di Donato Salzarulo
Amo le letture casuali, selvatiche. Amo i libri che mi ammiccano su una bancarella o addirittura per terra, su un tappeto. Impensati e imprevisti. Come questo Geno Pampaloni, apparso sotto i miei occhi sul lungomare di Pietra Ligure, mentre vado a comprare i giornali in quest’ultimo sabato di febbraio. Sta lì per terra, in compagnia di Luciana Littizzetto. Ma cosa ci fa uno dei più autorevoli critici letterari del Novecento con la simpaticissima Lucianina? Cosa ci fa un morto con una viva?
Due passi avanti, cammina una signora col marito. Vede il libro della Littizzetto e per un euro lo tira su e lo porta via. A mia volta estraggo dalla tasca il borsellino, cerco un euro e porto con me «I giorni in fuga», un Coriandolo Garzanti del 1994, quando c’erano ancora le lire.
Acquisto solo libri che mi risuonano dentro per una qualche ragione. Questo ha un’eco nella mia mente perché so chi è Geno Pampaloni, poi perché i nostri sono tempi in cui la critica letteraria se la passa malissimo e, infine, perché non ho letto il libro.
Ora che ce l’ho tra le mani, comincio subito a sfogliarlo.
Esergo:
«I giorni in fuga sono i giorni che nella vecchiaia corrono rapinosi verso la morte.
Gli amori impossibili sono gli amori di cui la memoria, alta e perenne, non riesce mai a liberarsi.
Dopo il primo bacio, le dissi: “Questo è il più bel giorno della mia vita”. Lei mi corresse: “Della nostra vita.»
Potevo rinunciare a un libro con un simile esergo? Un libro sui giorni in fuga della vecchiaia, sugli amori impossibili – chi non ne ha avuto uno o più di uno? – e sulla vita amorosa in due, vissuta come “nostra” e non dei singoli amanti. No, non potevo.
2.- Ho letto per la prima volta recensioni o saggi critici di Geno Pampaloni intorno alla fine degli anni Sessanta. Inizialmente sul «Corriere della Sera», poi sulle pagine della prima edizione della «Storia della letteratura italiana» diretta da Emilio Cecchi e Natalino Sapegno. È stata la prima grande opera arrivata in casa grazie a rate mensili generosamente pagate dai miei genitori. Tremila lire al mese erano soldi all’epoca; i miei fecero uno sforzo oggi forse impensabile.
Rammento benissimo il periodo di pubblicazione del primo volume: fine 1965. Stavo al paese e frequentavo il terzo anno dell’Istituto magistrale. Il nono volume, dedicato al Novecento, invece, arrivò nell’estate del 1969, quando tutta la mia famiglia poté riunirsi a Cologno. Era per me il volume più atteso, quello che mi avrebbe fornito una mappa letteraria di poeti e scrittori appartenenti per lo più alla generazione dei miei genitori o, al massimo, dei nonni.
Geno Pampaloni è l’autore di tre capitoli di questo volume: il primo intitolato «Italo Svevo», scrittore nato nel 1861, ma diventato noto nel 1923 con «La coscienza di Zeno» (del triestino fino a quel momento non avevo letto niente), il secondo «Emilio Cecchi» (morto proprio in quegli anni, nel 1966), il terzo, «La nuova letteratura». Quest’ultimo è un lungo saggio di quasi centotrenta pagine sugli scrittori più importanti ed affermati: Moravia, Vittorini, Bilenchi, Pratolini; Landolfi; Soldati, Cassola, Tomasi di Lampedusa, Calvino, Fenoglio, Parise, Volponi…Sono i primi nomi che mi vengono in mente. Ma ricordo che gli autori presentati erano più di una trentina. Un saggio ben fatto e ben scritto che per un po’ di anni diventò la mia fonte d’immediata consultazione per confrontare pareri o esprimere giudizi sull’uno o l’altro scrittore. Operazione che, sia detto con sincerità, facevo sporadicamente perché in quel periodo divento prevalentemente lettore di saggi politici, filosofici, storici. Il romanzo non mi attirava granché.
Pampaloni in questo primo incontro mi apparve innanzitutto un lettore fortissimo, eccezionale, quasi inesauribile. Non solo. Mi sembrò anche un grande interprete, un creativo inventore di formule critiche. Allora, ero un lettore di Moravia e ricordo che lo definì un “narratore deduttivo”, caratterizzato da un doppio “moralismo”. Per non dire di Vittorini, la cui prosa era scandita, a suo parere, da due tempi fondamentali: l’adagio e l’allegro. Questa analogia prosa-musica continua ad avere un suo fascino ancora oggi.
