Per un libro da scrivere
di Ennio Abate
Prima parte
ELVIO FACHINELLI, IL DESIDERIO DISSIDENTE (QUADERNI PIACENTINI N.33 - FEBBRAIO 1968)
Dietro front. Torno al 1968. In quell’anno lessi pure «Il desiderio dissidente» sul n.33 – febbraio 1968 dei «quaderni piacentini». Un saggio calato – oggi direi: quasi affogato – in un presente che allora ribolliva. Fachinelli parlava di «movimenti di dissidenza giovanile del nostro e degli altri paesi ad alto sviluppo industriale». Li diceva fragili nei «contenuti programmatici» e nei «comportamenti», ma tenaci: non si facevano riassorbire dal Sistema, dal Potere. Diceva. Ma chi era per me, che partecipavo all’occupazione della Statale di Milano (qui), Elvio Fachinelli e che effetti ebbe su di me quella lettura? Un nome che sentivo per la prima volta, uno psicanalista. Visto appena – una sola volta, mi pare nel 1988 – vent’anni dopo tra il pubblico della Casa della Cultura di Via Borgogna. E, quando lessi quel suo saggio, sulla psicanalisi avevo al massimo curiosità, sospetti o idee libresche e incerte. Forse, se non fosse stato pubblicato sui «quaderni piacentini», neppure l’avrei notato. Perché l’ideologismo della politica al primo posto, impostosi per tutti gli anni Settanta, mi aveva raggiunto e preso in ostaggio.
La prima reazione fu di simpatia. Nelle parole di Fachinelli ritrovavo, espresso su un piano intellettuale autorevole e argomentato, quel desiderio di libertà e di cambiamento, che sentivo attorno a me. Ma il ghiaccio sociale sembrava rotto anche per me. Uscivo dall’isolamento dell’immigrato, che in una Milano a lui sconosciuta era riuscito a stabilire fino ad allora poche e limitate relazioni, mi ritrovavo di botto tra compagni e compagne e ascoltavo con piacere discorsi di denuncia, svecchiamento e rivolta. Eppure impacci e dubbi restavano; e si svelarono anche in quella mia lettura.
Fachinelli scriveva che la dissidenza giovanile non faceva «uso di bibbie»; che le «intelaiature ideologiche» non reggevano più diventando presto «obsolete»; esaltava il cartello di protesta con la scritta: «lotta alla repressione». Ma a me pareva che esagerasse, fosse ottimista, disinvolto, moderno, metropolitano. Troppo. Questa impressione mi veniva anche – l’ho capito col tempo – dalla mia esperienza di periferico. Dopo il fallimento delle prime relazioni che m’ero costruito sbarcando a Milano, ero finito nell’hinterland, a Cologno Monzese. Lì abitavo nel ’68 e abito ancora definitivamente. E la differenza tra centro di Milano e periferia non riuscii mai più ad accantonarla o a relativizzarla. Anzi anche su di essa ho imparato a misurare il valore di me stesso e della gente che incontro. Il disagio misto ad invidia che me ne veniva mi faceva notare più immediatamente lo scarto tra il linguaggio di Fachinelli – (ma la cosa valeva anche per quello dei leader del movimento studentesco o dei docenti della Statale; e, poi, di altri dirigenti politici o intellettuali che ho incontrato e frequentato) – e il mio o di quelli che frequentavo quotidianamente. Mi feci l’idea che quel saggio non era diretto proprio a me e a quelli come me, più incerti o confusi nel valutare i fatti eccezionali che stavano accadendo, ma a persone che mi apparivano più libere, più intellettuali di me e più addentro alle questioni che io affrontavo per la prima volta. Che appartenevano – per condizioni di vita, cultura, linguaggio, modo di stare in pubblico – a un altro giro rispetto a quello che trovavo in periferia. Ed io non ne facevo parte, anche se, avendo ripreso l’università, un po’ cominciavo a frequentarle e a conoscerle.
