di Donato Salzarulo
[Per la prossima “Giornata della memoria” propongo all’attenzione del pubblico di Poliscritture due testi pubblicati nel gennaio 2013 sui blog “La poesia e lo spirito” e “Moltinpoesia”. Questo è il primo, l’altro uscirà domani. Sono molto desideroso di imparare da un eventuale dibattito]
Quando visitammo il campo di concentramento e sterminio di Auschwitz-Birkenau, evitammo alle bambine la vista di alcune sale. Troppo crudo mostrare la massa di capelli a ciocche, a trecce tramati come stoffe. (Non ricordo se frammenti d’ossa fossero bottoni). Non tutto diventava cenere tra betulle e nel fiume. Spoglie spaventate prima d’essere infornate andavano ulteriormente spogliate. I capelli di donne potevano diventare parrucche, morbido tessuto di pantofole, spago per giunti a tenuta stagna dei sottomarini e con le pelli produrre paralumi, grasso per sapone. Shlomo Venezia ha raccontato d’aver tagliato sacchi di capelli ed il fratello d’aver cavato migliaia di denti d’oro alle bocche gassate. Insieme agli anelli venivano fusi in lingotti, gioielli da rivendere. Follia?...Basta avere sotto gli occhi la pianta generale del campo per capire quanto fosse accurato il progetto: ingresso dei treni, torre principale di controllo, primo, secondo e terzo settore, campo per le donne, per gli uomini, rampa ferroviaria per la “selezione iniziale”, zona delle fosse di cremazione a cielo aperto, crematorio II, III, IV, V con annesse camere a gas. Comando del campo. Magazzino. Fu qui dentro che all’arrivo dei russi furono trovati 293 sacchi di capelli femminili. L’Istituto di Medicina legale di Cracovia ne analizzò 25 chili e mezzo e stabilì la presenza indubbia di acido cianidrico. Le bambine vedono con noi la montagna di barattoli vuoti di Zyklon B in cristalli. Sciolti sprigionavano il gas che avrebbe ucciso per asfissia migliaia di prigionieri. Soffocamento, dico, soffocamento. C’è un fatto che durante la visita m’inquieta. È la temperatura emotiva, le nostre reazioni. Ci spostiamo silenziosi da un punto all’altro, entriamo-usciamo, ascoltiamo la guida, guardiamo il cumulo di scarpe, l’ammasso di protesi ortopediche, la montagna di valigie, la bambola, le spazzole, le foto dei giovani liberati dai russi il 27 gennaio del ’45, i letti a castello per i prigionieri, le latrine, il muro per le fucilazioni, il blocco 11, gli occhiali, i lavatoi… Tutto, tutto scorre. Siamo persone consapevoli, composte. Persino meste. Partecipi di un lutto. Cos’è che non va allora? Forse è questo consumare l’abisso in due ore, l’incapacità dell’immaginazione di star dietro momento per momento all’orrore. Zyklon B. Soffocamento. Ma i nostri occhi, le nostre orecchie, le narici sanno come muoiono in dieci-dodici minuti centinaia di persone ammucchiate in una stanza? Ascoltano i pianti dei bambini, le urla strazianti, l’accalcarsi dei corpi in cerca d’aria? Avvertono la vergogna di restare nudi, l’umiliazione, il timore, lo spavento di varcare la soglia dell’annientamento? Sentono salire in gola il vomito per l’odore nauseante dei cadaveri bruciati e in dissoluzione?... Penso di no. Per quanto s’indossino i poveri panni dei prigionieri, le tute a strisce, per quanto ci si finga affamato-assetato, scheletrito-umiliato, picchiato-violentato-torturato, insozzato-infangato, l’immaginazione è troppo debole per rendere vivi i quadri del degrado. Uomo-cosa, uomo-straccio, morto ambulante da bruciare. Uomo che vale meno di un cane delle SS. Maiale da scannare. Vitello da sparare in fronte o, peggio, alla nuca da non guardare negli occhi. Escremento. Concime per i campi, cenere per il bosco di betulle. Campo di betulle. Questo significa Birkenau. La lingua del Terzo Reich è piena di eufemismi. La camera a gas è quella delle docce. L’arrestato è un prelevato. L’assassinato un morto per insufficienza cardiaca Lo sterminio di un popolo è la soluzione finale. Lingua della menzogna. Lingua di chi mente sapendo di mentire. Oggi è la lingua di chi nega che ci sia stato Auschwitz con le camere a gas, i sacchi di cenere di milioni di persone ridotte a non-persone, schiacciate come insetti, mineralizzate, liquidate, evaporate, cancellate. Dei