«La musica della prosa di Vittorini è ancora tutta tonale, ma agitata da insofferenze espressionistiche. Sembra utilizzare una sostanza melodica da melodramma riprodotta con frenesia da strumenti a percussione (con un gusto quasi picassiano del ritorno ai primitivi), alternata a improvvise cadenze insinuate a frammenti dalla voce in falsetto dei legni. I due momenti della sua liricità, quello intimo e trepido e quello raziocinante e estremista trovano bene espressione in una simile fuga di dissonanze.» (pag. 775)
Alle orecchie di un Sessantottino e a pochi mesi della strage di Piazza Fontana un periodare così incuriosiva molto, ma non aiutava a scrivere volantini e relazioni. In quei giorni il sottoscritto faceva prevalentemente questo.
3. – Nato nel 1918 a Roma, nel 1969 Pampaloni ha 51 anni. Nel 1974 inizia la sua collaborazione con «Il Giornale» di Montanelli e, da quel momento, lo perdo di vista.
La collaborazione al quotidiano dura fino all’esordio politico del proprietario Silvio Berlusconi. Quando ciò accade, il famoso giornalista, rifiutandosi di trasformare «Il Giornale» in cassa di risonanza delle posizioni politiche berlusconiane, rompe e se ne va. Il critico lo segue.
«I giorni in fuga» è il titolo originario di una rubrica curata tra il 1991 e il 1993 su «Il Giornale». Quando raccoglie le pagine di questa sorta di taccuino e le pubblica in volume (aprile 1994), Pampaloni, in alcuni punti, indica esplicitamente le date di scrittura: «scrivo ai primi di gennaio del 1991» si legge tra parentesi tonde nel «Breve intermezzo politico» di pag. 25; oppure «10 agosto 1992» si legge a pag. 128, al termine di «Riconsegnato alla patria del cuore».
La patria del cuore è Grosseto dove vive dal 1924 (fine della prima elementare) al ’39, data della sua partenza per il servizio militare e la guerra: in pratica trascorre in questa città la fanciullezza, l’adolescenza e la prima giovinezza.
«Una piccola città malinconica; di una malinconia che mi ha accompagnato per tutta la vita; ma rinnegarla mi sembrerebbe un peccato contro lo spirito.» (pag. 120).
Queste parole le pronuncia, appunto, il 10 agosto 1992, nel momento in cui la città di Grosseto gli conferisce il “Grifone d’oro”. È l’occasione per parlare del suo rapporto con questa “patria del cuore”, di ricordare le molte case in cui ha abitato, gli amici, i compagni di scuola, i maestri di scuola elementare, i professori, la vista del primo nudo femminile e Liliana, il primo amore.
«Liliana era una ragazzina bionda e gentile: le calzine bianche, le scarpette, nere, di coppale, abbottonate con un cinghiolino, sono rimaste tra i miti intramontabili della mia vita. Abitava in via Oberdan, e io passavo e ripassavo sotto quelle finestre, in bicicletta o a piedi. Confesso che anche stamani sono ripassato di lì, come sessanta e più anni fa. Era molto brava a scuola, ma io le prestavo lo stesso traduzioni, problemi risolti, appunti delle lezioni. Niente da fare: qualche blando sorriso, e un educato silenzio.» (pag. 128).
Ma che bravo questo Pampaloni che ricorda le scarpette di vernice del suo primo amore.
Quanto al passare e ripassare sotto le finestre, mi fa venire in mente il mio andare e riandare in piazza Convento, per ammirare il volto della ragazza, che mi rendeva il cuore palpitante.
4. – Nel periodo in cui scrive i suoi “giorni in fuga”, il «principe della critica letteraria» (definizione di Carlo Laurenzi su «Il Giornale») ha i miei stessi anni (vado per i 74).
Il caso, quindi, mi ha fatto incontrare questo libro per poter confrontare il mio modo di vivere la vecchiaia con quello suo? Può darsi. Ma io mi definirei un vecchio? Mi è capitato di farlo, ma sempre con un certo scetticismo. Invece, la prima cosa che noto è che l’illustre critico non sembra avere nessun problema a definirsi “vecchio”. In questo suo libretto è sicuramente la parola più usata. Molte annotazioni e considerazioni della prima parte (pag. 9-108), infatti, si intitolano «Il vecchio e […]». Mentre il primo rimane fisso, il secondo termine della coppia muta: i diosperi, il cane, le donne, il medico, il tempo, la solitudine, il vino, la guerra, la mula, la neve, il nostro tempo, in ospedale, i figli, la vecchiaia, la mediocrità, in camerata, la morte, in viaggio, la psichiatria, la maga, il suo meglio, il fumo.
