di Eugenio Grandinetti
La storia
La storia dei personaggi importanti,
degli eventi memorabili, la sequenza
di guerre tra gli stati e dei trattati
di pace stipulati tra i soliti potenti
mentre restano i rancori degli umili,
la storia di cui resta memoria
nei palazzi dei potenti e negli ossari
dei sudditi caduti per la gloria
dei sedicenti grandi, nello sfarzo
dei palazzi e della cattedrali, quella storia
– si dice- è ormai superata. Ora vale
la storia delle statistiche che considera
tutto il popolo e non solamente
le classi dirigenti,che dice
che sono i bisogni delle masse
a determinare gli eventi che si verificano:
le guerre infinite, i trattati
di paci provvisorie e brevi o forse solo
illusorie. Ma i bisogni
dei popoli chi li determina? Chi controlla
la produzione e i mercati, chi induce
bisogni nuovi con il controllo
dei mezzi che dicono di informazione
e con l’esibizione di un mondo
più piacevole e certo più appariscente
di quello banale della gente
che non appare mai? Certo la storia
ora si mostra più democratica
perché non ci sono i re che decidono
a loro arbitrio della vita
di milioni di persone, umiliate, indifese
e rese incapaci di decidere
dei loro destini, succubi
non partecipi degli eventi
che loro malgrado accadevano. Ma ora
ci sono padroni anonimi che si nascondono
dietro gli eletti dai popoli,che muovono
pedine inerti su uno scacchiere
segreto, in un gioco crudele che induce
masse indigenti a muoversi
per il mondo, che suscita
odi e stragi in base a parole astratte
come dio,civiltà, appartenenza a una razza,
che uccide di fame o di guerre infinite,
in un mondo ancor più crudele
di prima ma che dicono
più democratico:La storia, quella
che i popoli subiscono,non quella
che si elabora negli ambienti accademici
è sempre la stessa se restano uguali i rapporti
tra popolo e popolo, tra persona e persona,
se c’è chi comanda e chi invece ubbidisce
chi lavora e chi sfrutta il lavoro
degli altri, chi vive a fatica e chi vive
in mezzo al denaro e ai piaceri, chi dice
che è giusto che il merito
sia ricompensato e chi merita
e vede che la ricompensa
va tutta a chi dice di aver meritato.
Ugolino e Vadino Vivaldi
“Uomo delle velette vedi forse
qualche segno di terra all’orizzonte?”
“No, capitano, vedo solamente
una linea continua in cui si fondono
cielo e mare.” “E allora
andiamo ancora ad occidente, dove
deve esserci una terra che alla fine
del giorno accolga il sole e lo nasconda.”
Nel quieto delle case in quest’istante
qualcuno aspetta inquieto e attento scruta
da una finestra se dall’alto appaia
arrivare una nave, e intanto scende
come una colata di lava il sole
e tutto incendia e brucia
finché non resti a ricoprire il tutto
altro che il nero della notte.
“Ora, fratello, a casa penseranno
a noi e di giorno in giorno
aspetteranno che la nostra nave
appaia all’orizzonte. Questa è l’ora
in cui s’accende a riva la lanterna
per indicare a chi ritorna il porto.
C’è un posto accanto al focolare dove
si siedono i bambini e a bocca aperta
ascoltano le favole dei luoghi
lontani, delle avventure immaginarie
o vere di chi ritorna da azzardati viaggi.
Il cuore ora mi dice di tornare
a casa perché lontana
e forse irraggiungibile è la meta
verso cui tendevamo.
Non è disonorevole fallire
dopo avere tentato. Ogni scoperta
è fatta di tentativi andati a vuoto
fino a quando, come per un caso, un giorno
si trovi la via giusta. Questo nostro
tentativo è fallito. Non dobbiamo
aggiungere alla frustrazione anche la morte.
Torniamo indietro finché abbiamo ancora
viveri ed acqua a sufficienza. Rivolgiamo
la prora verso oriente, che ci restino
ancora altri soli ed altri sogni.