cinque forni crematori attivi, oltre alle fosse a cielo aperto, durante la visita vediamo le bocche di uno soltanto. Gli altri, spiega la guida, furono distrutti prima dell’arrivo dei soldati russi. Cancellare le tracce dei propri crimini. Avesse dichiarato guerra al popolo ebraico, una guerra regolare per mare, cielo e terra, ovunque si trovasse probabilmente il Reich non avrebbe potuto trucidare sei milioni di persone disperse in vari Stati d’Europa. Persone che, spesso, erano olandesi, francesi, polacchi, ungheresi, prima d’essere ebrei.. O italiani, greci e lituani. Guardiamo la montagna di valigie, gli occhiali, le protesi. Impossibile risalire ai nomi dei singoli proprietari. E questo foglio scritto da una bambina? E questa bella bambola da quali mani è stata pettinata? Salmen Gradowski, ebreo polacco, nato a Suwalki, vicino al confino lituano, nel 1909, ha temuto così tanto che nessuno potesse immaginare quanta barbarie accadesse nel campo da scrivere e scrivere e seppellire sotto il terreno del crematorio i suoi quaderni. «Caro lettore, troverai in queste righe il racconto delle sofferenze e dei tormenti che noi, le più infelici creature di questa terra abbiamo subito…» Si augurava che l’eventuale scopritore rintracciasse presso i parenti, di cui forniva l’indirizzo, la foto sua e quella della moglie per unirla ai manoscritti e che, contemplandole, versasse «almeno una lacrima per un pianto, un sospiro». Gli sarebbe stato di grande conforto, confessa, sapere che lui e la sua famiglia non erano scomparsi da questo mondo senza una lacrima. A Francesca, che allora aveva sette anni, domando cosa ricorda della nostra visita ad Auschwitz. I salici piangenti, risponde. Tanti salici piangenti all’entrata. Capodanno 2013
Mia bisnonna materna era Annetta Levi Segre, madre di Maria Segre De Benedetti. Sono nato dopo la fine della guerra. Per il terrore che ho sempre nascosto, non ho mai detto di essere ebreo.
Non si tratta di identificarsi, è impossibile. Si tratta di riconoscere gli indizi di quello che è sempre possibile. Attraverso la falsità narratologica e le alterazioni linguistiche. Questo è il nostro compito attuale.
Ho visitato più volte i campi, non esiste un aggettivo così brutto da descriverlo.. Abominio, no, troppo semplicistico, testimonianze da me ascoltate, le ceneri si depositavano con il loro odore a 12km di distanza, IMIELIN. Bellissima descrizione per tramandare per non dimenticare
penso anch’io che immaginare gli orrori sia impossibile, anzi non auspicabile, per il rispetto e la riservatezza dovute alle vittime…Eppure è importante ricordare perchè, come afferma Primo Levi, cio’che si è verificato puo’ sempre accadere di nuovo…Allora mi chiedo quale sia il significato piu’ autentico e costruttivo per un cambiamento della funzione della Memoria. Ricordare tali mostruosità dell’uomo sull’uomo una volta all’anno, per commuoversi, puo’ bastare? E magari sentirsi giustificati a dimenticare gli orrori presenti nei centri di detenzione libici, nei centri per il rimpatrio italiani…? Allora qual è la Giusta Memoria? I testi in versi e in prosa di Donato documentano ampiamente e coinvolgono…Puo’ bastare?
Ringrazio tutti voi per i vostri interventi.
Capisco Umberto Joackim Barbéra, che ha avuto il terrore a dirsi ebreo. Ancora qualche giorno fa a Campiglia Marittima un ragazzino di 12 anni è stato insultato, sputato e preso a calci perché ebreo…Diciamolo pure: il nostro, per molti versi, non è un bel paese e il clima sociale culturale e politico è quello che sappiamo (neo-nazionalista, populista, sovranista…). Barbéra ha tutta la mia solidarietà
Sulla difficoltà e/o impossibilità a identificarsi con le vittime sono d’accordo con Cristiana. Lo dicono i miei stessi versi: “Cos’è che non va allora? / Forse è questo consumare / l’abisso in due ore, / l’incapacità dell’immaginazione / di star dietro momento per momento /all’orrore.” Sugli indizi, la falsità narratologica e le alterazioni linguistiche, rimando al mio secondo intervento.
Antonio Maffione, che ha visitato più volte i campi, conferma il mio “racconto in versi”. È una condivisione che mi rassicura.
