Il colpo di coda

Racconto sul potere. Tre atti

di Rita Simonitto

 

I° Atto

Era da tempo che si sentiva sotto osservazione. anzi, peggio: spiato!

Di solito accadeva l’inverso, era lui che teneva sott’occhio ciò che accadeva. Faceva parte della sua natura.

Come faceva parte della sua natura anche la ‘giustificazione’ nello spiare quel ‘fuori’ che però lui stesso avvolgeva e dominava e che quindi era un ‘dentro’: perché nulla doveva cambiare. Ma allora che temeva? Che pericolo c’era? Per quanto improbabili, anche se eventuali soprassalti o possibili cesure avessero tentato di minare la sua continuità, il tutto sarebbe rientrato in quell’assorbimento fisiologico particolare che lui possedeva e che annullava ogni possibilità trasformativa.

Finora poteva dirsi soddisfatto di sé, della sua natura eterna, quella perfezione immobile eppure in movimento, quell’energia che si consumava ma che nel contempo si rinnovava!

Ma adesso era ‘impensierito’: in primis perché lo stesso ‘impensierirsi’ era una espressione grossa per lui, inusuale, significava dare spazio alla riflessione causale/associativa e la sua natura di ‘eterno-immobile’ era aliena a tutto ciò: chi è eterno non ha bisogno di quella “riflessione’. Eppure confusamente percepiva che era di questo che si trattava!

In secundis, si era affacciata la domanda: lo spione a qual fine lo faceva? Era per tenere le cose sotto controllo, immobili (così come faceva lui, un alleato, dunque), oppure lo faceva per distruggere? E se fossero tutte e due le cose assieme (pure tenere sotto controllo rappresenta una forma di distruzione)? Perché se si fosse trattato solo di pura curiosità (non quella che, come ‘amor’, “muove il sol e le altre stelle’), comunque lui, con le sue spire cangianti (e fintamente cangevoli) avrebbe disperso il tutto come cenere di araba fenice – sì, certo, sarebbe risorta per poi nuovamente scomparire -. Dunque non c’era di che preoccuparsi. Si curiosasse pure!

Nel suo rotolarsi nel sempre uguale aveva però percepito dei sobbalzi che non gli erano piaciuti affatto. Ciò voleva forse dire che il suo stile di cambiare pelle, (tradotto in termini moderni ‘rovesciare la giacchetta’) ma rimanere sempre uguali, stava mostrando qualche cedimento? Ma dove? Ma perché?

Come guardarsi attorno se lui stesso era anche l’attorno?

La coda! La sua coda che non stava fuori bensì dentro di lui, nella sua bocca! Si lamentava forse di essere più piccola? Gli pareva che piano piano quella cercasse di penetrargli sempre più dentro, entrargli nelle viscere, carpire quei segreti che lo rendevano invincibile nella varietà dei suoi immobili mutamenti. Non lo soffocava, no. O, almeno, non ancora. Eppure lui incominciava a sentire un indebolimento, come se il suo raggio di espansione fosse un po’ minacciato e rischiasse di restringersi. Aveva sentito parlare dell’effetto ‘coda’ ma non ci aveva mai fatto caso perché in un eterno presente il ‘dopo’ non esiste. Però poteva essere…

Escludere allora un ‘fuori’ come fonte di minaccia? In ogni caso non era certo quello rappresentato da indovini o aruspici o idealisti della migliore acqua!

Tutt’al più, poteva temere Tiresia (*) che non era soltanto un indovino ma uno che si poneva delle domande. Tiresia condannato alla cecità (eh, sì, perché tentare di entrare in contatto con la verità va punito), ma non perché sul monte Cillene aveva visto accoppiarsi due serpenti (con quel lupanare che c’era all’Olimpo, non poteva essere quello il vero motivo!) ma perché si era reso conto (e la astuta Era, moglie di Zeus, aveva intercettato il pericolo di quella intuizione) che non è dirimente entrare dentro le cose, ‘diventare’ quelle cose o quelle persone, per capirne la natura e poterne parlare. Non era necessario esserci stati dentro. Invece era importante uno sguardo complementare, esterno. Una operazione complessa che implicava una doppia osservazione dal di dentro e dal di fuori!

Il pericolo rappresentato da Tiresia era dunque quello di osservare, porsi delle domande: e tutto questo poteva portare dei mutamenti ad un esistente dato per scontato.