Possiamo ancora scegliere:torniamo!”
“La sola scelta che ci è data è quella
tra una morte banale ed una morte
che tenga in vita un sogno.
Andremo avanti fino a che ci reggano
le forze ed il fasciame
regga l’oceano,
illudendoci che un giorno infine appaia
il segno di una terra all’orizzonte,
che sia il paese della seta e delle spezie,
o sia l’orlo di un mondo nuovo, o sia il ritorno
al nostro vecchio mondo ove si giunga
dopo avere compiuto tutto quanto
il giro dell’oceano che ci cinge.
Uomo delle velette vedi forse
qualche segno di terra all’orizzonte?”
“No capitano,non si vede niente :
l’orizzonte è disfatto e un buio fitto
confonde agli occhi cielo,mare e notte.
Uccidere
Uccidere
nemici anonimi e non vederne
il sangue versarsi e non sentire
le grida dei morenti e non accorgersi
del dolore :solo limitarsi
a sganciare una bomba da un aereo
o a lanciare da lontano un missile,
poi tornarsene a casa e dormire
stanchi e sereni
come fanciulli dopo i loro giochi.
Aquilino
Dalla pietraia nuda il sole ardente
brucia con il riverbero ogni fronda
e spegne ogni voce.
Il Savuto impigrito dall’arsura
indugia tra le arcate al ponte nuovo
timoroso di scorrere su un greto
scabro ed asciutto.
Ritto e nodoso come un tronco secco
o come un fico d’india della siepe
Aquilino sull’uscio della torre
guarda le stoppie della scorsa annata
pronte al prossimo debbio,
guarda la vigna che tra gialli pampini
spinge al sole arrossati radi grappoli
che spera arriveranno alla vendemmia.
Il tempo della memoria si è fermato
a quel meriggio di una calda estate,
ma gli anni invece son passati ed hanno
cambiato molte cose. Forse
Aquilino è già morto ed i suoi figli
sono sparsi tra Melbourne e Vancouver.
Al posto della torre c’è la sede
di un’autostrada dove le automobili
inseguono percorsi predisposti.
Quelli ch’erano coltivi a gran fatica
strappati alla pietraia son tornati
sterili,dove stenti
spuntano radi cisti e calcatreppole.
Solo il Savuto a ponte nuovo ancora
pare seccarsi nell’estate e aspetta
le piogge dell’autunno per gonfiarsi
e scendere iroso verso il mare.
Nella mente s’inseguono pensieri
che si fanno rigagnoli e ristagnano
senza farsi parole, generando
memorie come anofeli, inutili
e fastidiose.
Ma il tempo è indifferente, che trascorre
uguale, senza magre che ne rendano
più lento il corso e senza piene
che lo affrettino
e quando è l’ora giunge al punto estremo
del suo percorso
si smemora di sé per farsi salso
e fondersi col mare che non ha
un suo percorso univoco ma vive
fluttuando da una sponda all’altra sponda.
Immigrati
Essere senza terra e senza gente
in un mondo che t’odia e si difende
da te offendendoti, che pare
che ti accolga ma ti emargina e ti guarda
per guardarsi da te,c he ti sfugge
se tenti di accostarti ma ti cerca
per sfruttarti e ti permette
anche di lavorare, però in nero
che se cadi da un’impalcatura o se rimani
sepolto dalle macerie non ci sia
nessuno che ti cerchi che nessuno
debba avere fastidi alla scoperta
della tua morte.
Testimonio
Dissero che era un testimone
oculare, ma gli rimproveravano
di non avere l’ardire di parlare.
Stava muto davanti ai giudici
che lo interrogavano, ma non poteva
dire ch’erano stati proprio loro
i colpevoli, o quanto meno,
i complici dei colpevoli: erano loro
quelli che avevano inferto il colpo o quelli
che avevano fornito le armi
o avevano occultato i corpi dei cadaveri;
erano loro quelli
che avevano trafugato la roba o quelli almeno
che avevano preso una parte del bottino.