Era solo un mio complesso di inferiorità? Col cavolo. L’impaccio mio aveva ragioni più profonde e vere. Allora le sapevo indicare a stento. Poi – leggendo Brecht, Marx, Lenin, Fortini, i quotidiani e le riviste della “nuova sinistra” e scegliendo di entrare in Avanguardia Operaia – imparai a pensarlo come effetto (uno dei tanti) delle differenze e dei conflitti di classe sociale. E questi effetti si manifestavano allora nella mia imbranataggine. Facilmente equivocavo, non mettevo bene a fuoco i discorsi degli intellettuali. O, nel caso del saggio di Fachinelli, nel non capire certi passaggi del suo scritto.
Quando, ad esempio, Fachinelli se la prendeva con «alcuni critici di sinistra», io pensavo che non si riferisse a tutta la sinistra, alla quale mi pareva di dovermi avvicinare per sfuggire al peso dell’educazione cattolica ricevuta al Sud, ma solo a una parte di essa: quella “revisionista”, che già allora, se pensavo a certi studenti del PCI, che durante l’occupazione mi avevano dato la brutta sensazione di essere tra i più moderati e a rimorchio del movimento studentesco o sempre pronti ad ostacolare rivendicazioni che a me parevano giuste e condivisibili, mi era poco simpatica. E se drizzavo prontamente le orecchie quando Fachinelli accennava alla funzione repressiva dell’autorità paterna – da mio padre, in effetti, un bel po’ di “repressione” credevo di averla subìta; lo stesso dai preti e dai professori del liceo – a sentirlo parlare della teoria del complesso di Edipo – questione non solo complicata ma controversa – avendo orecchiato (perché così prontamente?) le critiche che la presentavano come non scientifica – tornavo a non raccapezzarmi. E lo stesso succedeva su molti altri punti del saggio, quando Fachinelli diceva che, nella psicanalisi, dai tempi di Freud le cose erano diventate ancora più complicate; che la figura paterna s’era andata indebolendo; che erano emersi «elementi di impotenza, di dipendenza incondizionata e totale che l’analisi freudiana aveva appena intravisto»; che alla «relazione triangolare» (padre, madre, bambino)» sempre più spesso si era andata sostituendo «la relazione bipolare madre-bambino». Su tutto ciò non sapevo che pesci pigliare. E mi disorientava ancor più che Fachinelli, in appoggio alla sua tesi della «effettiva debolezza del padre nella società», citava – ed erano autori, di cui cominciavo appena, in quegli anni di ripresa degli studi, a sentire più spesso i nomi, ma di cui nulla avevo letto – un testo di Horkheimer e Adorno dalle «Lezioni di sociologia».
Ancor più tentennavo sul brano in cui proclamava che il gruppo aveva messo «in moto la dialettica del desiderio»; e quindi «ogni meta e proposta [era] superata nel momento stesso in cui [era] raggiunta […] dunque ciò che conta[va] non [era] la meta, non [era] la proposta in sé, più o meno “reale”». Mi pareva di ritrovare qui il mio sventato e un po’ folle romanticismo giovanile, che mi aveva spinto a interrompere gli studi e a catapultarmi da solo, senza appoggi e senza mete – da Salerno a Milano. Dopo quella mia dolorosa esperienza, trovavo questa tesi di Fachinelli troppo poetica, troppo estetica. Non riuscivo proprio a convincermi che, per la sopravvivenza del gruppo, non contava «l’oggetto del desiderio». Specie per un gruppo politico. E più tardi, rileggendo il saggio a distanza di anni, mi sono chiesto: quindi, un qualsiasi oggetto del desiderio va bene? Anche se fosse malvagio? E poi quel pretendere di permanere in «un perenne NON BASTA»? O quel mantenere – ma come? – «la tensione utopica così organizzata [che] è la sola possibilità efficace di negazione di questo presente»? O quell’invito a puntare a una «ostinata “obiezione d’incoscienza” del desiderio, che si estende dal “sogno”, all’”astrattezza”, fino all’agire “folle” e “fuori delle regole»?[1]
Ecco, tutto questo mi pareva allora e mi è parso anche dopo un “lusso” (il lusso della follia?), che io e credo i tanti, che vedevo nelle mie condizioni di vita o in condizioni anche più pesanti, non potevo, non potevamo permetterci. (A meno che…).
