Appunti contro la guerra in Ucraina
di Ennio Abate
Mi scrive un amico: «seguire giornalmente i giornali, la TV, FB e alcuni blog e giornali online è diventato un lavoro a tempo pieno, anzi più che pieno perché la giornata non mi basta. Taglio e trascuro molto, ma in questi giorni di guerra si pubblicano tante cose che non riesco a ridurre la quantità di letture e ascolti giornalieri che mi sembrano utili». È più o meno quello che ho fatto io pure (e credo tanti altri) in questi giorni. Come per esorcizzare un’ansia. Ma con insoddisfazione. Perché t’accorgi che è come spalancare porte e finestre della tua casa mentale/sentimentale a una tempesta che ti scaraventa dentro di tutto e sporca, rompe, distrugge.
È un fenomeno che, ingigantitosi attorno al 2020 sull’ondata di notizie vere/false sul coronavirus di Wuhan, è indicato con un neologismo: infodemia s. f. Circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, talvolta non vagliate con accuratezza, che rendono difficile orientarsi su un determinato argomento per la difficoltà di individuare fonti affidabili. (Treccani)
Ne avevo letto e m’ero segnata una nota di Claudio Vercelli[i]. E ricordo che Franco Carlini (di cui oggi pochi si ricordano) nel 2002 di qualcosa di simile aveva parlato in una sua ribrica d’informatica su “il manifesto” suggerendo con un sano ottimismo una via per conservare un giusto equilibrio tra apertura alla diversità e “filtraggio”.[ii]
Oggi, però, di fronte alla guerra in Ucraina e ai suoi rischi siamo ancora capaci di accogliere e praticare quel suo consiglio?
Da parte mia in questi giorni ho fatto come il mio amico (in fondo quello che facevo prima). Ho selezionato articoli interessanti dopo una prima rapida lettura, li ho riletti selezionando i brani che mi paiono più significativi da segnalare su Poliscritture, e abbozzato appunti per un possibile commento. Ma su un tema come questo, visto che i contrasti sono ancora più frontali che sull’epidemia da Covid, ho diffidato di più della mia stessa capacità di selezionare e commentare.
È aumentata in me l’esigenza di lasciar decantare, di aspettare, di non condividere immediatamente come facevo in passato (e come suggerisce/impone FB) gli articoli che ho messo da parte. A volte perché ho dubbi sulla posizione espressa dai suoi autori. A volte per trovare approfondimenti che mi mancano. Ho cercato di non cedere alla fretta e di mantenere le distanze anche rispetto ad autori delle cui posizioni tengo conto per definire meglio la mia.
Infino ho continuato a rendere sempre più essenziale il frammento o lo stralcio da proporre in modo che il lettore possa concentrarsi e riflettere su di esso. E ho pure deciso di lasciare in anonimato le affermazioni, le dichiarazioni, le opinioni. Anche in vista di un successivo lavorio che intendo fare per inserire questi frammenti strappati al borbottio o ruminamento collettivo in qualche parte del mio narratorio.
APPUNTI RIORDINATI DEL 5 MARZO 2022
Commentatore 1
« Il dibattito non è su mandare o non mandare le armi, perché chi ne sa qualcosa è perfettamente cosciente del fatto che l’invio di armi non cambia questi rapporti di forza. Quello di cui si deve discutere è se siamo disposti ad entrare in guerra con la Russia. […] bisogna lasciare che la gente discuta di quello di cui si deve discutere: di uno scontro mondiale con una potenza che ha armi nucleari, e non sappiamo come risponderanno altre potenze nucleari che in qualche modo ora sostengono la Russia, come la Cina o l’India»
Commentatore 2
A quelli come me Vladimir Putin fa schifo, insieme alla sua banda di oligarchi fascisti e assassini. Lo detestiamo e, senza presunzione, non da oggi ma da quando molti altri riuscivano a parlarne più o meno bene. L’unica differenza sta nel fatto che non è l’unico a farci schifo, anzi la lista è decisamente lunga.
Quelli come me condannano senza riserve l’intervento russo che, come era prevedibile, si è tradotto subito in un’ecatombe di civili. Un’aggressione del genere non può avere nessuna giustificazione. La differenza è che a quelli come me le guerre fanno schifo tutte indistintamente.