E l’Uroboro (**) era questo che stava percependo; e temeva l’implodere di una situazione che lo avrebbe messo in discussione. Ma come? Eppure lui sapeva tutto ma purtroppo nella sua ripetitiva immobilità non poteva smuovere nulla.

Che strano potere, il suo! C’era anche un’altra cosa che stava percependo: il suo cerchio, per quanto cercasse di espandersi, si stava riducendo. Il mondo che lui cingeva si stava sì allargando ma lui non riusciva a tenerne il passo, anzi, aveva l’impressione di essere diventato più piccolo! Come fare a recuperare? Che strana sensazione! Sensazione? No, non era possibile provare sensazioni!  Che fosse implicato l’essersi messo a riflettere?

Erano riflessioni le quali, pur prendendolo dentro come in un vortice, nello stesso tempo non portavano a nulla. Perché così doveva essere, così era stabilito dalla sua natura di “immobile in movimento”. Infatti passato, presente e futuro, tutto era dispiegato contemporaneamente dentro di lui ma… cos’è che mancava? Un senso, forse?  Era più che certo che una ‘moltitudine’ sempre più ampia si fosse assuefatta al suo linguaggio, eppure avvertiva che questo non era sufficiente a proteggerlo.

La ‘riflessione’ e il dare un senso forse erano connessi? Ma in che pasticci si stava mettendo con queste domande! Lui conosceva un altro tipo di ‘riflessione’, quella a specchio. Come avvenne quel giorno in cui, tanto per sgranchirsi un po’ (sempre immobile, ovviamente!) era scivolato fino al ruscello. In una pozza d’acqua limpida e ferma un giovinetto bellissimo si stava specchiando. Ah, che scena conturbante, quale godimento pervadeva Narciso davanti al fascino irresistibile del suo volto che il riflesso d’acqua gli rinviava! E non adorava fors’anche quel suo ginocchio piegato che, in basso, con il suo vigore prendeva buona parte dell’attenzione in quel rispecchiamento lacustre, balzando quasi in prima evidenza a causa della luce che lo avvolgeva? Faceva pensare alla prepotenza di un feticcio fallico come adombrava il quadro del Caravaggio che aveva dipinto quella mirabile scena. Era come se in quel dipinto l’artista – mettendo assieme due fascinazioni fasulle le quali, attraverso il loro reciproco rispecchiamento, si sostenevano vicendevolmente -, avesse voluto raccontare una storia, una narrazione altra rispetto a quella accreditata. Era così forse? In che relazione stavano – se poi ci stavano – due ambizioni che aspiravano all’illimite, quella di essere bastevoli a se stessi e quella di un potere che non accettava contenimenti possibili? Due illusioni onnipotenti in un corpo solo, quello di Narciso, in una rappresentazione sola!

Ma si sa, l’arte coglie quel di più che non appare immediatamente. Per questo, al pari di Tiresia che si poneva domande, a lui l’arte, quella vera, lo infastidiva, così in contatto con aspetti potenzialmente rivoluzionari! Sinceramente era seccato e nella seccatura ebbe un brivido che smosse le acque rompendo quelle illusioni. Ma c’era ben poco da fare. Anche lui viveva dentro una illusione, poteva vedere tutto, presente, passato e futuro: era potente ma impotente nello stesso tempo perché di quella visione non poteva farci nulla!

Queste riflessioni comunque gli producevano come dei piccoli spasmi. E se si trattasse davvero della sua coda? La coda, la coda. Non poteva che trattarsi di essa! Ma se era lui che la alimentava!

Che cosa gli stava comunicando la sua coda? La minaccia del ‘barbuto’ di Treviri e cioè che sono le contraddizioni interne a produrre l’esplosione di un sistema? Vale a dire che le contraddizioni dentro di lui lo avrebbero portato alla fine? Ma che senso aveva far esplodere solo per far esplodere senza alcuna idea di alternativa credibile? No, non sarebbe mai accaduto. E poi lui, nella sua immobilità, era esente da quel rischio. Anzi, per mantenerla, tifava per l’uguaglianza: nessuna differenza fra lui e la coda! No, non per un afflato morale: voleva solo evitare i conflitti che le diversità naturalmente portano con sé e permettono le trasformazioni. Invece bisognava livellare tutto in un senza tempo storico.