Le domande di Annamaria sono molto importanti. Per me ricordare non basta. Non basta neanche commuoversi. È necessario comprendere e interpretare come sostengo nel mio secondo intervento. Comprendere “l’unicità” della Shoah, non significa «dimenticare gli orrori presenti nei centri di detenzione libici, nei centri per il rimpatrio italiani…» Oppure i lager staliniani o le foibe istriane. Nella mia successiva riflessione questo lo scrivo con chiarezza. «Allora qual è la Giusta Memoria? I testi in versi e in prosa di Donato documentano ampiamente e coinvolgono…Puo’ bastare?» No, non può bastare e quale sia la “giusta memoria” non lo so.
Qualche giorno fa ho letto un articolo molto interessante di David Bidussa intitolato proprio “Domande sulla memoria” e apparso su Doppiozero. Ad un certo punto, vengono riportate queste frasi di Gabriele Nissim: «”La memoria deve unire l’umanità per le nuove sfide. Se diventa una cassaforte identitaria perde la sua funzione”. Per cui la possibilità di durata nel tempo della memoria della Shoah sarà la conseguenza del porsi come “anello di congiunzione tra tutte le memorie di genocidi e sarà in grado di confrontarsi ogni volta con i germi del male che si presentano nel tempo presente”.» Questa, forse, può essere una prima risposta. Ma conviene leggere tutto l’articolo di Bidussa e, soprattutto, leggere il libro recensito: AA. VV “Domande sulla memoria”, Cafoscarina 2021
Ancora grazie a tutti voi.
Tutto giusto e vero. Ma ti chiedo di considerare anche questo articolo di Claudio Vercelli https://ilmanifesto.it/le-sfide-dello-sguardo-celate-nel-presente/ sul cadere nelle vittime, sul cancellare le contraddizioni e le reazioni di allora. Non possiamo assumere solo questo ruolo, delle vittime dell’ingiustizia.
Ho letto il link segnalato da Cristiana [Fischer]. Come sempre interessante Claudio Vercelli. Davvero bisogna fare attenzione quando scrive che nell’immaginario collettivo «al partigiano si è quindi spesso sostituita l’immagine del deportato», cioè della vittima inerme delle tragedie del Novecento, nella quale oggi più facilmente «si riflette soprattutto il nostro sentirci inermi dinanzi al mutamento che accompagna noi stessi, impotenti ed espropriati, al pari di chi ci ha preceduto in ben altri frangenti».
Fondamentale mi pare anche che questi fenomeni vengano inquadrati teoricamente: «Sono qui all’opera due paradigmi ideologici del nostro tempo. Il primo di essi è quello che identifica nella vittima il soggetto della creazione di senso storico, ossia di elaborazione di un tessuto narrativo che, guardando ad una certa idea del passato, dà un significato al presente. Il secondo è il paradigma totalitario – dominante nelle formulazioni dell’Unione europea – che, rileggendo la nostra contemporaneità alla luce della contrapposizione risolutiva, poiché in sé esclusiva, tra democrazie e dittature, sancisce le declinazioni delle prime nel solo liberalismo e delle seconde, in un gioco di perenne dinamica di reciprocità inversa, nel mero rifiuto dell’ordinamento liberale».
E a proposito di totalitarismo (voglio ricordare il cliché del Marx “totalitario” con cui ho di recente polemizzato (https://www.poliscritture.it/2021/12/15/totalitario-marx-eh-no/) finalmente ascolto qualcuno denunciare l’uso di questo termine/concetto oggi abusatissimo usato come clava ideologica contro – indovinate un po’? – il comunismo: «I germi del totalitarismo sono in tale modo ravvisati in qualsiasi esperienza che non sia riconducibile alla rassicurante visione di una storia senza tempo, tale poiché priva di soggetti collettivi in movimento, sostituiti semmai da astrazioni astoriche quali, per l’appunto, l’individualismo senza soggettività, il mercatismo senza conflittualità e così via. Non è allora un caso che al netto di qualsiasi analisi storica di merito, l’eredità stessa del comunismo venga letteralmente incapsulata dentro questo involucro, essendo vissuta come una sorta di replica (oppure di matrice, dal punto di vista del revisionismo storiografico) di tutte le nequizie di cui si sono macchiati anche i regimi nazifascisti in Europa».
P.s.
Andrebbe riletto “Critica della vittima” , il libro di Daniele Giglioli ( Nottetempo 2014)
o almeno la recensione che ne fece Adriano Prosperi su “il manifesto”: https://ilmanifesto.it/il-gusto-di-officiare-il-culto-del-dolore/
Stralcio dalla recensione:
“Qui la storia è inattuale, al suo posto si insedia la memoria. Memoria significa soggettività e sofferenza. Da qui il moltiplicarsi delle giornate della memoria, con l’invito a sentirsi in debito di sofferenza per le vittime, quelle della Shoah, quelle delle foibe, quelle delle mafie, quelle del terrorismo interno e internazionale. Nel dolore ritualizzato del ricordare al silenzio delle vere vittime si sostituisce la grancassa delle retoriche commemorative: chi parla in nome delle vittime si appropria della memoria, ne diventa l’eroe sofferente. Accade qui una sostituzione di soggetti perché nella prosopopea della vittima il parlante è un testimone a nome d’altri, un presentificatore della sofferenza che ci fu.”