Ed ora lo tenevano impalato a tormentarlo
con le loro domande inutili aspettando
che non parlasse, per giustificare
l’impunità dei colpevoli con la presunta
omertà della gente,
oppure che parlasse per poterlo imputare
di falsa testimonianza, tacciandolo
d’essere un sovversivo che accusasse
degli innocenti, spinto solamente
da uno spregevole odio di classe.
L’alternativa
L’alternativa alla legge non deve essere
il disordine, anche se l’ordine
di questa legge non è che una maschera
dietro cui si nascondono i potenti,
di qualunque specie essi siano, per compiere
legalmente le loro sopraffazioni.
Ma l’alternativa a ogni legge dovrebbe essere
una legge più giusta per proteggere
un nuovo ordine senza privilegi.
Ma se si agisce rispettando
la legge ora in vigore
che assegna ai potenti di oggi il privilegio
di cambiare la legge, è ragionevole
sperare che una nuova legge sia
pur se non giusta almeno meno iniqua?
La ballata della democrazia
Che bella parola DEMOCRAZIA
voglio gridarla in mezzo alla via,
voglio diffonderla in tutta la terra
anche a costo di fare la guerra.
Fare la guerra non è tanto un male
se si persegue il grande ideale
di assicurare l’egemonia
ai capitalisti di casa mia.
La sola cosa che oggi ha importanza
è l’andamento della finanza
che non dovrebbe aver cedimenti
perché i ricchi non si lamentino.
Che si lamenti la vile plebaglia
perché si mandano alla battaglia
soltanto i poveri e i diseredati
tanto per questo vengon pagati.
Vengon pagati con pochi contanti
che però a loro paiono tanti.
Paiono tanti perché col salario
si riesce a stento a sbarcare il lunario
ma chi delle armi esercita l’arte
mangia e mette qualcosa da parte.
Certo in guerra si può morire
e nessuno può aver da ridire
ma muore pure per qualche incidente
chi va a lavorare per poco o niente.
Quello che conta è che vada avanti
questo sistema di acquisto in contanti
d’uomini che vanno a lavorare
o vanno in guerra a farsi ammazzare.
La polverina
Nel gioco della storia non ha nome
chi non inganna o non uccide oppure
non riesce ad emergere sfruttando
o restare impunito corrompendo
frodando o ricattando.
L’onestà non paga e non appaga
in questo nostro mondo dove contano
il denaro e il potere e il resto è solo
polverina per ingannare i gonzi.
Mesopotamia
Volano i fenicotteri sull’Eufrate,
hanno le ali rosate e i becchi
ricurvi per sondare
fondali di sabbia o di fanghiglia.
Volano ma non osano fermarsi
nelle palude salse : altri volatili
li disturbano, enormi,
con le ali roteanti e con i rostri
che sputano fuoco e morte. Forse questa
non è più la terra dei due fiumi: è la terra
delle due guerre, terribili, della morte
sempre in agguato,della distruzione
continua,della disperazione
senza fine.
…Eugenio Grandinetti, il poeta che ci parla dell’estrema solitudine di Ulisse viaggiatore senza approdi, l’uomo del nostro tempo, in queste altre poesie assume una veste corale, storica: denuncia le macchinazioni dei potenti, si fa interprete delle “piccole storie” che non compaiono sui libri di storia, della natura che ancora per un poco resiste o diventa vittima della tecnologia distruttiva, del fallimento di secoli per un viaggio verso occidente che ci ha portatoto lontano da noi stessi…Ma poi traccia un percorso di speranza, perchè si puo’ sempre ricominciare da capo. I fallimenti non ci devono fermare…Una poesia trasparente, brechtiana, che sa creare un noi di consapevolezza.