Nel 1968 ero pronto a concedere a molti – e anche a Fachinelli – una competenza e una comprensione del nuovo in arrivo più chiara della mia. Non volevo rinunciare, però, a trovare gli indizi, i segni, le prove per accertarmi che questo nuovo non si riducesse ai momenti intellettualmente eccitanti che trascorrevo ad ascoltare i discorsi che si facevano nella Statale occupata. E testardamente constatavo che di questo nuovo né nei miei studi liceali di provincia né nei ricordi della mia giovinezza salernitana né nelle esperienze di immigrato e poi di lavoratore studente trovavo traccia sufficiente. E perciò provavo attrazione e perplessità verso quella «vitale ambiguità dell’appello sessantottesco contro la repressione e l’autoritarismo» che Fachinelli tanto esaltava.
Per lui quel movimento di giovani andava già oltre, metteva completamente in causa «i modi tradizionali di concepire e fare politica», sembrava «sgusciare verso qualcosa di nuovo, si muoveva «verso bersagli più lontani delle vecchie figure di autorità (gli uomini che si dicono di ferro, che parlano più forte, che minacciano la morte nucleare)», pur se «per forza ancora informe».
Ma per me? Davvero i giovani (e io con loro?) si trovavano di fronte a «una immagine o fantasma di società» che prometteva una «più completa liberazione dal bisogno», minacciava «una perdita dell’identità personale», e cioè «la perdita di sé come progetto e desiderio»? La cosa non mi era così chiara. E che dire della tesi dell’indebolimento della figura paterna, per cui i giovani si ritrovavano (e io con loro, che pur ero già sposato e avevo due bimbi?) nella «situazione angosciante che è stata quella del rapporto con la madre»? Altri dubbi. Forse la tesi valeva per i giovanissimi, – mi dicevo – ma non per me. Altrettanto mi era poco evidente che più spesso che in passato – rispetto a padri e nonni – i giovani (e io lavoratore studente con loro?) si dibattessero di fronte alla figura – da identificare con la Società, col Sistema? – di una «madre buona e “gratificante” [che era] nello stesso tempo la strega malefica e divoratrice», per cui «il nutrimento e l’amore che essa ci dà sono continuamente minacciati, nella fantasia infantile, dalla sua capacità distruttiva, Il cibo che ci offre è quindi pagato con la dipendenza totale».
A distanza di tanti decenni non vorrei rappresentarmi con compiacimento come un attardato e imbranato provinciale che entra a contatto con l’Alta Cultura del Novecento per banalizzare un sapere psicanalitico, che poi, in ritardo, pur ho studiato, approfondito e contestualizzato. E proprio sui libri dello stesso Fachinelli, di Jervis o di Ranchetti. Voglio soltanto spiegare a me stesso che non so fino a che punto capii o potevo capire quel saggio. E sostenere che la mia incomprensione aveva qualche buona ragione e qualcosa non quadrava nella stessa analisi di Fachinelli, malgrado l’importanza che essa ebbe nelle vicende mie e di quella generazione sessantottina.