Quelli come me sono convinti che inviare armi in Ucraina sia un errore madornale: perché si tratta di una decisione che vede l’Europa abdicare al suo ruolo di attore di pace, perché si tratta di una scelta molto pericolosa e perché non sarà la presenza di altre armi sul campo a risparmiare vite, anzi;
quelli come me si permettono di ricordare che questa guerra non arriva dal nulla e ha molti padri
Il presidente ucraino non è una pecorella bensì un opportunista con tratti fortemente autoritari. Il governo di Kiev di democratico non ha proprio niente,
Uno di quelli come me purtroppo non c’è più. Era uno che di guerra ne sapeva qualcosina e che si sarebbe sicuramente incazzato parecchio di fronte all’invio di armi in Ucraina. Nel 2003, ai tempi della seconda guerra in Iraq qualcuno sulla prima del Corriere lo definì “il signor né né” perché non stava con Saddam né con gli Usa. Lo chiamò anche “scoria pacifista”. Questo ragazzo di chiamava Gino Strada, era un tipo incazzoso e se ci fosse ancora si sarebbe beccato certamente dell’amico di Putin.
“Se la guerra non viene buttata fuori dalla storia dagli uomini, sarà la guerra a buttare fuori gli uomini dalla storia” (Gino Strada, 1948 – 2021. Chirurgo di guerra, uomo di pace, compagno)
Commentatore 3
A mancare è la sintesi di una notizia che si perde nel mare magnum dell’immediatezza e della tipologia di forma dialogica utilizzata dai media
conoscere più fatti possibili e comprenderli come può essere possibile in un mondo in cui l’informazione (da ogni parte la si guardi) è manipolata e controllata? Si potrebbe rivolgere lo sguardo all’infinito materiale che troviamo sui social, prodotto direttamente da chi i fatti li sta vivendo, ma dopo Cambridge Analytica c’è ancora da fidarsi? Che strumenti possiamo avere noi per incidere sulle scelte politiche del nostro paese, se siamo privi di qualsiavoglia informazione affidabile?
Commentatore 4
La tentazione è sempre forte nel cadere, nel “tifare” un qualcosa perché vicino alle proprie passionali visioni. Comunque io a volte penso ma tutte queste parole per dire cosa?
Commentatore 5
diamo per scontato che quello russo sia un governo autoritario e illiberale. Nessuno dice il contrario. Non è invece affatto scontato che il nostro sistema invece sia democratico e che qui la censura non esista (in forme più raffinate). Tipo oscurare i media russi. Tipo emarginare chi non si uniforma alla corrente
Commentatore 6
C’è un video girato da Rocchelli[iii] nella guerra civile kirghiza del 2010: occorre stomaco forte per guardarlo, dà la misura del suo coraggio, e anche della fiducia che bisogna avere nel valore di ciò che si mostra al mondo, sapendo che il mondo non ne ha voglia.
Rocchelli e i suoi amici spiegano che i loro lavori commerciali servono a pagare i reportage dai luoghi delle guerre e dei dolori senza voce. Amano la fotografia, si sono formati alla scuola dei migliori, considerano essenziale la stampa. Quando si va, come aveva fatto Rocchelli, in Daghestan, o in Inguscezia, o nell’Ossezia di Beslan, o in Afghanistan e nelle primavere arabe e nella piazza Maidan, qualunque ragione vi abbia spinti, la voglia di emergere, o di mettervi alla prova, cede presto, nei migliori, alla passione per gli altri
Che Rocchelli e Mironov fossero insieme in quella terra di nessuno degli sparatori non è un caso, e nemmeno una fatalità. Se non sbaglio, erano stati compagni di quella missione civile già nel Caucaso. Mironov, figura di rilievo di Memorial, amico di Anna Politkovskaja, dissidente nella vecchia Urss e nella “sbirrocrazia” putiniana (così la chiama, ricordando si compone al 75 per cento di ex dipendenti del KGB), fu prigioniero ancora in epoca gorbacioviana per diffusione di samizdat («ricopiai a mano migliaia di libri»), subì una pesante aggressione fisica, si batté tenacemente per la nonviolenza contro la guerra cecena. In Italia era assiduo, da ultimo era venuto a sostenere che la lotta per la democrazia in Russia coincideva con la lotta per la democrazia in Ucraina e per l’Europa dei diritti. Radio Radicale (era stato iscritto) ha ritrasmesso un’intervista del 2004 in cui spiegava nel suo italiano limpidissimo che la storia era sempre quella del “piccolo Cappuccio Rosso”, e che c’era sempre bisogno di una guerra, oggi in Cecenia, domani in Georgia — dopodomani in Ucraina — per rispondere alla domanda: «Perché hai i denti così grandi?» Secondo il Cremlino, diceva, «non c’è nessuno a cui parlare, in Cecenia, c’è solo a cui sparare».
