di Ennio Abate
Gli anni seguiti alla settimana in seminario – dieci circa! – furono per Chiero di contorsioni. Sempre nel minestrone della vocazzione – cattolica, salernitana, parrocchiale, scolastica – stava. E là dentro si contorceva.
Rientrò tra i ragazzi a san Domenico – E addò puteve ì? Cose diverse pe guagliuni cumm’a isse attuorne nun ‘ngerane! – e accadde che all’inizio dell’estate del 1953 la signorina Dag gli propose di andare a un campo estivo, organizzato sempre dall’Azione Cattolica. Ad Acerno. Mìneche e Nannìne temevano di mandarlo. Chiero, gracile dalla nascita, stava facendo una cura ricostituente ordinata dal dottor Pepe. Una infermiera – l’abito nero delle vedove del dopoguerra – bussava la mattina presto alla porta e tra e capriccie ro guaglione e le rassicurazioni – sbrigative dell’infermiera, impacciate di Nannìne – gli faceva delle iniezioni di vitamina B12. Chi gliele avrebbe fatte in campeggio?
Immagini d’inquietudine a sera. A quei tempi via Sichelgaita era appena sterrata e c’erano soltanto lampioni piantati su pali di legno. Distanziati più di cento metri l’uno dall’altro. Le loro lampade mandavano un alone fioco e circoscritto. Solo in certe notti calme quei pochi globi di luce soffusa erano riassorbiti dall’alone unico e naturale della luna piena.
Quante volte, quando il buio calava, Nunuccio [1] fissò dalla finestra della stanza sua e di Eggidie – la fronte premuta sul vetro – lo spicchio di strada illuminato dal lampione all’angolo del convitto Pascoli? Poche volte, ma inchiodate per sempre nella sua angoscia infantile. Trattenendo l’ansia, tra le sagome scure che per pochi attimi, attraversandolo, si stagliavano su quello spicchio luminoso – trecento metri in linea d’aria dalla sua finestra -, cercava di indovinare quella piccola e lenta di Nannìne, che certe sere tardava a tornare dalla visita ai parenti.
Nella stanza da pranzo, Mìneche – sulle spalle il pastrano di quand’era stato soldato nella Prima guerra mondiale: lo stesso che stendeva la sera sulla parte bassa del letto matrimoniale per tenersi i piedi più al caldo – neppure ascoltava più la Radio Marelli accesa. S’era appisolato per la stanchezza sulla sedia russando. E Eggidie?
La loro palazzina e quelle circostanti precipitavano ogni sera in un buio arcaico. Chiusi i portoni che davano sulla strada, ogni famiglia si isolava. Nannìne controllava più volte che fosse chiusa a chiave la porta d’ingresso in legno massiccio e che anche la spranghetta fosse tirata fino in fondo. Poi si spegnevano le luci della cucina, della sala da pranzo, del corridoio.
Nei primi tempi di permanenza nel nuovo appartamento veniva chiusa con una minuscola serratura a scorrimento anche la porta interna che separava le due stanze da letto – quella dei genitori e quella accanto, dove dormivano Nunuccio e il fratello, dalle altre.
Si faceva così per impedire al freddo, che penetrava nella cucina e nella sala da pranzo rivolte a nord di arrivare anche nelle stanze da letto poste a sud? Così se lo spiegava Eggidie. Lui ricordava persino che, nelle mattine d’inverno, in cucina trovavano l’acqua ghiacciata nei colli delle bottiglie piene d’acqua. E che, oltre all’emozione alla vista del ghiaccio, scattava anche la speranza che il gelo fuori avrebbe convinto Nannìne a non accompagnarli a scuola dalle monache.
E però… Ah, le galline! Nunuccio ne aveva visto nel pollaio di campagna di zia Assuntina. Anch’esse venivano rinchiuse verso sera.
Aveva qualcosa di elementare e animalesco anche quello sprangare per la notte con la piccola serratura quella porta interna. (E vabbè che allora si usavano i vasi da notte).
Mìneche e Nannìne rispettavano così un loro bisogno immaginario di doppia protezione. E spingevano i figli a temere o a fantasticare su imprecisati o esagerati pericoli. Perché quell’abitudine? Timore dei ladri? Se fossero entrati in casa scassinando la porta d’ingresso, ci si sarebbe sentiti per quella serratura più al sicuro? Li si sarebbe lasciati a rubare nel resto dell’appartamento senza intervenire, senza chiedere aiuto?
Doveva fare molto freddo d’inverno. La loro casa era riscaldata solo da un braciere d’ottone poggiato su un piedistallo circolare di legno grezzo. A vrasera. Era Nannìne che in cucina lo preparava – mo appicciamm’a vrasera – e poi lo collocava in sala da pranzo. Sopra vi metteva una cupoletta fatta di liste di compensato intrecciate per asciugare più in fretta le loro maglie di lana o i calzini e altri vestiti.