Complimenti per l’esemplare messaggio semantico, che condivido integralmente. Ma la poesia, almeno nel primo brano al quale mi riferisco – “La storia -, cosa c’entra? A me pare solo dell’ottima prosa che, anche a beneficio dell’occhio del lettore, si sarebbe potuta tranquillamente scrivere come solitamente si scrive la prosa e come mi sono permesso di trascrivere qui sotto…. Il mio antico maestro elementare ci diceva, forse un po’ rudemente, che nessuno ci avrebbe mai potuto spiegare cosa veramente sia la poesia, ma che certamente non poteva essere solo “andare a capo prima di finire la riga”. Quello restava, per il vecchio maestro, solo spreco di carta e di spazio! Certo oggi, con i computer, a questi “sprechi” nessuno (ma non so quanto giustamente) fa più caso… E allora, gentile Eugenio Grandinetti, messe da parte queste quisquiglie, non mi resta che ribadire i miei più sinceri complimenti per la sua esattissima, coinvolgente e veramente umana interpretazione della storia!
La storia
di Eugenio Grandinetti
La storia dei personaggi importanti, degli eventi memorabili, la sequenza di guerre tra gli stati e dei trattati di pace stipulati tra i soliti potenti mentre restano i rancori degli umili, la storia di cui resta memoria nei palazzi dei potenti e negli ossari dei sudditi caduti per la gloria dei sedicenti grandi, nello sfarzo dei palazzi e della cattedrali, quella storia – si dice- è ormai superata. Ora vale la storia delle statistiche che considera tutto il popolo e non solamente le classi dirigenti, che dice che sono i bisogni delle masse a determinare gli eventi che si verificano: le guerre infinite, i trattati di paci provvisorie e brevi o forse solo illusorie. Ma i bisogni dei popoli chi li determina? Chi controlla la produzione e i mercati, chi induce bisogni nuovi con il controllo dei mezzi che dicono di informazione e con l’esibizione di un mondo più piacevole e certo più appariscente di quello banale della gente che non appare mai? Certo la storia ora si mostra più democratica perché non ci sono i re che decidono a loro arbitrio della vita di milioni di persone, umiliate, indifese e rese incapaci di decidere dei loro destini, succubi non partecipi degli eventi che loro malgrado accadevano. Ma ora ci sono padroni anonimi che si nascondono dietro gli eletti dai popoli, che muovono pedine inerti su uno scacchiere segreto, in un gioco crudele che induce masse indigenti a muoversi per il mondo, che suscita odi e stragi in base a parole astratte come dio, civiltà, appartenenza a una razza, che uccide di fame o di guerre infinite, in un mondo ancor più crudele di prima ma che dicono più democratico: La storia, quella che i popoli subiscono, non quella che si elabora negli ambienti accademici è sempre la stessa se restano uguali i rapporti tra popolo e popolo, tra persona e persona, se c’è chi comanda e chi invece ubbidisce chi lavora e chi sfrutta il lavoro degli altri, chi vive a fatica e chi vive in mezzo al denaro e ai piaceri, chi dice che è giusto che il merito sia ricompensato e chi merita e vede che la ricompensa va tutta a chi dice di aver meritato.
non si tratta di una poesia lirica perciò il linguaggio è volutamenmte non poetico.esistono però delle forme metriche e delle figureb retoriche che vorrebbero coinvolgere anche emotivamente il lettore.ci sono riuscito?lo spero,ma non sta ba me giudicare.
@ Ottaviani
« Ma la poesia, almeno nel primo brano al quale mi riferisco – “La storia -, cosa c’entra?».
Dico la mia opinione.
C’è una zona contigua o anche di reciproca sovrapposizione tra poesia e prosa (specie nel secondo Novecento). E, per quel che mi è arrivato del dibattito tra specialisti, alcuni se ne scandalizzano mentre altri sono più tolleranti o addirittura favorevoli a questi incontri dichiarati o furtivi (1). Non faccio esempi per evitare divagazioni polemiche inutili, anche perché questa è questione che rientra anch’essa nella categoria dell’incertezza che domina quando parliamo di poesia ( o sotto la formula del “bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto” a seconda dei criteri di attesa di chi parla. «Quisquiglie», appunto…).
