sulla possibilità di considerarlo come una costante data e dunque da quantificare e come produttore di valore: il suo dubbio riguarda se il lavoro sia il solo elemento a determinare il valore. Anche Neri Salvadori e Kurz fanno risalire agli interessi scientifici che Sraffa coltiva in quegli anni certe sue affermazioni:
… Molto probabilmente Sraffa studiò La scienza e l’ipotesi di Henry Poincaré del 1902 e giunse alla conclusione che gli economisti non potevano ignorare le leggi fisiche chimiche e biologiche. Anche questo lo spingeva nella direzione di considerare l’approccio fisico al costo reale piuttosto che una teoria basata sul lavoro e così scrive:
“… la differenza fra costi fisici reali e l’ipotesi di Ricardo e Marx riguarda la teoria dei costi-lavoro, sta nel fatto che la seconda non include nei costi le risorse naturali che vengono usate nel corso della produzione (ferro, carbone ed esaurimento della terra, aria acqua ecc. … Questo perché parlano di energia umana e altre questioni metafisiche”.
Da questa citazione sembrerebbe che Sraffa rifiuti implicitamente il discorso dell’umano come ente generico, dal momento che attribuisce a Marx intenti addirittura metafisici; ma probabilmente la sua è una risposta polemica da leggersi come il riproporsi della consueta oscillazione che è tuttavia destinata risolversi negli anni ’40. Sempre nel 1928, infatti, Sraffa si sofferma su un frammento di Eraclito che recita così: “Ogni cosa si contraccambia con il fuoco, ed il fuoco in ogni cosa come l’oro in merci e le merci in oro.” Riprendono Neri Salvadori e Kurz:
Sraffa scrisse della necessità di trovare un terzo comune in un appunto degli anni ’20. … In esso cercava di chiarificare la relazione fra due diverse teorie del valore. Con la prima si cercava di stabilire come i valori di una merce si rapportino le une con le altre in un luogo e in tempo dati e dunque simultanei, un’altra che prende in considerazione i cambiamenti di valore in una successione di tempi. … La conclusione cui arriva però è assai interessante: porre la questione in questi termini è un trucco verbale …
Certo, si può affermare che c’era molta oscillazione e anche molta confusione in queste citazioni degli anni ’20 e infatti Sraffa, agli inizi degli anni’30, si trovava effettivamente in una condizione anche personale di crisi e di difficoltà nello scegliere che strada prendere: anzi, si trovava in uno stallo vero e proprio. Non ringrazieremo mai abbastanza Keynes che, proprio allora, forse intuendo le difficoltà del nostro, ebbe la sagacia di proporgli di curare l’opera omnia di Ricardo, consistente di ben 17 volumi. Sraffa accettò. Fu una cesura salutare che gli permise una via d’uscita, quel tertium che andava cercando anche nella teoria economica. Tornò al problema della sostanza comune alle merci come tertium comparationis nel 1940, dopo che aveva concluso l’impresa monumentale e quando fu internato nell’isola di Man, dove si dedicò alla lettura dell’edizione appena ripubblicata del primo libro del Capitale. Scrisse alcune note che si trovano proprio nella sua copia personale del libro. Esse riguardano il primo capitolo del primo libro, laddove Marx s’interroga sulla sostanza comune delle merci.