Nell’annotazione intitolata «Il vecchio e la mula» scrive:
«Non sono d’accordo con chi […] preferisce “anziano” a “vecchio”. Infatti,” vecchio” è parola dai molti usi (vecchio proverbio, vecchio Testamento, la luna vecchia), mentre “anziano”, spiega spietatamente il Devoto-Oli, derivando da àntea, significa “appartenente a un’età anteriore”; e indica una esclusione dal presente, che in “vecchio” si sente meno forte. Comunque, la cosa essenziale è prendere coscienza della propria vecchiezza; se no, ci ricorda Montaigne, è come ripetere la follia di Ctesifonte, che pretendeva di lottare a calci con la sua mula.» (pag. 31)
Davvero interessante. Occorrerebbe dirlo ai tanti che ci chiamano “anziani”, pensando di farci un piacere, mentre ci escludono completamente dal presente.
Trovo originale ed acuta la definizione di solitudine proposta recentemente da De Rita: in un’intervista al «Corriere della Sera» del 22 febbraio 2023: «Definirei la solitudine come assenza di tempo. Sembra paradossale, perché dovresti averne di più a disposizione, la verità è che sei assente dal tempo in cui vivi.». Proprio così.
È anche necessario, come sottolinea Pampaloni, prendere coscienza della propria vecchiezza, una coscienza che non arriva in un giorno, un mese o un anno preciso.
Recentemente mi ha fatto sorridere la proposta della Società italiana di gerontologia e geriatria di alzare la soglia ufficiale della vecchiaia a 75 anni.
«Ah, quindi non sono ancora vecchio!» Mi son detto, compiaciuto, tra me e me. Invece, ha ragione Giuseppe De Rita (90 anni): «Si diventa vecchi quando si chiudono i rapporti, quando si resta soli, quando si perde il proprio mondo di contatti» (Corriere della Sera del 22 / 2 /2023, pag. 23).
Io non tendo a chiudere rapporti, ma occorre vedere come si comporta l’altro/a. Soprattutto se può avere l’età di un tuo figlio o un tuo nipote. Soprattutto poi se i rapporti vengono vissuti in certi ambienti. Tra “rottamazione”, “vaffa” e “nuovismo”, oggi i vecchi si tengono ben lontani, ad esempio, dagli ambienti politici. Ai nostri tempi chiamavamo i nostri padri o i nostri nonni “matusa”. Forse l’avvicendamento delle generazioni ha qualcosa di inevitabilmente tragico.
Ritengo, invece, assai condivisibile la prima annotazione di Pampaloni sul rapporto tra «Vecchi e giovani»:
«i vecchi, per non arrendersi irrimediabilmente alla vecchiaia, andrebbero provocati, stimolati, o come oggi si dice, stanati; coinvolti cioè nei problemi della vita in generale, sottratti alle nostalgie, fatti scendere dalla piramide degli anni, trattati da pari a pari.» (pag. 9).
Forse, quando il critico scriveva questa annotazione, succedeva di più. Forse oggi di meno. Per fortuna, io ho chi mi provoca e mi stimola: fino a qualche giorno prima della chiusura delle scuole per l’epidemia, andavo in giro per classi (una ventina quasi) a leggere poesie non mie; poi ho tre nipoti (due femmine e un maschietto) che aiuto nei loro studi e, infine, ho rapporti, un po’ più sporadici, con redazioni giovanili.
«La vecchiaia non mi impedisce di essere consapevole di avere ancora molto più da imparare che da insegnare» (pag. 9). Perfettamente d’accordo.
5. – Le 108 pagine della prima parte sono una miniera di temi. Quasi impossibile provare ad elencarli o a riassumerli. Mi soffermo soltanto su alcune annotazioni per aiutare chi non ha letto il libro a comprenderne il tenore. Spesso si limitano ad essere delle citazioni. Come nel caso di «Mio» a pag. 32, che trascrivo:
«Certi scrittori, parlando delle loro opere, dicono: il mio libro, il mio commento, la mia storia, ecc…Farebbero meglio a dire: il nostro libro, il nostro commento, la nostra storia, ecc., visto che di solito c’è più roba (“du bien”) altrui che loro.» (Blaise Pascal, Pensées).
Qualche volta le annotazioni sono aneddoti, quasi racconti brevi, come quello di «Vittorina e la letteratura». (pag. 44-46). In estrema sintesi: Vittorina è una ragazzina di tredici anni, «elegante, ricca, milanese, ambiziosa e prepotente, convinta di possedere una bellezza irresistibile e indifferente a tutto il resto». Un giorno capita al Campo alla Fiera ad Anghiari, paese della madre di Pampaloni, dove lui di solito trascorre le vacanze estive.