È vero che il primo testo potrebbe essere scritto anche in prosa, ma non sarebbe più evidente la scansione che Grandinetti ha voluto dare e che lo sposta – magari di poco – verso la poesia.
Direi poi, conoscendo Eugenio, che s’è così abituato a scrivere il suo pensiero in versi che non si pone neppure più il problema di una distinzione netta ( o determinata) tra poesia e prosa, perché forse non gli interessa.
(1)
Un esempio di come nell’intervista a RAI Educational, «Che cos’è la poesia?», Fortini tratta la questione:
«Certamente oggi – non due o tremila anni fa quando, probabilmente, la questione sarebbe stata diversa – quando noi diciamo “una poesia” intendiamo una composizione, un testo non lungo dove sia possibile identificare un certo sistema che è indicato graficamente dagli “a capo” e poi anche da un congegno di pause maggiori, quelle che separano una unità ritmica da un’altra. Ebbene, queste possono corrispondere o non corrispondere alle intonazioni cosiddette naturali e in questo caso comunque le chiamiamo “verso”.
Ora, se io parlando o scrivendo faccio tornare ad intervalli uguali certi accenti e certi accenti tonici, si forma, come si suol dire, un’attesa tecnica. Prendiamo la comunicazione normale: “se mi dai quella mezza matita che è posata vicino al tuo libro, ti sarò molto grato, mio caro, e al più presto te la renderò”. Questo enunciato è un gruppo di quattro decasillabi e chi ascolta o legge si aspetta che il discorso continui ripetendo lo stesso schema ritmico. Molto spesso dei prosatori fanno uso di questi schemi ritmici con effetti vari.
Nel Cinquecento un retore veronese o padovano, Sperone Speroni, iniziava così una sua orazione: “Noi Padovani generalmente siamo allegrissimi non solamente per l’onor nostro particolare e per la pubblica utilità, onde noi siamo non poca parte, ma per l’onore di tutto il popolo”: era una serie di quinari con i quali egli credeva di dare sostenutezza al suo discorso. In epoca contemporanea è possibile vedere come certi scrittori, per esempio il bravissimo Silvio D’Arzi, abbia costruito un suo racconto in novenari abbastanza nascosti per cui il lettore non se ne accorge ma, insensibilmente, gli viene suggerito un ritmo. Questo è un procedimento che naturalmente i grandi prosatori hanno in qualche modo sempre seguito, e che spiega perché si sia potuto parlare di un “ron ron” per esempio per la prosa di Flaubert. Ognuno avverte che ci sono degli elementi di scansione anche nelle scritture in prosa.»
Mentre leggevo la Storia notavo che l’argomentazione era un po’ sommaria: i bisogni delle masse sono indotti, i movimenti dei popoli stimolati da false bandiere, ecc. Alla fine della poesia Grandinetti afferma invece che la storia è sempre la stessa fin che ci sono dominati e dominatori, lavoratori e sfruttatori.
Insomma mancava un’argomentazione nella poesia, c’era invece un riassunto, una esposizione. Per questo ritengo che è impossibile pensare quel testo “in prosa”, perché in prosa un’articolazione non può mancare. Con questo non intendo affermare che la poesia non chiede ragionamenti, mi sono chiesta piuttosto che cosa voleva comunicare “quella” poesia, con il suo andamento ritmico e rimato di affermazioni.