APPENDICE SECONDA PARTE
Ricardo’s practical interests are much more obvious. He was a business man and spent most of his life in the Stock Exchange. His interest in political economy originated in the political controversies of his day in which he took part, and
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for many years his contributions to economics were pamphlets of a practical character. Only in the later years of his life did he take an interest in theory for his own sake and wrote his Principles of Political Economy. His theoretical work, notwithstanding its abstract appearance, is deeply influenced by his practical interests. In the first place his interest lies entirely in distribution, and his theory of value is to be understood from this point of view; that is, it is concerned much more with the value of the factors of production than with the price of particular products. The wording of this definition is remarkable; it is intended meant to apply to the distribution of the whole of the national income, but it only mentions the produce of the
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surface of the earth, and regards all capital and all the labourers as only engaged in its cultivation. In one of his letters to Malthus he says: “Political economy you think is an enquiry into the nature and causes of wealth; I think it should rather be called an enquiry into the laws which determine the division of the product of industry amongst the classes who concur to its formation.” And again in the Preface to the Principles he declares that “the principal problem in Political Economy is to determine the laws which regulate distribution”, that is the distribution of “the produce of the earth, all that is derived from its surface by the united application of labour, machinery and capital…among the three classes of the community, namely the proprietor of the land community, namely the proprietor of the land, the owner of the stock or capital necessary for its cultivation, and the labourers by those industry it is cultivated.” The wording of this definition is remarkable; it is intended meant to apply to the distribution of the whole of the national income, but it only mentions the produce of the
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surface of the earth, and regards all capital and all the labourers as only engaged in its cultivation. Ricardo was a city man, in fact he was in his outlook a typical representative of the commercial and manufacturing classes and was not likely to over-estimate the importance of agriculture, as the French physiocrats did, so as to make it include all productive industry. This definition is in fact characteristic of Ricardo’s main interest which was not so much distribution in general between all those who take a part in it as distribution between the landlord on one side and all the others on the other. As Professor Cannan has shown, the origin of the Ricardian theory of distribution is entirely to be found in the Corn Controversy of 1813-15. Ricardo’s scientific interest in economics has already been {?} established in his pamphlets. This theory of distribution was an extremely effective argument against the Corn Laws. “The divergence of interests with regard to the Corns Laws was a typical divergence of the interests of classes, and not of individuals. It was not a question of the rich against the poor, but of the land-owning class against the commercial and manufacturing class.” Ricardo’s theory regarded as the fundamental problem, connected with the cost of production and value, the distribution between the landlord and the other classes; when this was done the division of their share between capital and labour would take place on entirely Corn Laws
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different principles, but changes in the proportions of this distribution would not materially affect the value of the product. The general drift of his argument led up to the conclusion which he often states, that “the interest of the landlord is always opposed to the interest of every other class in the community. His situation is never so prosperous as when food is scarce and dear; whereas all other persons are greatly benefited by procuring food cheap.” This fact is to be kept in mind when we try to interpret Ricardo’s theory of value. The essential thing for Ricardo’s practical purposes was to prove that rent does not enter into the cost of production of that final part of the product which regulates value. For this purpose it was indifferent whether cost of production included only labour or all sorts of also the use of capital; and this explains the carelessness of Ricardo in stating his position in this respect. At a later stage we shall go into the details of the peculiar position which land occupies in economic theory, and we shall see how the modern tendency is to look upon it in very much the same way as upon any other means of production; thus reducing the problem of distribution to the division between incomes from property and incomes from work. But for well over a century the traditional grouping of the classes that take part
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in distribution has been three-fold; that is, it has regarded distribution as taking place between labour, capital and land. The origin of this classification is mainly to be found in the Corn Law controversy in which Ricardo took part. The question whether the Corn Law should be passed or not turned upon the question whether the prosperity of agriculture should be acquired at the cost of an increase in the price of food and therefore through the increase of the manufacture’s costs of production, at the cost of with the result of an industrial depression – or agriculture should have been sacrificed to the prosperity of industry by allowing cheap foreign corn to be imported freely. From this point of view Ricardo’s theory of value, based upon a cost of production from which rent is excluded, was an effective weapon against the Corn Laws. The whole significance of the question whether a given element of expence does or does not “enter into cost of production” being that in the negative sense if it does not it can be taxed or taken away altogether from its recipient, without causing any reaction upon production; whereas if it enters into cost it cannot be taxed without causing a decrease of production. For Torrens, for instance, This, enabling him to say that only capital determines value, gives the impression that he is taking into account both capital and labour; but in fact is solution is purely verbal. McCulloch … changes the definition of the word ‘labour’ so as to make it include everything that may possibly influence the value of the product: “Labour may properly be defined to be any sort of action or operation, whether performed by man, the lower animals, machinery, or natural agents, that tends to bring about any desiderabile result” … But if the materials were not measured by the labor they cost, but directly as material, there would be homogeneity in the theory (physical cost) similar to that of Petty and Physiocrats. The early seventies mark a turning point in the history of economics. On the one hand Marx published the Capital, in which his critique of capitalism is entirely based upon McC. solution seem very silly at first sight. But is it really? Of course, from the point of view of distribution there is all the difference between the work of a man and of a horse: the consumption of man is part of nat. income, that of horse not. But why should they have a different effect on value of product, in cases in which they perform a similar task?