Eppure continuava ad essere impensierito. Come se temesse che quella uguaglianza così necessaria per lui avesse potuto mostrare delle ‘code scorpionesche’ che lo avrebbero colpito di sorpresa! Forse perchè quel mondo globalizzato – che gli faceva percepire l’assoluta padronanza di tutto – incominciava a non rispondere ‘servilmente’ al suo dominio ma iniziava a mettere dei paletti? Niente di preoccupante in questo, aveva dei buoni ammortizzatori. Ciò che lo disturbava riguardava la presenza di persone che volevano pensare con la propria testa e che si ponevano domande. Questo non poteva tollerare e quel rifiuto si tradusse in uno spasmo che si trasmise alla coda la quale reagì con un guizzo interno che quasi lo soffocò.

Eppure, come affermava il Principe di Salina, si poteva ancora tentare di “far sì che tutto cambi e nel contempo nulla cambi”? Non era forse anche quella una illusione di eternità? Rapida e ingestibile prese luce la scena del ‘Principone’ nel suo monologo di fronte alla Morte, ed ebbe una specie di movimento inusitato, commozione, forse? Ah, Ah, Ah…. Oltre al pensiero, ci mancava anche la commozione! Via, via da quelle scellerate immagini!

Ma sotto la pelle, sentì ancora più freddo.

Erano solo spasmi brividosi come quando ci si contrae oppure era il segnale di un pericolo?

Tornò di nuovo alla sua coda. Quella coda che prima sembrava stare in armonia con la sua testa dagli occhi sempre vigili, attenti e ipnotizzanti, si stava muovendo con troppa autonomia, una autonomia che lo soffocava. Ovviamente non era portato alle domande, ma questa gli balzò subito all’evidenza: come può una ‘coda’ determinare l’andamento della testa?

L’Uroboro sentì salire il rigurgito unito alla rabbia per non averci potuto fare niente nonostante se ne fosse accorto. Arrivò a temere che uno spasmo più forte lo portasse ad una esplosione che poteva squarciarlo. Eppure tutte le ‘alternanze’ possibili (e programmate) si erano succedute, non doveva cambiare niente (ed in effetti così era accaduto) e invece… che cosa gli stava sfuggendo dal controllo? Non lo rassicuravano più i ‘puntellatori’, i ‘caritatevolisti’ che frenavano il rivoluzionamento fondato sulla consapevolezza. Si stava forse creando una nuova struttura analoga e parallela alla sua ma che avrebbe comunque decretato un suo ridimensionamento, a dir poco? No, non poteva permetterlo! Cercò di raccogliersi nelle sue spire ormai traballanti, poteva ancora farcela.

Certo che vide la mina, era anche affar suo se quella stava lì, ma, ancora una volta, non poteva farci niente.

E l’Uroboro esplose in molti pezzi ognuno dei quali poi si arrogò il diritto di essere il vero erede della sua ‘testa’.

E la coda? Pur non avendo avuto parte effettiva in quell’evento, delusa, dovette andare di nuovo alla ricerca di un’altra testa sotto la cui protezione bisognava mettersi!

 

 

2° Atto

Uffa! Francesco sbuffò platealmente gettando a terra i fogli che il suo amico Lucio gli aveva dato da leggere, dopo essersi girato e rigirato sul divano perché non trovava la posizione giusta né fisica e né mentale per reggere a quella lettura. A dire il vero, non che non lo interessasse, ma il suo amico gli stava un po’ sui ‘sissi’, così preso dalla mitologia, come se si paludasse del fatto di aver studiato al Classico… “Tutto morto”, pensava Francesco, al pari di quelle lingue che non a caso venivano definite ‘lingue morte’! Che cosa potevano contare più nella società di oggi in perenne movimento e con una velocità tale da creare la sensazione ‘paradossa’ di “veloce immobilità”? Che cosa c’entrava adesso l’Uroboro? Certo, intuiva che sotto quel richiamo mitologico il suo amico intendeva rappresentare ben altro, qualche cosa che continuava a ripetersi nell’attualità se non veniva elaborata.