Mi sono risposta che quell’incalzare esprimeva un’urgenza di ribadire, con intransigenza, dati acquisiti, che è bene ripetere. Una poesia, semplice, per rinfrescare e impedire che caso mai ci si distragga da qualcosa che si sa e si deve tenere presente.
alcune poesie hanno un lessico quotidiano e versi ritmati e rimati, perché i temi sono semplici e chiari e chiaramente vengono scanditi dal poeta a chi vuole sentire
altre sono costruite in modo serrato, perché esibiscono un paradosso che colpisce il bersaglio
ma mi hanno entusiasmato Aquilino e Mesopotamia per la cura della visione, tratti segnati, colori accesi e scuri, solo movimento in avanti, e qui il lessico, sempre quasi quotidiano, è preciso e pulito come una pietra lavorata, non da gioielliere, da lavoratore corpo e mani
trovo molto interessanti le considerazioni di Ottaviani,che meriterebbero una altrettanto acuta risposta che io,per mia pochezza critica,non mi azzardo a dare(Il discorso non è ironico) I latini consideravano la possibilità di una “prosa numerosa” ma cercavano di evitarla:quanto al discorso sul mio “la storia” devo precisare che io non considero la poesia come qualcosa dotata di una certa sacralità, ma la ritengo nient’altro che un linguaggio che serve a veicolare messaggi tra persone diverse (emittenti e riceventi).
naturalmente perché possa esser considerato un linguaggio autonomo deve presentare qualche particolarità che lo distingua dai linguaggi comuni costituiti dalle lingue nazionali.come caratteristiche posson esser considerate un certo ritmo, un lessico che si differenzi dal lessico comune per la maggiore ampiezza e per una maggior carica emotiva ed una serie di figure retoriche.
se consideriamo,ad es,i vv 16 e segg.del canto XI dell’inferno dantesco appare evidente che possiamo parlar di poesia (cosa che Croce negava) solo per l’uso della metrica e delle rime e non per il contenuto del messaggio:
quanto alla mia “la storia”, io ho cercato di render “poetico” un contenuto discorsivo solo con l’uso frequente di versi classici (quali endecasillabi e novenari) nonchè di rime, assonanze, allitterazioni ed altre figure di suono e di pensiero.
analizziamo i primi versi:
1)endecasillabo
2) novenario,con l’aggiunta di”la sequenza” che potrebbe costituire un verso monco a parte
3)endecasillabo con rime tra “stati” e “Trattati” che hanno ancora rima al mezzo col verso successivo
4)endecasillato
si potrebbe continuare, ma naturalmente l’analisi potrebbe non esser considerata valida al fine di stabilire la poeticità del testo, il che è senz’altro vero se per poeticità si intende liricità.
A Eugenio Grandinetti
scorrono chiare le accuse . Nessuna rassegnazione. Fredde constatazioni.
Eppure la dolcezza dell’animo , l’esperienza e l’umanità hanno un peso fondamentale in questi versi , nei quali si vuol arrivare direttamente , senza scuse al lettore che resta per un poco, solo per un poco a chiedersi se anche questa è poesia, ma poi l’efficacia delle sensazioni e del modo di intendere la poesia come Grandinetti ce la vuol spiegare è davvero importante per capire tutto ciò che c’è da capire del poeta e della sua arte. Complimenti
…La prima poesia “La storia” mi è molto piaciuta anche per quel ritmo cadenzato che l’accompagna nella lettura…Una poesia di denuncia di verità scomode che, secondo me, sarebbe molto efficace presentare in una recitazione teatrale come una marcia inarrestabile, accompagnata da un rullo di tamburi…
Anche altre poesie: “Ugolino e Vadino Vivaldi”, “Aquilino”, “La democrazia”…potrebbero essre testi da rappresentate.
la discussione su cosa sia poesia e cosa sia prosa, credo sia talmente decotta che il definirla ” di lana caprina ” è superfluo.
a me, da appassionato lettore di poesia del nostro tempo, sembra che i testi che ci sono stati sottoposti siano, in particolare ” Ugolino e Vladini Vivaldi “, di una liricità eccezionale, di quelli di fronte ai quali uno che pensa di aver scritto qualche poesiola leggibile durante i suoi anni, si rende conto di dover ammettere ” vorrei aver trovato io quella capacità di scrittura “.
anche ” la storia ” è molto bella, e se un difetto le si può trovare è che sia troppo densa di avvenimenti, di significati, di riflessioni, e tutto ciò impedisce al lettore la giusta sosta sopra ogni ” strofa ” ( ammesso che di strofe si possa parlare per questo testo ), ma il testo in sè è poesia perchè possiede una qualità fondamentale ( per me ) la chiarezza di lettura e la non ambiguità del testo.