«Subito i ragazzi le si fecero intorno per invitarla a giuocare, ammirati e complimentosi. Ma Vittorina, lo si seppe ben presto, aveva un’unica passione: farsi fare per iscritto la “dichiarazione”; dopo averla ottenuta, si lasciava dare un bacio sulla guancia, e abbandonava il malcapitato al suo destino, passando rapidamente ad un altro, casta e crudele mantide religiosa.» (pag. 45). Dopo aver sistemato tutti gli altri, una mattina va all’attacco del nostro autore, che si lascia andare a varie lusinghe. «La scena si ripeté per tre o quattro giorni; ma a poco a poco mi accorsi che in quelle lusinghe alla sua bellezza c’era più retorica che amore. Così non scrissi la “dichiarazione”. E fu, quella decisione, un momento importante nella mia vita; forse addirittura la prima iniziazione alla letteratura. Mi resi conto, in modo oscuro ma certo, della responsabilità dello scrivere. Non so se sono riuscito, nelle troppe e vane cose che ho scritto, a conservare sempre quella prima radice di serietà. Ma intanto un seme era nato. In quella remotissima estate, la verità dei sentimenti, la lealtà verso ciò che si scrive, era valsa di più del promesso bacio di Vittorina» (pag. 46)
Altre volte le annotazioni del taccuino sono riflessioni. Come, ad esempio, «La storia à rebours» (pag. 52-54). Pampaloni prende spunto dal titolo eloquente, «I nipoti del latino, i figli dell’Africa», di un articolo dello scienziato Giuliano Toraldo di Francia che si domanda quale sarà il ruolo e l’utilità della cultura umanistica nel mondo di domani, dominato verosimilmente dal progresso tecnologico e dalla prevalenza demografica di popoli estranei ad essa (l’Africa, appunto). Il critico fa notare che non si comprende la realtà proiettando il momento essenziale del presente verso il futuro; in certi casi, è essenziale anche un movimento à rebours della storia.
«Non parlo qui come un tradizionalista o un conservatore; mi rifaccio all’esperienza. Gli esempi che si potrebbero elencare sono molti. Mi limito al più chiaro. Nei secoli remoti del Medio Evo, si registrò, in modo non troppo dissimile dall’oggi, l’irruzione, entro le frontiere dei paesi di più antica cultura, dei così detti “barbari”: popoli esigenti, sanguigni, prolifici, ricchi di energie non consunte dal benessere e dallo scetticismo. Ma i monaci, nel silenzio delle biblioteche e delle celle di monasteri e abbazie, misero indietro le lancette della storia, e si diedero a copiare i più grandi testi tramandati dall’antichità. Fu così salvaguardata la continuità dell’Europa. Senza di loro non sarebbe nata neppure la Divina Commedia» (pag. 53).
Ho letto alla mia prima nipote, laureanda in Lettere, questa riflessione e mi ha detto senza scomporsi che lei vuol fare la prof. esattamente come Pampaloni voleva fare il prof. Più che dai “barbari” immigrati, la cultura umanistica rischia di essere travolta dallo scientismo, dalla religione della tecnica, dal nichilismo, dalla legge del profitto per il profitto, dall’industria della guerra, da quei veri barbari che mercificano tutto.
6.- Dopo averlo perso di vista, non avendo mai comprato «Il Giornale», non ho saputo più nulla di Pampaloni. Il libro, proprio per l’età dell’autore, è naturale che sia anche una miniera di ricordi familiari, amicali, delle persone incontrate, dell’esperienze vissute, dei pensieri pensati, delle proprie credenze, concezioni del mondo, ideali…Così, fin dalle prime pagine, ad esempio, apprendo che l’illustre critico ha lavorato con Adriano Olivetti e scritto per la rivista «Comunità» (1948-1958), che è un manzoniano e che come sapeva il Manzoni, «La religione insegna a sprezzare quelle cose di cui gli uomini si valgono per farsi servi gli altri» (pag. 10). Ottimo. Ho sempre pensato che la religione dovrebbe fare questo e non essere instrumentum regni o mezzo di controllo dei popoli. Chi cerca Dio fa bene a rivolgersi alla religione, ai “sacri testi” o a lui direttamente (Dio è «colui che ode anche se non risponde»: Manzoni, Fermo e Lucia, tomo II, cap. 10 citato da Pampaloni, pag. 63).
Proprio in questo periodo sto rileggendo «I Promessi Sposi» col nipote e mi piacerebbe che la sua prof. di liceo lo facesse come Giuseppe Isnardi, il prof. che introdusse Pampaloni e i suoi compagni di classe nell’universo del grande scrittore. «Ci lesse riga per riga I promessi sposi, ridendo, piangendo, accalorandosi come un bambino.» (pag. 126).