Quante volte lui e Lucio si intrattenevano a discutere. “Vedi questo tavolo?” gli diceva Lucio. “Se ti fermi alla pura datità dell’oggetto segnalato, mi puoi rispondere “Embè?!” Ma se entriamo nel campo delle rappresentazioni, allora…”   Non che fosse complicato, ma Francesco si stufava, così il più delle volte si lasciavano con il loro saluto di rito di quando erano adolescenti: “Ciao, broccolo!”, “Ciao broccolo”, trasformato poi da Lucio in “Ciao Brooklyn” da quando Francesco si era trasferito per un anno in quel distretto di New York. Nulla di difficile, dunque, ma solo impegnativo, richiedeva tempo e allora lui mollava condizionato anche da un affollarsi di impegni che lo avvolgeva. Come adesso … il passare delle ore incalzava…

Guardò l’orologio, si sistemò velocemente. Era un po’ in ritardo per la presentazione della sfilata di moda che aveva organizzato come Art Director (***), ma aveva dato le disposizioni giuste e quindi si sentiva tranquillo. Arrivò al Palazzo, dove si sarebbe svolta l’iniziativa, che gli invitati già si erano accomodati nei saloni. Salì in fretta. Sembrava che tutto stesse procedendo per il meglio: la scenografia, i colpi di luce, la musica e gli stacchi floreali fra una passerella e l’altra che suscitavano lo stupore del pubblico. Girando qua e là, Francesco notò una fanciulla che sedeva con molle grazia su una poltroncina ‘riservata’. Chi poteva essere? In fondo conosceva tutte le persone ‘in’ che godevano di quei posti esclusivi. Forse era una nuova modella scovata da Gigi, il suo amico fotografo? Pantaloncini écru quasi al ginocchio, mai visto gambe così lunghe e così ben tornite! Un corpetto fasciato in tinta e di un tessuto sobriamente luccicoso. Capelli castani tagliati a caschetto ma senza ricercatezze particolari: sembrava più una opzione di praticità che di moda… A pensarci, niente di eclatante, nel suo lavoro ne aveva viste di meglio, e però… attirava.

“Ehilà!”, disse avvicinandosi, come se dovessero già conoscersi.

“Buonasera” lei gli rispose cortese. (Non gli sfuggì il bel timbro di voce).

“Dove ci siamo già visti?” fece lui di rincalzo e stava per citare qualche mostra o qualche super evento cui lui aveva preso parte, ma lei non lo lasciò iniziare e sorridendo rispose “a ‘Il Vostro Mercato’, quello di Via Masaniello”.

Riprendendosi velocemente dalla risposta destabilizzante, Francesco cercò di recuperare la facoltà di pensiero, anche i VIP vanno a fare la spesa nei supermercati! “Ah, come mai si serve in quella zona?”.

“No, no, io ci lavoro. Faccio la cassiera. Il Mercato è una grande cosa, sa? Mi piace toccare le merci, controllare i prezzi, contare i soldi, quasi fossi in una banca”.

Un discorso così strampalato non gli era mai toccato di sentire! Forse era solo uno scherzo! Approfittando della poltroncina accanto che si era liberata, lui si sedette, ne sentiva il bisogno tanto era disorientato!

“Ah. Mmh. Come ti chiami?”

“Ibi”

“Dai, non scherzare! Ibi, che nome è?”

“Piaceva a mia madre, non lo so. Non le ho mai fatto questa domanda anche perché andò via da casa molto presto. Vuole sapere se l’ho chiesto a mio padre? Sì. Mi rispose che aveva detto a sua moglie “fa’ tu”. Poi se ne è andato via anche lui… E lei come si chiama?”

Stranito da quella conversazione, lui rispose “Francesco”

“Uhh! Così lungo?”

“Come ‘così lungo’!” le obiettò ridendo stretto, mal celando l’impatto dell’eventuale doppio senso.

“Ma sì, un diminutivo, un nomignolo…”

“Ah! No, no” sostenne lui mentre da dentro gli affioravano i ricordi che lo facevano arrossire di vergogna quando a scuola lo chiamavano “checchino” o ‘checchetta’ nei casi peggiori! Nonostante avesse abbondantemente passato i 50 e godesse di un certo prestigio, quelle umiliazioni giovanili lo ferivano ancora.

Lei lo incalzava: “e che cosa fa di bello?”

“L’Art Director”. Lo disse con enfasi, quasi a sopperire le umiliazioni patite.

“E che cos’è?”

“Beeh, Beeh…” Come fare a spiegare…

“Sta fra le pecore?”

Era basito.

Da un lato non smetteva di distogliere lo sguardo da lei. La frangia piatta che si sparigliava quando lo sbattere delle lunghe ciglia vi entrava in contatto. E gli occhi, simili a fessure: smeraldini, forse? E quel vezzo di far uscire un roseo di linguetta ogni tanto, quando parlava. E dall’altro era annichilito da un linguaggio completamente privo di connessioni logiche, carente di una struttura dotata di senso il che gli dava una sensazione straniante, come essere uscito dalla storia. E quanto poteva essere dirimente (o forse no) il fatto che la ragazza, almeno a detta sua, non aveva avuto una ‘famiglia’ alle spalle? Mah!