Non ambiguità intendo nel senso di sapere con chiarezza cosa pensa l’autore e da che parte sta con le sue parole, visto che per natura non amo le fumoserie stilistiche e il verso semplicemente “evocativo, fascinoso ” ma inconsistente.
Grazie per l’ospitalità.
Del poetare di E. Grandinetti ho detto in altri interventi (su Aquilino, il Savuto…).
In questa raccolta, oltre alla bellezza ‘estenuante’, da toglierti il respiro, di “Ugolino e Vadino Vivaldi” – che permette di spaziare nella storia incessante della ricerca umana nel confronto con il limite e la conseguente scissione tra questa spinta verso l’Assoluto (*e forse irraggiungibile è la meta/verso cui tendevamo*) e l’esperienza della caducità (*“La sola scelta che ci è data è quella/tra una morte banale ed una morte/che tenga in vita un sogno*) – emerge la domanda di P. Ottaviani (a fronte della poesia “La storia”) sullo stile adoperato dal poeta: poesia o prosa? A cui segue l’interessante esperimento di tradurre in prosa la poesia stessa. Una ‘traduzione’ che, in quel modo, mi pare “tradisca” l’originale.
Se il contenuto rimane identico, il cambiamento della forma produce un impatto che ha un effetto diverso anche sullo stesso contenuto dove si davano dei risalti specifici ai termini utilizzati e alla relazione tra gli stessi.
Nella ‘forma poetica’ viene sottolineata, attraverso il ritmo e la cadenza, la diversa importanza che le parole (le stesse parole) avrebbero invece nell’ambito del discorso.
Nella poesia esse sono investite di un di più, ovvero di quella parte (consapevole e/o inconsapevole) del poeta che egli mette nella scelta di quel termine, di quel particolare “andare a capo”, di quella particolare “assonanza” che può stare lì e solo lì. La cesura (la catà-strofe) indica che lì in mezzo ci sta – o dovrebbe starci – un pensiero non enunciato, mentre nel caso della prosa, a meno che essa non venga investita dall’alone poetico, tutto scorre ‘liscio’.
Un altro aspetto che mi sembra di rilevare nella poesia di E. Grandinetti è l’utilizzo delle immagini. Esse vengono ‘affidate’ al lettore, alla sua storia esperienziale, senza la coercizione di un reclutamento emotivo che lo porti a soggiacere alle emozioni, bensì ad entrare in colloquio con esse.
Per dirla in altri termini, l’immaginario è al servizio dell’Io e non viceversa e cioè un Io travolto dall’immaginario.
R.S.
Gentilissima Rita,
… ma con la logica della “catà-strofe” dove il pensiero non enunciato sta “o dovrebbe starci”, anche la sua bellissima prosa può mutarsi presto in poesia! Eccole qui sotto un possibile esempio.
Con tutta la mia stima e la mia più viva cordialità.
Paolo
Di Rita Simonitto
Del poetare di E. Grandinetti
ho detto in altri interventi
(su Aquilino, il Savuto…).
In questa raccolta,
oltre alla bellezza ‘estenuante’,
da toglierti il respiro,
di “Ugolino e Vadino Vivaldi”
– che permette di spaziare
nella storia incessante
della ricerca umana
nel confronto con il limite
e la conseguente scissione
tra questa spinta verso l’Assoluto
(*e forse irraggiungibile è la meta
/verso cui tendevamo*)
e l’esperienza della caducità
(*“La sola scelta che ci è data è quella/
tra una morte banale ed una morte/
che tenga in vita un sogno*) –
emerge la domanda di P. Ottaviani
(a fronte della poesia “La storia”)
sullo stile adoperato dal poeta:
poesia o prosa? A cui segue
l’interessante esperimento
di tradurre in prosa la poesia stessa.