Altri tempi, si dirà, con maggiore o minore nostalgia. No. Semplicemente incontri e altri contesti storici. Il nostro presente e le nostre scuole non favoriscono più una lettura riga per riga del romanzo manzoniano. Nel bene e nel male.
Andando avanti, apprendo che nell’autunno del 1937, quasi a diciannove anni approda a Firenze per frequentare l’Università; entra in contatto con Giacomo Noventa che, in quel periodo, raccoglie intorno a sé e fa collaborare alla rivista «La Riforma Letteraria» alcuni giovani fra cui il nostro autore, Giampiero Carocci, Franco Fortini, Alceste Nomellini, Giorgio Spini e Valentino Bucci…
Guarda, un po’! esclamo tra me e me. Pampaloni e Fortini hanno in comune l’esperienza dell’Olivetti e quella della collaborazione con Noventa. Che diversità, però, tra di loro! Che esiti opposti! Fortini sicuramente non avrebbe mai collaborato con Montanelli. Era un comunista, mentre Pampaloni un liberaldemocratico, un cattolico che, in polemica spesso con gli amici di Comunione e Liberazione (cfr. annotazioni a pag. 11, 49, 84), non teme il paradosso autenticamente cristiano di «considerare più vicini i lontani, atei compresi, che non i vicini» (pag. 11-12) Un liberale e cattolico sui generis così come Fortini era un comunista e cristiano sui generis.
7.- «Che posto ha avuto nella mia vita la poesia?» si domanda Pampaloni a pag. 26 e la risposta è affidata ad un aneddoto. In un ristorante fiorentino, una sua ex allieva, ora gentilissima signora, lo avvicina e gli dice che le «ha insegnato a capire e amare la poesia.» Il prof. le è grato e pensa: «qualcosa di me non è andato del tutto perduto. La poesia, per tornare al tema, è un riverbero della realtà e della vita; ma la realtà e la vita si illuminano talvolta del riverbero della poesia» (pag. 27).
Due pagine più avanti, Pampaloni dà ragione a Raffaele Nigro che, in un Sabato letterario, ha parlato molto bene del racconto orale e «ha insistito sul carattere di sacralità che assumono le storie tramandate di padre in figlio per molte generazioni». Ma non si può dimenticare, aggiunge l’illustre critico, che «anche la poesia scritta configura oramai nella nostra coscienza una diversa sacralità: non più corale ma solitaria, e tuttavia capace di dare vita a una profonda comunione spirituale. Da “Vedi là Farinata che s’è dritto” a “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci”, sino a “Non recidere, forbice, quel volto”, la poesia accompagna la nostra memoria con una voce incisa per sempre, toccando il nostro pur confuso sentimento dell’eternità; parabola e metafora del sacro.» (pag. 29).
Gli esempi che Pampaloni adduce e che sicuramente riguardavano la sua memoria individuale sono tratti dal canto X dell’Inferno, dal XXXIV capitolo dei Promessi Sposi, e da Le occasioni di Montale (sezione Mottetti).
La prima annotazione da fare è questa: per Pampaloni la “poesia” non si trova soltanto in un componimento in versi, ma anche in un testo in prosa. È un riverbero, sostiene, della realtà e della vita. Ossia, un riflesso luminoso, abbagliante. Un riflesso che, a sua volta, può illuminare la realtà e la vita.
È strano che un manzoniano come Pampaloni accetti la teoria della poesia (e dell’arte, in generale) come riflesso più o meno abbagliante.
Fortini che si confronta quasi continuamente con Manzoni nella raccolta del 1978, «Una volta per sempre», trascrive in quarta di copertina una citazione da «Del romanzo storico»: «Un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlare con più precisione, irrevocabilmente», un’affermazione che vale per Fortini come definizione della sua arte.
Anche sulla “sacralità” della poesia, occorre intendersi. Memorizzata è come se diventasse “una voce incisa per sempre” che dona una “profonda comunione spirituale” e un sia “pur confuso sentimento dell’eternità”. È questa comunione e questo sentimento che ci avvicinano quindi, al sacro? Conclusione perentoria: la poesia è o può diventare “parabola e metafora del sacro”. Che vuol dire? Che la poesia non è sacra in sé stessa. La “parabola” è un paragone, una similitudine che può raggiungere la lunghezza di un racconto con l’intento di illustrare una verità religiosa o morale. Anche la metafora è una similitudine contratta. La poesia avrebbe allora l’intento di mostrare il sacro?…
Queste affermazioni mi fanno venire in mente il disprezzo che Fortini mostrava contro la “sporca religione dei poeti” e mi domando se Pampaloni che, alla fine del 1937 passeggiava con Noventa insieme a Spini, Fortini, Nomellini, possa condividere questa religione dei poeti.