Banalità che non godevano nemmeno del privilegio del ‘nonsense’! Piattume ideativo che contrastava con la finezza di quella personcina… Ibi… come aveva detto che si chiamava? E se fosse una replicante? O un ologramma venuto da chissà dove? Scacciò il pensiero.

Certo, non che Bibe (“per favore non chiamatemi Elisabetta!”), la sua amica contessina, facesse discorsi più intelligenti! E aveva anche una voce ‘gracchia’! Oltre che di un casato, era portatrice di quella bellezza patinata (quella che, peraltro, lui, Francesco, contribuiva a nutrire attraverso il suo lavoro!) per cui nessuno si permetteva di dirle alcunchè. Mutatis mutandis, continuava la saga descritta da Giovacchino Belli nel suo sonetto “Li soprani der monno vecchio” (1831) del quale ebbe successo il verso “Io so’ io e vvui nun zete un cazzo!”

Francesco dunque capì che era inutile cercare di imbastire un dialogo, però la ragazza lo incuriosiva troppo; forse era portatrice di un ‘mondo nuovo’? O, forse, perché pure la banalità attira? E perciò, approfittando della pausa che precedeva l’ultima parte della sfilata, quella degli abiti da sposa, la invitò al buffet per prendere qualche cosa. Ibi si alzò, un busto modellato, sinuoso, ben armonizzato con la lunghezza delle gambe, sembrava che lo spazio attorno a lei rilucesse di una luce strana. O piuttosto era lui a sentirsi stranito! Mentre si avviavano al luogo di ristoro, mille domande gli si affollavano in testa e lo rendevano inquieto. E quando lei gli strinse il braccio si chiese se si trattava di una stretta cordiale oppure di una morsa. “Ah, quante cose vorrebbe sapere lei! Forse troppe”. Ibi rise civettuola.

Il Martini Dry, le pecore, il Mercato, le gambe flessuose di Ibi continuavano a fare sarabanda nella sua mente. Una sensazione pervasiva come di ubriacatura. Sentiva il bisogno di tornare a casa, o per lo meno trovarsi in un luogo sicuro. Posò il bicchiere sul bancone, si girò per chiederle se era venuta da sola, se aveva bisogno che qualcuno l’accompagnasse per il ritorno ma lei era scomparsa. Chiese al barman se avesse visto dove si fosse diretta la ragazza che era con lui ma l’interpellato, con un sorriso ammiccante, gli rispose: “Dottore, dottore, ha fatto una over dose di belle ragazze questa sera che stravede”. Notandone lo stupore, ribadì: “No. Non c’era nessuno qui con lei”.

Il tutto e il niente incominciavano a roteare attorno a lui.…

Si risiedette nella poltrona. Eppure era più che certo che quanto avvenuto non faceva parte di un sogno. Molti interrogativi durante quell’incontro gli erano affiorati alla mente. quella raffinata classe… lasciamo pure da parte Bibe, la contessina, ma che dire di Ras (nomen omen)?  Il suo procacciatore di ingaggi, elegante come solo i parvenus sanno essere, eppure attraverso lui circolavano affari, soldi – di cui anche Francesco beneficiava -, soldi che venivano da dove e andavano dove non era chiaro, in un giro che sembrava senza inizio né fine. Senza dubbio la parte manifatturiera (legata non solo alla Moda) si ingrandiva ma a un certo punto non avrebbe potuto andare oltre e allora, via al ‘recupero’ del passato, faceva molto trendy, ma si sentiva che mancava quel motore centrale che produceva ricchezza vera! Come diceva Lucio, era una economia zoppa destinata a soccombere.

Ma tornando a Ibi, dove poteva essere andata?

Provò ad alzarsi ma faceva fatica a stare in piedi, non sarebbe stato in grado di andarla a cercare. Si sprofondò di nuovo nel divanetto dopo aver ordinato un altro Martini Dry.