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What Ricardo’s views were on this point is rather obscure, and it would be hard to say whether his theory of value based on the quantity of labour must be taken literally or interpreted as including the use capital amongst costs. Probably, as Professor Hollander as shown in his book on Ricardo, he held different views at different times, and this changing views having been embodied in successive editions of the Principles, the result is that opposite passages from them can be quoted in support of both views. But however the historical point as to the interpretation of Ricardo is settled, it is, I think, true to say that Ricardo’s views on this point are not very important; they play a secondary part in his theory, and, as the question had no practical importance in his time, he certainly gave little thought to it. But soon after the death of Ricardo, with the growth of manufactures and the rapid introduction of machinery, another conflict in the distribution of the national product, the conflict between manufactures (i.e. employers) and their workers, began to take the place of the old conflict between landlords and manufacturers. Up to that time the question of the distribution between capital and labour had remained in the background, both in real life and in economic theory. It now became the central issue
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in both fields. Ricardo’s theory of value, whatever may have been in the back of his mind, or in his footnotes and in his private letters to Malthus and McCulloch, was understood by everybody in his time to mean that quantity of labour was the only cause of value, and this is what in practice mattered. In a conflict between landlords and manufacturers, particularly when this word is meant to include both employers and workers, the theory works in the interest of the manufacturers. But in a conflict between labour and capital it obviously becomes a strong argument in favour of labour. A Socialist school arose in the twenties and thirties of last century which ceased seized this opportunity of using against the capitalist the teaching of what was at the time the most orthodox political economy. The best known of these socialists are William Thompson, who wrote The Inquiry into the Principles of the Distribution of Wealth most Conducive to Human Happiness, and Thomas Hodgskin, author of Labour Defended against the Claim of Capital; their argument was very simple – since, as Ricardo has proved, all values is produced by labour, all the product must go to labour and nothing must remain for the capitalist and landlord who have produced nothing. This caused a good deal of confusion amongst the orthodox Ricardian economists, who saw their doctrines used in such an unexpected way; and who, as a matter of fact, were already
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realising the difficulty of explaining by the labour theory of value the fact that for commodities which take different periods of time to be produced or require different proportions of fixed and circulating capital, the value is not proportional to the labour required for their production. In this country the prestige of the Ricardian theory was far too great to enable it to be discarded altogether as being, in the circumstances, definitively mischievous. But in America and on the Continent, where Ricardo had had a considerable influence, new schools were formed which were definitely opposed to everything Ricardian. I shall only quote in this respect the opinion of Carey, an American economist who wrote in the forties: “Mr Ricardo’s system is one of discords…its whole tends to the production of hostility among classes and nations…His book is the true manual of the demagogue, who seeks power by means of agrarianism, war, and plunder…The sooner (the lessons which it teaches) shall come to be discarded the better will it be for the interests of landlords and tenant, manufacturer and mechanic, and mankind at large.” But the English Ricardian economists made a whole series of attempts In order to save the substance of the labour theory of value and at the same time taking away from it the anticapitalist implications. Torrens, for example, tried to explain that it is not the labour directly spent in the production of a commodity Carey on Rent in a new continent
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that determines its value; but only the indirect labour, that is, the accumulated labour which enters into its production, which he identifies with capital. This accumulated labour that a product costs is, according to Torrens, the labour which its raw material costs to produce, plus the labour which the machinery employed costs, plus – not the labour actually employed upon it – but plus the labour which the subsistence of this labour costs to produce. Thus he concludes that: “It is always the amount of capital or quantity of accumulated labour and not the sum of accumulated and immediate labour expended on production, which determines the exchangeable values of commodities.” This, enabling him to say that only capital determines value, gives the impression that he is taking into account both capital and labour; but in fact his solution is purely verbal. He remains faced by the same difficulty as the usual form of the theory, since the capital thus defined is proportional to labour. McCulloch has a much more extraordinary way of overcoming the difficulty; he changes the definition of the word ‘labour’ so as to make it include everything that may possibly influence the value of the product: “Labour may properly be defined to be any sort of action or operation, whether performed by man, the lower animals, machinery, or natural agents, that tends to bring about any desiderable result”. The distinction between the operations of man and those of machinery and natural agents is “on the whole objectionable because it gives countenance to the idea that there is some radical difference between the labour of man and of machinery, etc. whereas in so far as the doctrines and conclusions of political economy are concerned they are in all respects the same.” (Princ. P.E., III, p. 313-317 quot by Malthus) But if the materials were not measured by the labor they cost, but directly as material, there would be homogeneity in the theory (physical cost) similar to that of Petty and Physiocrats