Ad ogni buon conto, cerco il luogo di Fortini in cui questa formula viene usata. Si trova in un libro scritto a quattro mani con Paolo Jachia. La rileggo:
«Mi fa ripugnanza, sessant’anni fa come oggi, la sporca religione dei poeti, dei quali sono uno, l’ascesi che consola delle sconfitte. Vorrei invece sapere protetto quel che ho avuto caro e venerato: non libri, altrui o miei, ma un modo fondamentale di attenzione, di volontà buona, amore di amore. E mi faccio ogni giorno più persuaso che quella protezione non c’è o è praticata da pochissimi, quasi clandestini. Da quella persuasione neanche il ricorso alla ironia o al sentimentalismo sa difendermi…» («Fortini. Leggere e scrivere», Marco Nardi Editore, 1993, pag. 96)
Fortini, se interpreto bene le sue parole, preferisce un credente autentico, una persona che pratica onestamente e sinceramente la sua religione o il suo incontro con Dio e considera indegno della propria attenzione e stima i poeti che praticano una forma di religione sporca, degradata; una religione che fa tutt’uno con “l’ascesi”, cioè, con una forma di azione interiore e meditazione rivolta alla conquista della perfezione o all’ascensione verso l’assoluto. Insomma, o sei un credente o non lo sei. La religione della parola poetica è un surrogato. Immagino che Fortini, sessant’anni fa come oggi, ce l’avesse contro i poeti ermetici e i vociani, contro chi propugnava una visione mistica della parola poetica.
Invece, ciò che Fortini ha avuto caro e venerato non sono i libri (suoi o di altri), ma “un modo fondamentale di attenzione, di volontà buona, amore di amore”. È questo complesso virtuoso di comportamenti-azioni e facoltà che non vede tutelato e diffuso, che gli sembra praticato da pochissimi, quasi come se fossero clandestini. Da questa persuasione non riesce a difendersi né usando l’ironia né ricorrendo al “sentimentalismo”.
8.- Fortini scrive queste parole tra il gennaio 1992 e il gennaio 1993. Quasi nello stesso periodo in cui Pampaloni compila il suo taccuino.
Quell’ultima pagina, prima citata, termina con queste parole:
«Fra non molto, i libri che vedo mentre scrivo saranno diversi o spariti. Tanto meglio. Gli uffici delle case editrici toglieranno la mia scheda dagli elenchi dei ‘servizi stampa’, gli infelici nuovi autori di volumetti di versi cesseranno, a poco a poco, di ingombrare la portineria dei loro involucri. Eppure un’illusione permane, come di chi debba decifrare parole straniere e creda di potervi pervenire. È vero che la lingua mi si dissecca e disgrega. Però non ne ho altra, né ho altro. L’antica cantilena infantile – ‘Prendi, leggi!’ – tanti secoli fa fu udita dall’al di là del muro di un giardino di Milano e qualche volta a me pare intenderla su dal mio cortile di mezzo marzo.»
“Prendi, leggi!”… Fortini sta citando «Le Confessioni» di Sant’Agostino, sta citando dal capitolo ottavo, nelle pagine in cui il padre della Chiesa racconta la sua conversione. Agostino ha una tempesta ingente nel cuore e piange abbondantemente. Si allontana da Alipio per restare solo. Si getta disteso sotto una pianta di fico per piangere liberamente. A un tratto dalla casa vicina gli giunge una voce di fanciullo o di fanciulla che ripete come una cantilena: “Prendi e leggi, prendi e leggi”. Agostino interpreta la voce come un comando divino ad aprire il libro dell’Apostolo Paolo e a leggere il primo verso. Lo afferra, lo apre e legge: «Non nelle crapule e nelle ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze.» La citazione è tratta dalla «Lettera ai Romani». Appena terminata la lettura di questa frase, una luce, quasi, di certezza penetrò nel cuore di Agostino e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.
A Fortini, quindi, rimane questa illusione: di sentire come Agostino questa voce di fanciullo o fanciulla e qualche volta gli sembra di intenderla.
Anche Pampaloni nel suo taccuino dedica una nota a «Le Confessioni» di sant’Agostino, (pag. 42-44). Lo fa non alludendo come Fortini, ma riportando una lunga citazione in cui viene spiegato il noto “crescete e moltiplicatevi” in senso letterale e figurato. Le parole si addicono a tutto quello che nasce da un seme; ma un seme è un “segno” materiale (embrioni) o spirituale (pensieri):
«Segni emessi materialmente sono gli embrioni generati nelle acque, cioè quelli che hanno la loro necessaria origine nella profondità della carne; invece i pensieri elaborati mentalmente sono gli embrioni generati dagli uomini per la facoltà di concepire proprio della ragione.» (pag. 43).