Ora vagava in un luogo impervio, una montagna, forse. Fra gli avvallamenti del terreno e sulle zolle pratose spiccavano sassi bianchi bitorzoluti alcuni e altri aguzzi come se fossero l’esito di una eruzione o di un terremoto. Attorno erbe secche che frusciavano sinistramente. Sapeva di andare alla ricerca del Mercato ma era difficile orientarsi in quella landa desolata. Per quanto, per la sua professione, fosse abituato a inventarsi gli scenari più strani, questo però gli trasmetteva la sensazione angosciante di un ‘senza messaggio’, un sonar che non rinvia più risposte ai segnali. Un immobilismo inquietante. Dove era finito? Alzò gli occhi al cielo ma non c’era cielo, nemmeno quel cielo dove stanno le entità superiori, gli dei, la ragione (lo Stato, come ogni tanto gli rifilava il suo amico Lucio e lui, automaticamente, lo mandava a quel paese). O il pensiero, che gode del previlegio di trascendere la realtà pur rimanendo collegato ad essa. Invece era come se fosse avvolto interamente da quel paesaggio. Prigioniero di esso eppure senza muri da abbattere.

Un lampo gli attraversò la mente: Ibi. Cioè “ovunque e da nessuna parte!” Ma poi il lampo sparì.

Attraverso di lei era entrato in contatto con una rappresentazione di quanto stava accadendo oggi? Ma dentro di lui o fuori di lui? E’ sempre molto difficile ricondurre al nostro interno l’origine di certi disagi: molto più semplice attribuirli all’esterno dove si crede di poter fare qualche cosa. Il tutto riassumibile, ad esempio, dalla espressione “Bisogna modificare il sistema”.  Sì, ma nello stesso tempo non accettiamo di cambiare noi che beneficiamo di quel sistema o, per lo meno, di porci delle domande in merito! Gli riaffiorarono alla mente le discussioni con Lucio sulle riforme, un ritocchino qua, un ritocchino là… certo che andava meglio e perché no? E poi le ‘famose’ “riforme di struttura”!? Eppure non si era capito che cosa doveva essere trasformato!

Si sforzò di pensare, muovere la sua mente per quanto la sentisse intorpidita. Che cosa cercava di fargli capire Lucio quando gli parlava del libro “Le metamorfosi” di Apuleio sul processo necessario per raggiungere la conoscenza di sé? Ora Francesco si stava rendendo conto della differenza esistente tra cambiamento e trasformazione. A quanti cambiamenti assistiamo? Ma quanto a trasformazioni… questo voleva comunicargli il suo amico. Forse era meglio chiamarlo, dirgli che aveva capito anche un’altra cosa e cioè che una mente pensante da sola non ce la fa. Oltretutto corre il rischio di avvolgersi su se stessa, di ripetersi all’infinito. E invece era importante mettere in comune altri pensieri e forse si sarebbe potuto trovare una via di uscita a fronte di una ripetizione sterile. Scoprì dentro una spinta che lo portava al bisogno di parlare, a non voler essere complice! Era difficile, certo, navigare tra Scilla e Cariddi! Le seduzioni di un benessere senza limiti (immaginato senza costi e senza ripercussioni negative) e che sembrava autogenerarsi a prescindere dalle situazioni avverse, e il baratro sacrificale della decrescita irresponsabile (altro che felice!) che azzerava la storia con le sue evoluzioni, cadute e conquiste.

Spilli infuocati di interrogativi gli davano dei soprassalti inaspettati. Pensieri a onde arrivavano e poi sparivano: come fare ad affrontare questi temi senza correre il rischio di venire silenziati dall’una o dall’altra parte? Intanto era importante incominciare…

E, soprattutto, non voleva essere complice! Forse era proprio vero, come aveva detto Ibi, che lui stava fra le pecore, dentro il gregge. Ma non certo nella accezione che il tono di voce di lei sulle prime aveva fatto trapelare: “allora sei dei nostri”! No, non poteva essersi venduto! E però, in fondo, che Art Director era se poi, alla fin fine, le sue autonomie erano relative e doveva comunque rispettare certe imposizioni che venivano dal Mercato (o da chi per esso)?

All’improvviso lo attraversò l’idea che aveva sottovalutato il linguaggio di Ibi che in realtà stava trasmettendo ben altro.

Si sentì in pericolo. Era necessario chiamare Lucio. Con fatica tentò di superare quel particolare torpore che lo aveva invaso per cercare il cellulare. Fu che allora il corpo sinuoso di Ibi gli si mise sopra coprendolo tutto. La lingua di lei si attorcigliava sempre più strettamente con quella di lui fino al punto da cacciargliela giù in gola e soffocarlo.