Fachinelli non era un isolato: i suoi ragionamenti audaci trovavano conferme in altre riflessioni di rilievo: di Reich, di Marcuse. Corrispondenze parziali tra la sua analisi e quello che avevo vissuto o stavo vivendo c’erano. Il suo scritto mi fece cogliere meglio sensazioni, sentimenti e comportamenti dei singoli, che io pure notavo durante le manifestazioni di piazza, le assemblee, i controcorsi. E la sua influenza su di me fu forte, se mi forzai persino – (facendo azzardati cortocircuiti) – a cercare risonanze sociali e politiche di quella sua sensibilità da psicanalista nella tradizione degli anarchici o nella storia del movimento operaio – (pensai ai consigli di fabbrica, al primo Gramsci de L’Ordine Nuovo) – che stavo studiando. Ma qualcosa mi frenava. Malgrado mi colpisse l’acutezza della sua intelligenza nel delineare le pieghe ambigue del movimento studentesco, sicuramente composto a maggioranza di giovani, ed in certa misura anche della mia partecipazione ad esso. Perché, quando Fachinelli accennava all’«uso quasi ossessivo, da parte della dissidenza, di parole come “inserimento” e “integrazione” [o al] consumo vorace, e simultaneo, di testi apparentemente antitetici (Levi Strauss e Marcuse, per esempio)», era come se fotografasse le ambiguità della mia stessa affannosa acculturazione.[2] E però il suo discorso psicanalitico era in attrito con quelli che andavo assorbendo durante le lezioni alla Statale di Gambi, Della Peruta, Berengo, Catalano, Caizzi: i docenti del corso di lettere ad indirizzo storico che avevo scelto alla ripresa degli studi. Ed io ero deciso a non interrompere quegli studi e quelle letture mirate agli aspetti politici, sociologici, storici, economici della società.
La pulce nell’orecchio Fachinelli, però, me la mise (o feci in modo che me la mettesse). Non so se avrei dovuto e potuto occuparmi di più allora di questo autore e di psicanalisi. Col passare degli anni e dopo l’esaurimento del periodo della militanza politica in Avanguardia Operaia, ho capito che dare più ascolto allora a Fachinelli avrebbe messo in discussione o in crisi quel mio processo di acculturazione alla politica, che condussi da apprendista troppo zelante quasi per rimediare alla trascuratezza precedente di cui mi rimproveravo.
Fachinelli, infatti, interrogava e metteva sotto la sua lente d’ingrandimento psicanalitico proprio quella spinta alla militanza politica che mi portò nella nascente Avanguardia Operaia. Era come se il suo saggio mi ponesse domande imbarazzanti, che solo più tardi sono riuscito a formulare: ma tu stai cercando davvero il “nuovo” come lo cercano i giovani del ’68 di cui io ti parlo? Ti sei messo davvero con quelli che questo “nuovo” (o la “rivoluzione”) lo vogliono? Non è che, dopo esserti sottomesso all’ autorità della Chiesa cattolica nella tua infanzia e prima gioventù, ora vai a metterti sotto l’Autorità della “Chiesa rossa” o, se non del PCI, dei fratellastri che ad esso si ribellano? Non è che questi sostenitori della necessità di costruire un nuovo Partito rivoluzionario, finiscono anch’essi per rifiutare «“teoricamente” da sinistra un movimento nuovo perché non vi [riscontrano] l’immediata urgenza del bisogno» o assimilano « la nuova forma rivoluzionaria a vecchi schemi»?
Mi pungeva abbastanza il suo sarcasmo quando sornione annotava: «Come se la spinta al desiderio fosse meno “materialistica”; o addirittura un’astuta invenzione dell’avversario». Ma, leggendo poi di lui anche «Gruppo chiuso o gruppo aperto?» («quaderni piacentini», n.36, novembre 1968), dove criticava tutta quella «tensione verso l’avanti» o tutta quella retorica di una «situazione pressoché paritaria», che riscontravo io pure in assemblee e controcorsi e poi nelle riunioni di Avanguardia Operaia, o i passi dove invitava a diffidare del leaderismo e a «valersi di capi in statu nascendi», non potevo non dargli un po’ ragione, anche se non capivo come si potesse arrivare a «decisioni e proposte sempre prese in comune elidendo o quasi del tutto la figura rappresentativa, sia essa patente o “latente”».
Tutte queste perplessità si rafforzarono dopo la lettura della replica di Fortini a Fachinelli. Ne parlerò nella seconda parte di questo capitolo.