In soffitta avevano un cassonetto di legno per la carbonella. Veniva consegnata periodicamente in una sacchetta a casa. Sempre Nannìne, però, in certi giorni ne andava a comprare una piccola quantità. E la trasportava a piedi con fatica in una vecchia borsa fatta da triangolini di pelle di diverso colore cuciti assieme.
Doveva fare molto freddo d’inverno. Mìneche, sotto i pantaloni portava pesanti mutandoni di lana che arrivavano alle caviglie. Faticava a piegarsi per togliersi gli stivaloni – che gli erano rimasti dal periodo militare assieme al pastrano, a una baionetta, a una borraccia, a un frustino di cuoio. Si faceva aiutare dai figli a toglierseli. O ad allacciarseli. Loro si accoccolavano a terra e incrociavano i lunghissimi lacci attraverso le borchiette d’acciaio. Alla fine lui li tirava e stringeva il nodo.
Doveva fare molto freddo d’inverno. A Nunuccio e a Eggidie venivano i geloni sulla piega alta delle orecchie. Portavano maglie di lana grezza che pungevano sulla pelle e dopo qualche lavaggio si restringevano. I ragazzi erano spesso accanto al braciere per scaldarsi le mani. Nannìne la sera, prima che s’infilassero fra le lenzuola fredde, per un bel po’ metteva sul fuoco acceso in cucina uno o due mattoni di terracotta – pieni e pesanti -, li avvolgeva in panni di lana già bruciacchiati per l’uso e li collocava sotto le lenzuola in modo che si scaldassero i piedi. Non si vendevano le borse d’acqua calda? O costavano troppo per loro? Troppo care per loro forse no. Semplicemente non rientravano nelle abitudini rimaste contadine della famiglia.
Nota
[1] Nunuccio, Chiero, Vulisse, Samizdat, il Narratore: sono i nomi che assume il personaggio principale della Vocazzione nelle varie fasi di questa vicenda.
Che tristezza, Ennio. Io ricordo momenti di infanzia e adolescenza ma mi guardo da sostare in quei paraggi, terribili, impotenti, quasi disperati. Verso i miei, che erano davvero giovani quando nacqui, ho un affettuoso distacco: volevano divertirsi, e ci riuscivano, fin che è stato possibile. Dopo, invece… Ma io ero in una prigione d’aria, fatta di un nulla spesso e vuoto che colmavo in direzioni impazzite senza senso. Fin che ho potuto prendermi in mano e volere cose concrete, quelle che ho intravvisto in compagne benestanti e colte, ebree, di Trieste. Avevo già 14 anni, e da allora nessuno mai più mi ricacciò nel terribile vuoto in cui ero cresciuta.
Quello che non riesco a decrittare è il vissuto attuale, il senso, con cui esplori quel tuo passato. C’è un intento storico ammirabile, sì, quella doveva essere l’Italia vera che allora la gente viveva, da cui usciva “quella” politica che sappiamo. Peraltro, lassù al nord dov’ero io, era piuttosto diverso, meno chiesa, ero in un paesino turistico che si riempiva di tedeschi da giugno a settembre, e per me la spiaggia e il mare era tutto, estate e inverno. Certo, anche una analisi precisa della vita nel veneto anni 50, rapporti tra le generazioni, la rete dei parenti, una scuola approssimativa, aggiungerebbe un altro pezzo alla storia del nostro paese. Ma non mi importa.
Chiero? Quella che sono adesso, e stop. Comprendo che in realtà io guardo sempre avanti.
SEGNALAZIONE DALLA PAGINA FB DI ANNAMARIA PAGLIUSANO
IL FUTURO E L’ IMPREVEDIBILITÀ DELL’ INTELLIGENZA …
P. VALÉRY
” Anziché giocare con il destino, come per il passato, un’ onesta partita a carte,
della quale conosciamo le regole del gioco, il numero delle carte e le figure, ci troviamo ormai nella situazione di un giocatore che si accorga, sbalordito, che la mano del suo partner gli passa figure mai viste, e che le regole del gioco si modificano a ogni giro.
Nessun calcolo di probabilità è più possibile, e non può neppure gettare le carte innfaccia all’ avversario. Perché? E che, più lo scruta, più su riconosce in lui….!
Il mondo moderno si plasma a immagine dell’ intelligenza umana.
L’ uomo ha cercato nella natura tutto quanto poteva servire come strumento e come potere per rendere le cose che lo circondavano scattanti, instabili e mobili come lui, e mirabili, assurde , sconcertanti e prodigiose come la sua intelligenza.
Ora, l’intelligenza non può prevedersi, non può prevedere se stessa.
Noi non prevediamo né i nostri sogni, né i nostri progetti; raramente prevediamo le nostre reazioni.
Se dunque imprimiamo al mondo umano le caratteristiche della nostra INTELLIGENZA, esso diventa altrettanto imprevedibile, ne fa il suo DISORDINE”
P. V.
” Sguardi sul mondo attuale”