Ora Francesco giaceva su quella poltrona con le braccia allargate come un Cristo in croce, Ibi si alzò, diede uno sguardo al barman che rispose con un sorriso compiacente come a dire “accidenti, che servizio!” e poi sparì di nuovo dalla vista.

Una piccola squama grigia, iridescente, brillò per un attimo sul polso di Francesco e poi sparì.

 

3° Atto

Un rombo come di tuono lacerò l’aria e fece tremare tutto. A seguire un tintinnio di cristalli.

Umido bavoso sulla faccia, un peso irrequieto che si muoveva sopra di lui e odore di selvatico. Voci indistinte in lontananza. Poi una più chiara: “Ehi, Francesco, dài broccolo, sono io, Lucio”.

Biascicando un po’ “ah… Lucio… sì…sì… volevo proprio chiamarti” rispose Francesco. Una serie di fitte dolorose alla testa sembravano trasferirsi alla tempia che gli pulsava in modo martellante. Sentiva il corpo ammaccato che rispondeva torpido ai suoi ordini.

Quel breve scambio verbale lentamente lo fece ri-orientare. Si trovava a casa e quella era la poltrona della pennichella. Non riusciva però a capacitarsi di quella confusione… Lucio, d’accordo, ci stava, ma che cosa ci facevano Poldo, il portinaio, e Gigi, l’infermiere del terzo piano?

“Tranquillo, Professore – disse appunto Gigi – tutto a posto, solo una caduta, un bernoccolo in testa” … ma Lucio non lo lasciò continuare, quasi fosse smanioso di raccontare lui i fatti. “Ti stavo aspettando giù, i tuoi ritardi ormai li metto in conto, ma a un certo punto Lara ha incominciato ad abbaiare forsennatamente. Saltava sul terrazzo e poi, uggiolando, rientrava per tornare fuori a ripetere la pantomima. Impensierito, sono corso dal portinaio e assieme siamo entrati in casa. Stavi afflosciato a terra, addossato al muro, come un pupazzo di stoffa, incastrato tra il divano e un tavolino davanti al mobile bar… come tu ci sia finito lì… hai cercato di sfondare la parete con la testa? E Lara sopra che ti slinguava la faccia…Poldo è andato a suonare a Gigi che per fortuna era a casa. Lui ti ha dato un’occhiata e piano piano ti abbiamo alzato e fatto sedere sulla poltrona. Come ti senti?”

Gigi intervenne: “Signori, in ogni caso una capatina al Pronto Soccorso va fatta. Per precauzione”. Lucio non solo si mostrò d’accordo ma chiese all’infermiere di aiutarli a scendere: “Ho l’auto parcheggiata proprio qui sotto!”.

“No, rispose Gigi, andiamo con la mia, metto su il camice e vengo. Così sveltiamo le procedure. Tanto più tardi devo entrare in servizio”.

Il ronzio dell’ascensore coadiuvava il torpore che Francesco sentiva. Solo il pulsare del dolore gli dava una dimensione di presenza a cui si univa però una voce interna che sembrava scandirgli un com-pli-ce, com-pli-ce!.

Una volta scesi, un filo di brezza lo risvegliò: “Lucio, e la conferenza!”, chiese allarmato salendo in macchina e ricordandosi di colpo dell’impegno di quella giornata.

“Non ti preoccupare. Ho già parlato con l’organizzatore. Tutto sistemato”

“Ma… e il mio intervento?”

“Beh, per motivi organizzativi, il tuo spazio verrà spostato alla fine in modo da permettere a …”

Francesco sembrò prendere vigore: “No. Non è possibile! Non dirmi che …”

“Ssssst! Zitto! No. Non nominarlo!”

“Non sarà mica quell’emergente di “Apelle, figlio di Apollo”(****)”?

“L’hai detto. Comunque non ti inquietare. In ogni caso fra lui e il pubblico corre un linguaggio condiviso. Forse avresti creato più scompiglio tu!”

Francesco pensò che allora lui non era del tutto “complice”!

“Hai avvisato mia moglie?”

“No, lasciala in pace a godersi un po’ di relax al mare! La situazione non è grave, facciamo corna! La chiameremo stasera a esiti ormai accertati”

Il traffico scorreva abbastanza veloce, forse perché era domenica e molti erano già in vacanza.