Commentatore 6.1.
Quando la lucida follia della potenza esplode e minaccia sfracelli atomici – cose che voi umani… – le persone comuni si affannano a rimediare scoprendo a ritroso una moltitudine di indizi: come il geloso che crede di aver scoperto d’esser tradito da tempo, e si chiede come abbia potuto non sospettare di segni così evidenti.
Le persone comuni però avevano ragione. Non si può sbarcare il lunario, accompagnare i bambini a scuola, leggere i Tre moschettieri, e insieme pensare alla minaccia atomica, sentirsela sospesa sulla testa. Però quando la terra trema e pensarci diventa inevitabile, bisognerebbe cercare lucidamente, razionalmente, di seguire il pensiero fino alle sue conseguenze, senza farsi prendere dal panico, commettere un delitto d’onore o gridare: “Mi arrendo! Arrendetevi!” Non è facile, ed è disgustoso. Putin arriverebbe a impiegare la Bomba, magari un po’ alla volta, prima quella tattica e avanti così? Certo, tanto più che lo dice lui. E allora chi potrebbe reagire, fermarlo, impedirgli di arrivare all’irreparabile? Che brutta domanda, che triste risposta: toccherebbe ad altri che, come e più di lui, dispongano di simili ordigni, e abbiano coltivato per professione visioni altrettanto grandiose o altrettanto paranoiche. Per guadagnare una dilazione, sostituimmo tempestivamente ai film sulla guerra fredda e lo scontro finale fra il Pentagono e il Cremlino i film sull’alleanza dei buoni del Cremlino e del Pentagono alleati contro i cattivi o gli alieni. Contrordine: ora bisogna immaginare con raccapriccio una condizione micidiale in cui il nostro impotente destino ripasserà a qualche generale, di quelli che rubano le noccioline, o a qualche consulente geopolitico, un dottor Stranamore. Allo stato delle cose, siamo perfino più attrezzati a limitare l’innalzamento dei mari e a imbrigliare il virus che a impedire la guerra atomica. E a pensarla.
Commentatore 7
l’attuale leadership moscovita, da oramai più di un ventennio ancorata intorno alla figura plumbea di Vladimir Putin, sembra volersi rifare ad una accezione neoimperialista per puntellare e quindi garantirsi il proprio futuro. Dopo il decennio di spoliazione della società civile consumatosi negli anni etilici di Borís Nikoláevič Él’cin, i temi di un qualche ritorno di continuità con i “fasti” sovietici sono stati ripresi, in chiave manifestamente manipolatoria, dal putinismo. Anche per questa ragione, ogni manifestazione, al pari degli aneliti di piazza, verso una qualche timida vocazione nei riguardi dei processi di liberalizzazione politica e di pluralizzazione sociale sono stati stroncati sul nascere. Per la democratura putiniana è essenziale mantenere il controllo sui gangli del potere, annullando qualsiasi differenziazione che possa altrimenti minare il proprio auto-puntellamento difensivo. In Ucraina, per nulla terra di piena libertà ma spazio di ripetuti rivolgimenti, gli ultimi vent’anni sono stati accompagnati da segnali contrastanti e contrapposti, comunque contraddittori, dove tuttavia la faticosa ricerca di una via autonoma si è accompagnata ad un succedersi di crisi politiche. Ora, la questione non è data dal ricorso al tempo trascorso (con i richiami, reciprocamente contrapposti, e quindi speculari, al «nazismo» del proprio avversario) ma di come verrà organizzato quello a venire. Nel caso ucraino il tentativo di dare una qualche chance alle discontinuità con il passato autoritario di marca sovietica, assumendo aspetti e opportunità ancorati alla democrazia, è vissuta dal Cremlino (toh, parrebbe tornare in auge una categoria di analisi, la cremlinologia, altrimenti appassita) come una minaccia diretta ai propri interessi. Ovvero, a quelli di un gruppo di potere che non ha nessuna intenzione di mollare la presa. E che ben sa come il suo futuro sia legato alla subalternizzazione di quello dei paesi limitrofi. La partita di ciò che avverrà sul medio periodo si gioca comunque sul filo di quanto tempo ci vorrà affinché l’aggressione putiniana produca i suoi effetti. Poiché se l’Ucraina non dovesse cadere sotto le spire di un governo fantoccio, allora potrebbe essere la stessa Russia a subire un rinculo politico clamoroso. Despoti, autocrati, cleptocrati giocano d’azzardo. Si tratta di un banco al quale non è detto che debbano vincere sempre e comunque.