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Malthus’s criticism of this solution is worth quoting “There is nothing that may not be proved by a new definition. A composition of flour, milk and stones is a plum pudding; if by stones we meant plums. Upon this principle Mr McCulloch undertakes to show that commodities do really exchange for each other according to the quantity of labour employed upon them: and it must be acknowledged that in the instance which he has chosen he has not been deterred by apparent difficulties.” (Definitions P.E., 100-1) The difficulty was finally met by the introduction into economics of the notion of abstinence, the sacrifice contributed by the capitalist to production, as the counterpart of labour, the sacrifice of the worker. But with Senior, who first introduced it, this remains purely in the form of an attempt to give a moral justification of interest on capital, as the legitimate reward of the capitalist: this is of course entirely different from trying to prove that abstinence enters into the cost of production, in the sense of determining its value – and this Senior did not attempt. However, the notion of abstinence entered permanently into the body of orthodox economics when Mill made of it a part of his own version of the Ricardian theory of value. Thanks to the influence of Mill, the Ricardian theory, although considerably qualified and changed in important respects, dominated political economy up to the seventies. The early seventies mark a turning point in the history of economics. On he one hand Marx published the Capital, in which his critique of capitalism is entirely based upon McC. solution seems very silly at first sight. But is it really? Of course, from the point of view of distribution there is all the difference between the work of a man and of a horse: the consumption of man is part of nat. income, that of horse not. But why should they have a different effect on value of product, in cases in which they perform a similar task? (Ricardo once takes this view when he says that substituting a horse for a man does not decrease the gross revenue). Abstinence for S. takes place only at one instant when the wealth is produced: then it can be either consumed or saved, once and for all: thus only he who has originally produced and earned it can ave it: who inherits it, e.g., does not practice abstinence. Of course, the modern interpretation of abstinence, is that it takes place all the time so long as the capital is being employed in production: and this is the only conception relevant to the theory of value. Senior’s is purely a moral justification
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Ricardo’s theory of value, although of course he interpreted it in an entirely different way from the early Utopian socialists. On the other hand, the entirely new theory of value, based exclusively on marginal utility, was found (or invented) almost simultaneously and independently by Jevons in England, Menger in Austria, and Walras in France. We hardly realize at present how deep and far-reaching the change has been. But Jevons, for instance, was fully conscious of it. In the preface to his Theory of Political Economy he plainly declared that it was necessary to overthrow all the principal doctrines of the Ricardo-Mill economics and to start anew: “The conclusion to which I am ever more clearly coming is that the only hope of obtaining a true system of economics is to fling aside once and for ever the mazy and preposterous assumptions of the Ricardian school.” This will appear even more plausible if we think that But the real novelty was not really in the conception itself. In fact the theory of marginal utility had already been discovered independently over and over again before the time of Jevons, by Cournot in the thirties, by Dupuit in the forties and by Gossen in the fifties; but nobody had taken the slightest notice of it. And although Gossen, for example, was so much conscious of its importance that he announced it as a discovery comparable to that of Copernicus he felt obliged to withdraw his book from circulation owing to its complete failure.
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On the other hand, the entirely new theory of value, based exclusively on marginal utility, was found (or invented) almost simultaneously and independently by Jevons in England, Menger in Austria, and Walras in France. We hardly realize at present how deep and far-reaching the change has been. But Jevons, for instance, was fully conscious of it. In the preface to his Theory of Political Economy he plainly declared that it was necessary to overthrow all the principal doctrines of the Ricardo-Mill economics and to start anew …
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The really new fact was in the first place that these ideas, which meant an absolute break in the tradition of Political Economy should be propounded by professional economists such as Jevons, Menger and Walras. The forerunners I have mentioned were either cranks or amateur economists … I rather prefer to accept prof. Fetter’s and Sir W. Ashley view, that there is a close relation between the appearance emerging of Marxism and the extraordinarily
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ready acceptance which the theory of marginal utility [gained] amongst orthodox economists. And that conservative minded people were only too glad to seize an opportunity of getting rid of the labour theory of value, notwithstanding the enormous authority it derived from the tradition of the classical economists