Forse l’unico modo della memoria per non scomparire inutilmente è farsi storia. E storia è però anche andare al di là della memoria stessa: Piero Del Giudice aveva raccolto-per la tesi di laurea- le memorie di molti ritornati dai lager; ma la tesi era incagliata, perché da tutti emergeva una domanda a cui non sapevano rispondere: perché?
Salzarulo nella poesia dà un indizio, quando parla della precisa organizzazione. Io allora ero andato in aiuto di Piero riscavando in Marx, ritrovando nella legge del valore la base del funzionamento dei campi, quella suddivisione della giornata lavorativa tra lavoro necessario e surplus che qui veniva portata all’estremo, rendendo a poco a poco tutto surplus. Ma c’era di più: il controllo sociale in Germania intera che riprendeva gli strati salariali in fabbrica, tedeschi sopra cechi sopra polacchi sopra…e alla fine come tappo ricorsivo gli ebrei. Ma riprendendo tutta la tradizione antiebraica europea, dall’eccezione di Ambrogio che permette l’usura ma solo con gli stranieri e viene utilizzata in patria mediante gli ebrei come intermediari fino alle tradizioni schiavistiche inglesi e olandesi. Il tutto traslato in una mistica del capitalismo che in forme più o meno attenuate percorre tutti i paesi, Inghilterra (ricordate le dimissioni forzate del re Windsor -spacciate come amore per una divorziata-dopo le trattative con Hitler per il dopovittoria?), Stati Uniti (i fratelli Dulles e Prescott Bush sono intermediari dei capitali tedeschi, e solo dopo l’entrata in guerra smettono)…
La memoria bene cantata qui da Salzarulo deve allora anche smascherare l’ipocrisia delle memorie ufficiali, arrivando alle radici: che non sono morali ma hanno radici materiali possenti.
Tu sottolinei un argomento che ha esplicitato lo storico Claudio Vercelli nell’articolo che avevo segnalato un paio di giorni fa; e cioè che la memoria scritta -la historia rerum gestarum, la storia fatta con la capacità analitica e sintetica della lingua- dà conto dei fatti, delle azioni, delle res gestae, quasi sempre più completamente e profondamente dei “prodotti di raffigurazione filmica o di ricostruzione finzionale”. Scrive Vercelli: “L’IMMAGINARIO delle persecuzioni e delle deportazioni è oggi in grande parte depositario di quel fenomeno di mediatizzazione che trova in autori come Steven Spielberg il punto di massima convergenza. Il contrappasso che un tale incedere ci consegna è quello per cui, *invece di alimentare una consapevolezza civile, esso ha soprattutto dato forma ad una memoria affettiva* (c.vo mio), tale in quanto basata sull’identificazione, in maniera pressoché esclusiva, con la rappresentazione della fragilità della vittima indifesa.”
La disciplina “storia” è razionale, quindi può indicare la coesistenza di “barbarie e modernità” nel secolo passato, perfino negli stessi individui, e non produrre solo quell’identificazione vittimaria che dice molto del “nostro sentirci inermi dinanzi al mutamento che accompagna noi stessi, impotenti ed espropriati, al pari di chi ci ha preceduto in ben altri frangenti”.
Quei mezzi di comunicazione che trasformano il passato in immaginario collettivo ci spingono forse a identificarci con quelli che subiscono e a rinunciare a reagire con azioni pubbliche e collettive?
Ho letto l’articolo di Claudio Vercelli apparso sul Manifesto del 25 gennaio 2022.
Cogliendo l’occasione della nuova edizione del libro di Christopher Browining, «Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia» (Einaudi, 2022), lo storico traccia le linee di un bilancio della Giornata della Memoria a vent’anni dalla sua istituzione. La necessità di un bilancio è avvertita da molti intellettuali (storici e non).
Per quanto mi riguarda sono d’accordo con questa esigenza. Così come sono totalmente d’accordo con i punti del suddetto articolo evidenziati da Cristiana e da Ennio.
Anche le annotazioni di Paolo Di Marco mi trovano consenziente.
Mi sforzerò di tornare sulla questione alla prima occasione, magari, leggendo i libri indicati da David Bidussa e Claudio Vercelli. Grazie a tutti voi.