Commentatore 8
Che storia quella di Vladimir Zelensky, ne hanno parlato anche a TV talk in una puntata speciale sull’Ucraina. Ho sentito commenti su questa guerra e i suoi protagonisti (Putin, Biden, ecc.) più interessanti che sui talk politici. Bernardini è bravo, ha saputo trarre il meglio da tutti. Hanno fatto un ritratto di questo premier che mi è molto piaciuto, sia il ritratto che la persona Zelensky. E’ stato un attore e un comico, ma questo si sapeva. Un comico può essere una persona seria? Certo che sì. Ora lo sta dimostrando in maniera inequivocabile. Sa che è in cima alla lista di Putin delle persona da eliminare ed anche la sua famiglia, praticamente si potrebbe definire un morto che cammina. Credo che se avesse voluto avrebbe trovato la maniera di fuggire, soprattutto far fuggire i suoi cari, ma ha preferito vestire i panni dell’eroe. Vi ricordate il film ‘La grande guerra?’ e anche ‘Il generale Della Rovere’, non sono eroi, non si sentono eroi, ci si trovano a esserlo e, a quel punto, scelgono, ma è un attimo, un moto dell’anima che li travolge e che gli fanno scegliere la via più difficile e dolorosa. Credo che anche a Zelensky sia accaduto qualcosa di simile. La figura dell’eroe gli è piaciuta e l’ha fatta sua anche a costo della vita o comunque
Commentatore 9
Le suggerisco un ritratto meno oleografico di Zelensky:
Quindi noi andiamo appresso ad un tizio che dopo aver vinto un talent come ballerino improvvisamente diventa molto ricco non si sa come e trova così i soldi per fondare una casa di produzione diventando attore, regista, sceneggiatore e produttore di sé stesso e fa un serial tv di 51 puntate di una storia in cui lui fa un insegnante che finisce col diventare presidente eliminando tutti i corrotti nel parlamento ucraino. Il tutto su una tv proprietà dell’oligarca secondo più ricco uomo d’Ucraina, finanziatore delle brigate che hanno fatto migliaia di morti russofoni nell’est, in causa con la Russia perché aveva molte attività economiche in Crimea. Il tizio è pure sotto indagine FBI, si chiama Kolomoisky[1]. Poi la casa di produzione diventa -oplà- un partito il cui nome e marchio è il titolo del serial che risulta registrato come partito più di un anno prima che finisca la serie in tv. Dopo tre anni di serial, appena finita l’ultima puntata, con una casa di produzione che si fa partito col nome della serie tv si presenta alle elezioni e….e….cosa? Ma le VINCE, che sciocchini che siete.[iv]
Commentatore 8
ci vuole pure qualcuno che ci faccia vedere (in questo caso io) il complesso mondo delle brutture globali come fossero una telenovela. Sono una persona ingenua, romantica e senza istruzione, inoltre ho la spudoratezza di non vergognarmi se dico delle sciocchezze e questo, lo so, non è una bella cosa. Spero che chi legge questi scambi di opinione su FB, tenga più in conto il suo scritto che non il mio, se non altro per i dati che lei riporta. Sono una sciocchina, lo so, ma anche di questo me ne vergogno poco, ormai se non ci si è accettati alla mia età…
Commentatore 9
Siamo in milioni a essere “sciocchini”, cioè a doverci fare un’idea del mondo che si trasforma velocemente e spesso drammaticamente sulla base di frammenti che afferriamo dalla vita quotidiana o dai mass media. Lei coi suoi articoli fa questo. Lo faccio io pure. Gironzolando tra le pagine di FB proprio qualche ore fa ho letto queste parole: “Non si può sbarcare il lunario, accompagnare i bambini a scuola, leggere i Tre moschettieri, e insieme pensare alla minaccia atomica, sentirsela sospesa sulla testa. Però quando la terra trema e pensarci diventa inevitabile, bisognerebbe cercare lucidamente, razionalmente, di seguire il pensiero fino alle sue conseguenze, senza farsi prendere dal panico”. Gliele riporto perché mi pare che esprima bene lo scarto tra vita quotidiana e “destini generali” (così li chiamava Fortini) e il dramma che viviamo. Tra la cultura di massa (telenovela) e cultura scientifica (Fagan è uno studioso della complessità) ci dev’essere ogni tanto un qualche scambio. E’ questo che ho voluto tentare proponendo un altro ritratto di Zelensky.