Agostino vede in questa benedizione del Signore «la capacità e il potere sia di esprimere in molti modi un solo pensiero, una volta compreso e acquisito, sia di intendere in molti modi un’unica frase che leggendo ci sia sembrata oscura.» (pag. 43).
Non sono un credente, ma se lo fossi spiegherei così gli itinerari esistenziali diversi e opposti di Fortini e Pampaloni. Si possono fare più o meno le stesse esperienze, si possono avere gli stessi maestri, si possono leggere gli stessi libri, ma come si può esprimere in molti modi uno stesso pensiero e si può intendere in molti modi un’unica frase così la vita può avere una moltitudine di creature spirituali e materiali.
Sono molto diverso da Pampaloni e da Fortini, ma qualcosa mi accomuna. Forse la voglia di prendere un libro e leggerlo. Non vedo dietro l’angolo nessuna mia conversione, ma credo che un libro ti doni sempre qualcosa: un nuovo incontro, un confronto, una ricognizione di temi, delle note di riflessioni.
Anch’io, come conclude Pampaloni «sono un solitario affollato di compagnia.»
17 marzo 2023
Ricopio da POLISCRIURE SU FB
Lorenzo Galbiati
Molto bello. Pampaloni l’ho incrociato più volte, e avevo capito che era un moderato (i ciellini non lo sono). In particolare, Pampaloni ha curato le opere di Corrado Alvaro, in due volumi, e mi è piaciuto molto la sua introduzione e i commenti. Così mi ha fatto venire voglia di leggere Alvaro e mi son gustato L’uomo nel labirinto, L’uomo è forte, Il mare (Alvaro ha dei lampi di genio, delle idee notevoli ma manca sempre qualcosa, a mio parere, a livello di composizione, per arrivare al capolavoro. Mi attira, lo seguo con avidità ma resto poi con l’amaro in bocca). Pampaloni parlava dell’Alvaro provinciale di Gente in Aspromonte e dell’Alvaro intellettuale e europeo delle tre opere che ho citato, in particolareggiato de Il Mare, che lui esaltava. Poi ho letto giudizi di Pampaloni su Berto, Borgese e su altri che ora mi sfuggono. Trovo interessante quello su Vittorini qui riportato. Complimenti all’autore.
Lorenzo Galbiati
A proposito delle metafore musicali di Pampaloni, per la Cosa buffa di Berto parlò di delizioso minuetto. Se ricordo bene.
Ricopio da POLISCRITTURE SU FB
Maurizio Gusso
Due cose al volo su Geno Pampaloni, Franco Fortini e sul loro comune maestro Giacomo Noventa.
Un epigramma del 1955 di Fortini su Pampaloni: “La buona stampa/ consiglia ai buoni // anima e zampa / liscia ai padroni // il geno Pampa/ loni. E ne campa” (riportato come 10., a p. 23, di F. Fortini, “L’ospite ingrato. Testi e note per versi ironici”, De Donato – “Leonardo da Vinci”, Bari, 1966).
La dedica a Fortini e Pampaloni, da parte di Giacomo Noventa, de “Il grande amore in ‘Uomini e no’ di Elio Vittorini e in altri uomini e libri”, in G. Noventa, “Tre parole sulla Resistenza e altri scritti”, Vallecchi, Firenze, 1973, p. 3): “a Franco Fortini e a Geno Pampaloni, / perché ognuno accetti / di questo piccolissimo libro / la metà che l’altro rifiuta, / e mi permettano entrambi di pensare / alla loro antica ed attuale discordia / come a ciò che più / li unisce a me, / e forse / – un giorno – tra loro. // g.n.”. Noventa aveva pubblicato “Il
grande amore…” in tre puntate nei nn. 11, 12 e 14 (29 luglio, 5 agosto e 31 agosto 1946) del suo foglio settimanale veneziano “La Gazzetta del Nord”, per ripubblicarlo poi il 31 marzo 1960 in un volumetto di Scheiwiller.
Grazie Donato Salzarulo. Queste tue riflessioni mi hanno fatto ricordare un paio di cose legate a Pampaloni.
(I) La storia della letteratura italiana di Cecchi/Sapegno è stata anche una mia continua frequentazione, la comprai nel 1985 su consiglio di Romano Bilenchi, per allargare un po’ le mie letture, e di Geno Pampaloni mi colpì in modo particolare il saggio su Italo Svevo.