Nota
[1] Più tardi mi è parso che Fachinelli correggesse questo appiattimento sul sessantottismo romantico mettendo meglio a fuoco la sua riflessione e non dando più per scontata e assoluta la novità e l’autenticità del desiderio dei giovani. Infatti, in un altro saggio, Cosa chiede Edipo alla Sfinge?, sul numero 40 -aprile 1970 dei «quaderni piacentini» a pag. 156 (siamo a strage di Piazza Fontana compiuta!) avvertiva: «non mi sembra nemmeno possibile passare ad esaltare la “nuova società dei fratelli”; le esperienze di questi anni dei movimenti giovanili, il loro rapidissimo consumo spesso per autodistruzione, quasi per autocombustione, accompagnato dalla tendenza difensiva a ricostituire il puro luogo – anche se inevitabilmente vuoto – dell’autorità e dell’ordine, la ricomparsa di vecchie logiche della esclusione, del capro espiatorio, del nemico esterno, tutto questo esige ben altro che risposte generiche e assensi benevoli da parte di qualcuno che si presuma padre e possessore della verità sugli altri».
[2] Titolo di un libretto di Alphonse Dupront nella collana bianca della Einaudi, che mi fornì un buon concetto per fissare la mia esperienza di lavoratore studente o studente lavoratore, un po’ scisso tra il compito di laurearmi e l’esigenza di non rompere il legame anche affettivo che avevo stabilito sul lavoro con i notturnisti della SIP e, in quel “guanto rovesciato del Sud” che era Cologno Monzese dove abitavo, con immigrati e immigrate dalle zone povere dell’Italia.
DA POLISCRITTURE FB/ COMMENTI DI GIORGIO MAJORINO
Giorgio Majorino
Ma ,ovviamente, conoscevo bene Facchinelli, e non solo per l’amicizia con mio fratello, ma anche perchè ho fatto degli incontri “professionali” con lui.
Giorgio Majorino
E , pur riconoscendo, anche qui ovviamente, tutta la sua intelligenza, capivo che c’era qualcosa che ci divideva. Ed era, pensandoci adesso, il suo odio-amore per la psicoanalisi. Non si capiva bene se la valorizzasse come strumento basilare per la conoscenza reale o come residuo di un pensiero conservativo, del quale bisognava utilizzarne dei frammenti ancora di valore. Per me, allevato inizialmente dalla sociologia (mi sono laureato, a Giurisprudenza, in Sociologia del Diritto) e poi approdato (ma era un mio antico interesse di quindicenne) alla psicoanalisi fino a farla diventare una professione, mi sembrava strana, questa commistione tra il sociologico( cioè quello che accadeva in comportamenti e ideologie, allora) e lo psicoanalitico. Sono stato sempre convinto , anche se so che non è molto accettabile, della frammentazione (leggi:schizoide..)della personalità, In parole povere: quando faccio le pizze, sono un pizzaiolo. Quando vado allo stadio sono un tifoso più o meno su di giri. sono . In tutti e due i casi mi sento me stesso ma in effetti sono altri due (e poi anche molti altri) anche se unificato anagraficamente. Quando lavoro (o meglio lavoravo) con i pazienti, sono perfettamente consapevole (ho l’occhio sociologico sempre attento) di tutto il mondo socio-economico-politico nel quale sono immersi, ma ,non solo i miei interventi ma ,soprattutto, le mie riflessioni sono soltanto psicoanalitiche. Per quello c’era qualcosa che non mi andava in Facchinelli ed ,anche, pur riconoscendone tutti i meriti fondamentali, con l’Antipsichiatria basagliana, ne percepivo una tendenza alla mescolanza. Insomma io, a differenza di mio fratello (e la rivista Manocomete ne è stata una prova ) sono restato uno “specialista”, con tutti i suoi limiti e con una bella tendenza schizoide.
Giorgio Majorino
Questa della separazione tra sociologia e psicologia è tipica di Durkheim che ovviamente mi ha influenzato e del suo derivato, Levi-Strauss .
Nel frattempo è uscito questo libro che ho cominciato a leggere:
Ma dovevano affidare la prefazione proprio a Massimo Recalcati che mi pare la riedizione in epoca draghiana dell’ Armando Verdiglione di epoca craxiana?
Comunque, l’ho trovata abbastanza rispettosa nel render conto del percorso di Fachinelli ma tutta interna a quella corporazione psicanalitica che lui ebbe il grande merito di criticare.