Note
[i] http://moked.it/blog/2020/03/01/coloniavirus/?fbclid=IwAR2cb7u0UgOXrMw4ZXSeQo_h0cY66n9rYCeRQuOHWo4fAa818ZUBUKTx2L0
[ii] Ma qui nasce un nuovo problema, che uno studioso americano, Cass Sunstein dell’università di Chicago, ha già affrontato nel 2001 con il suo libro Republic.com e che ora ripropone, in versione aggiornata agli ultimi sviluppi dei blog e dei social network. Il titolo, persino un po’ troppo ovvio è Republic.com 2.0. La sua preoccupazione, del tutto condivisibile, è questa: una tale perfetta possibilità da parte di ognuno di selezionare quanto gli interessa e di escludere tutto il resto genera una pericolosa frammentazione della sfera pubblica che a sua volta si riflette negativamente sull’idea stessa di democrazia e di libertà di espressione. Il Daily Me o il My Journal, rinchiudono ognuno nel guscio dei suoi interessi attuali, senza esporlo mai ad altre informazioni e ad altri punti di vista. Così avviene spesso anche per i forum, i blog, le comunità: frequentare solo i luoghi dove si sa a priori che la pensano come noi può essere tranquillizzante e gratificante. Allineare il proprio sito a quelli simili è utile e fa comunità. Ma può anche accecare e limitare. Al contrario, sostiene Sunstein, un ben congegnato sistema della libertà di espressione dovrebbe rispondere a due requisiti. Primo: «Le persone devono essere esposte a materiali (notizie e punti di vista, ndr) che non hanno scelto in anticipo. Degli incontri non pianificati, non anticipati, sono un elemento essenziale della democrazia». È la differenza che corre tra il frequentare un club chiuso (di tifosi di una squadra, di appassionati di arte digitale, di cultori di una sottocorrente del buddismo) e invece circolare per le piazze e negli angoli di strada, dove si incrocia, e magari si dialoga con altra umanità. È la differenza tra coltivare l’identità in maniera esasperata e lasciarsi coinvolgere dalla diversità. Questo atteggiamento, da strada e piazza pubblica, è un potente antidoto a razzismi, settarismi ed estremismi. Secondo: è utile e opportuno che «molti cittadini condividano delle esperienze. Senza esperienze condivise una società eterogenea avrà una difficoltà molto maggiore nell’affrontare i problemi sociali. Le persone possono trovare difficile capirsi gli uni con gli altri». Questo aspetto di piattaforma comune di informazioni è stata la grande caratteristica virtuosa della stampa quotidiana generalista: offre a ogni comunità, a diverse scale di grandezza, dal comune alla nazione, un contesto a partire dal quale stare assieme, ma anche se del caso discutere e litigare civilmente. È una condizione essenziale della democrazia. E non si tratta solo dei grandi fatti della politica: anche la cronaca nera e bianca, i nati e i morti, sono il tessuto comune che i quotidiani tradizionalmente offrono. È una funzione di collante (glue) sociale. In questo essi sono favoriti dalla loro struttura fisica, che obbliga a sfogliare: per arrivare alle pagine dell’amato sport uno è costretto a muovere i fogli e lo sguardo magari gli cadrà sul Darfur o sul riscaldamento globale: viene «esposto», appunto ad altri temi e problemi, e va a vedere che non si soffermi. Se questi due elementi – l’esposizione e la condivisione di esperienze – vengono a mancare perché ogni individuo si costruisce il proprio media personale, le sue «camere ad eco» che appunto echeggiano le sue preferenze e i suoi punti di vista predeterminati, allora sono guai. Il rischio segnalato da Sunstein è reale e già presente nelle nostre società, anche indipendentemente dalle tecnologie digitali, e non basta esorcizzarlo sostenendo che tanta informazione, anche se frammentata, è comunque un progresso. Ciò è vero, è sempre vero, ma non basta. Questi sono tempi di informazione sovrabbondante e dove, contemporaneamente, l’attenzione è la risorsa scarsa. Per questo «il filtraggio è un fenomeno inevitabile, un fatto della vita». Ma altrettanto utile è continuare ad alimentare e a valorizzare i luoghi della diversità e del libero confronto. Anzi proporsi esplicitamente di costruirli.
(Da https://chipsandsalsa.wordpress.com/).
[iii] https://www.andyrocchelli.com/bio/
[iv] https://pierluigifagan.wordpress.com/2022/03/04/sono-indig-nato/