(II)L’altro è legato alla prefazione a “Il gelo” di Rimano Bilenchi, pubblicato da Rizzoli nel 1982. Qui a un certo punto Panpaloni scrive (l’ho sottolineato allora): … “per Bilenchi il romanzo, e noi diciamo il narrare, prima e più che un genere letterario, è un modo di esprimere e organizzare poeticamente le emozioni della realtà; elemento decisivo per la riuscita di tale espressione e organizzazione poetica è il ritmo della prosa, il passo con cui la fantasia del poeta accompagna il suo itinerario di memoria e di vita”. Grazie a questo libro sono entrato in contatto con Bilenchi, pensavo addirittura che fosse morto perché di lui non si leggeva niente di nuovo da molti anni. In un paio di occasioni, frequentando la sua casa, ho incontrato anche Geno Pampaloni. Le loro chiacchierate sulla letteratura italiana mi aprivano un mondo. Erano grandi amici e parlavano liberamente di tutto.
@ Donato [Salzarulo]
Il confronto Fortini/Pampaloni a proposito di poesia e di sacro, così come l’hai esposto (pur con molte domande lasciate in sospeso), mi lascia perplesso. Sospetto che la sua visione della poesia rientri proprio nella categoria della “sporca religione dei poeti” respinta da Fortini. E che il contrasto tra i due sia ben più frontale. Pare confermarlo il breve ma puntuale commento di Maurizio Gusso. (Non avendo letto però quasi nulla di Pampaloni, rimando per un vero giudizio a ulteriori e indispensabili approfondimenti della sua figura e almeno ALLA LETURA di qualche suo libro).
Bisognerebbe spiegare bene poi perché per Fortini «la religione della parola poetica è un surrogato.», non limitandosi a dire che Fortini «preferisce un credente autentico, una persona che pratica onestamente e sinceramente la sua religione o il suo incontro con Dio e considera indegno della propria attenzione e stima i poeti che praticano una forma di religione sporca, degradata».
Le domande da porsi forse sarebbero: – di cosa è un surrogato? da dove viene questa sua “preferenza”? E qui, secondo me, si deve risalire per forza a Marx. Solo appellandosi a lui e alla prospettiva della lotta per il comunismo, Fortini può dire che la religione dei poeti è “sporca”, è autoconsolazione. E va contrastata (dialetticamente e non con la rozza negazione ateistica…).
Ci si allargherebbe troppo, ma si può non ripensare al tema della religione come l’aveva posto Marx, a quell’immagine dei fiori sulle catene, all’affermazione di Marx: «La religione è il gemito dell’oppresso, il sentimento di un mondo senza cuore, e insieme lo spirito di una condizione priva di spiritualità » spesso ripresa da Fortini? (Tra l’altro sull’argomento c’è sata una accanita discussione fra me, Luciano Aguzzi e Cristiana Fischer. Cfr qui: https://www.poliscritture.it/2022/02/13/due-spunti-di-riflessione/ ) .
Rivedrei anche la tua formula riassuntiva: «Insomma, o sei un credente o non lo sei». Perché mi pare sottintenda un: «O sei religioso o sei ateo o agnostico». E stop. Rimanendo, cioè, nell’ambito della problematica illuministica. A me pare, invece, che Fortini proprio per aver imparato da Hegel e Marx, abbia avuto una posizione più duttile ma anche più consapevole della complessità della religione e della religiosità. E che abbia sempre difeso anche la “credenza” nel comunismo, mai del tutto separabile dal comunismo come analisi (più o meno scienifica) della realtà sociale e storica in mutamento.
Infine, un’ultima obiezione. Mi pare che anche il «Prendi e leggi!», che Fortini cita da Sant’Agostino, ti serva a sottolineare troppo la religiosità di Fortini: «A Fortini, quindi, rimane questa illusione: di sentire come Agostino questa voce di fanciullo o fanciulla e qualche volta gli sembra di intenderla.». A scapito della sua – so che è un brutto termine – “marxisticità”. E questa tua sottolineatura rende meno forte la differenza tra Fortini e Pampaloni.
Ringrazio tutti gli intervenuti per i loro commenti. Chiariscono in vario modo aspetti del lavoro letterario, culturale e politico di Geno Pampaloni. Quanto ai problemi sollevati da Ennio, quasi certamente è come dice lui. Mi riprometto, però, di ritornare sulla questione, dopo averla studiato meglio.
Sulla rottura fra Geno Pampaloni e Franco Fortini non solo sono d’accordo con Gusso, ma aggiungerei, come segnalazione, ciò che si può leggere in «Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994» a pag. 645-647. Si tratta dell’intervista di Pierluigi Battista a Fortini, apparsa su La Stampa del 10 luglio 1992, in cui vengono ribadite le ragioni di un’antica discordia rispetto al tentativo di conciliazione promosso da Piergiorgio Bellocchio.