Una ‘traduzione’ che, in quel modo,
mi pare “tradisca” l’originale.
Se il contenuto rimane identico,
il cambiamento della forma
produce un impatto che ha un effetto
diverso anche sullo stesso contenuto
dove si davano dei risalti
specifici ai termini utilizzati
e alla relazione tra gli stessi.
Nella ‘forma poetica’
viene sottolineata,
attraverso il ritmo e la cadenza,
la diversa importanza che le parole
(le stesse parole) avrebbero invece
nell’ambito del discorso.
Nella poesia esse sono investite
di un di più, ovvero
di quella parte (consapevole e/
o inconsapevole) del poeta
che egli mette nella scelta
di quel termine, di quel particolare
“andare a capo”,
di quella particolare “assonanza”
che può stare lì
e solo lì. La cesura
(la catà-strofe) indica
che lì in mezzo ci sta
– o dovrebbe starci –
un pensiero non enunciato,
mentre nel caso della prosa,
a meno che essa non venga investita
dall’alone poetico, tutto scorre ‘liscio’.
Un altro aspetto che mi sembra di rilevare
nella poesia
di E. Grandinetti
è l’utilizzo delle immagini.
Esse vengono ‘affidate’ al lettore,
alla sua storia esperienziale,
senza la coercizione di un reclutamento emotivo
che lo porti a soggiacere alle emozioni,
bensì ad entrare in colloquio con esse.
Per dirla in altri termini,
l’immaginario è al servizio dell’Io
e non viceversa e cioè
un Io travolto dall’immaginario.
R.S.
Uella! Stupendo!
Sì, interessante e spiritosa questa ‘trans-duzione’!
Però sarebbe una vera catastrofe se questa si facesse passare per poesia, “iuxta propria principia” (della poesia, intendo).
Io non parlavo solo della *logica della ‘catà-strophe’*. Piuttosto – ma se ci si dilunga, il discorso diventa tedioso e ‘decotto’, come sostiene L. Paraboschi; se si è sintetici si rischia l’equivoco – richiamare qualche cosa di analogo (proprio rispetto al *tra una parola e un silenzio*) a quanto leggo di seguito:
UN DIO
Non io ma un dio talvolta
produce il verso misterioso
e nell’oceano che s’apre
tra una parola e un silenzio
festoso navigo e attento.
(Paolo Ottaviani)
Di converso, sarebbe come se io, a mio arbitrio, mi permettessi di prosaicizzare questa bellissima poesia solo perché ‘si presta’ ad una lettura in prosa:
Le parole e la serpe
Se mai ci fu un inizio
fu di fuoco e fanghiglia
e di là pietre, rami,
pesci, serpi e l’umana
carne esaltata e torta
nel pianto autocosciente
di immaginaria morte.
Ma la foglia e la serpe
in un soffio appagato
s’accartocciano ignare
senza morte o lamento.
Pronta ad alimentare
un altro fuoco e un altro
vento è questa mia carne
che si muta in parola
mai ricolma di luce?
(Paolo Ottaviani)
riducendola così (facendone un ‘transgender’!):
Se mai ci fu un inizio fu di fuoco e fanghiglia e di là pietre, rami, pesci, serpi e l’umana carne esaltata e torta nel pianto autocosciente di immaginaria morte.
Ma la foglia e la serpe in un soffio appagato s’accartocciano ignare senza morte o lamento.
Pronta ad alimentare un altro fuoco e un altro vento è questa mia carne che si muta in parola mai ricolma di luce?
Simpaticamente.
R.S.
allora: prosa stile umile, poesia stile sublime?
AVVISO
Ho tolto un commento di Luciano Aguzzi sulla poesia di Eugenio Grandinetti perché si tratta di un vero e proprio saggio che merita un post autonomo. Lo pubblicherò appena possibile.
Di conseguenza ho “congelato” anche due commenti di ro. Anch’essi ricompariranno appena pronto il post.