Francesco era in dubbio se parlare o meno a Lucio della sua singolare esperienza ma si sentiva ancora troppo confuso per poter affrontare un discorso così impegnativo. Tentò:

“Senti, mi è successa una cosa strana…”

Non erano arrivati al complesso ospedaliero – che distava ancora un isolato – ma Gigi fermò l’auto. Si rivolse a Lucio: “Vede al di là di questa corsia poco dopo il passaggio pedonale? Ci sono dei Taxi. Le conviene prendere uno adesso perché davanti all’Ospedale è difficile trovarne e poi noi facciamo il giro dal retro. Se vuole un consiglio, anche quando questa sera verrà a prendere il Professore, non venga con la sua macchina, a meno che non vogliate andare a fare bisboccia per lo scampato pericolo, ma prenda ancora un Taxi. Quelli possono entrare fino all’astanteria. Arrivederci”.

Francesco si trovò solo con Gigi. Non aveva più Lucio come interprete, ma tutto stava a fidarsi!

Nel parcheggio per i dipendenti, l’infermiere tirò fuori un plaid, gli disse di metterselo addosso perché fuori c’era una certa arietta e con lo shock patito avrebbe sentito un po’ di più il fresco. Intanto sarebbe andato a recuperare una carrozzina.

Al Pronto Soccorso dove venne depositato c’era il solito assembramento di pazienti.

Francesco guardò le persone che aspettavano il loro turno di accesso. Un mondo composito dove si mescolavano etnie diverse, sofferenze diverse e, anche, diversi modi di vivere la sofferenza! Due donne col chador, immobili come due icone … che cosa le aveva portate in questo Paese? E quella mattina a quel servizio di urgenza? Ecco un uomo di colore che, nel suo lungo e colorato kaftano, continuava a voler stare addossato ai vetri dello Sportello Accettazione e, nonostante venisse invitato a sedersi in attesa di essere chiamato, prima si sedeva sottomesso e poi ritornava lì, alla sua postazione. Più in là un giovane con un piede fasciato, forse doveva fare una medicazione. Un signore attempato che non distoglieva lo sguardo dal tabellone che riportava i numeri progressivi di chiamata… era solo? Nessuno che si prendesse cura di lui? Bambini che scorrazzavano… poi una donna segaligna li redarguiva e per un po’ tornava il silenzio. Più altra varia umanità. Sarebbe stato interessante (e anche importante) conoscere la loro vita, le loro storie… ma, per la maggior parte, sembravano impegnati nello smanettare con il tablet, non sembravano mostrare disponibilità al dialogo! E poi erano tanti, come poter dedicare una adeguata attenzione uno per uno?

Era forse quello che intendeva l’Uroboro quando ebbe la impressione di essersi allargato tanto ma nello stesso tempo di essersi rimpicciolito perché non riusciva a stare al passo con ogni cosa? Per gestire il problema, le due strade scelte erano state: o tipicizzare per grandi gruppi o generalizzare in toto.

Un “Eccomi qui, Professore” lo distolse da quei pensieri che non facevano altro che incrementargli lo stato del dolore pulsante. Ma si conosceva, ormai… faceva fatica a smettere di pensare. Gigi era riapparso con dei fogli in mano, si impadronì della carrozzina e si diresse lungo i corridoi muovendosi con molta sicurezza: questo non poteva significare altro che era stata bypassata la trafila giù al Servizio di prima accoglienza.

Quanto lo infastidiva sentirsi appellare ‘Professore’ così, fuori dai luoghi deputati! Lo sentiva come una violazione della sua privacy. Ma in quel momento ebbe una percezione ulteriore legata non solo al fatto che alcuni dei presenti si erano girati verso di lui quasi fosse portatore di un previlegio che utilizzava abusivamente, ma toccava un tema su cui si scervellava da molto tempo e riguardava il potere e le sue dinamiche di trasmissione.

Gigi, ad esempio, quando lo chiamava ‘Professore’. Certo, oltre al rispetto, c’era della deferenza. Ma, in quel contesto, Francesco notò in lui anche un senso di importanza che gli derivava da quella particolare conoscenza. E infatti si muoveva con un certo piglio, come se non accompagnasse un paziente qualsiasi ma una persona di riguardo. Chi gli aveva dato quella investitura, quel potere… Se lo era attribuito da sé, quale esito di quelle dinamiche inconsce identificatorie e transitive tali per cui, se io sono in contatto con il tuo potere e ne beneficio, anch’io a mia volta ho un potere? O invece, in qualche modo, altrettanto inconscio, Francesco stesso glielo stava dando ‘a prescindere’ da una fattuale congruenza? Ma a ciò si aggiungeva anche un altro problema. Ovvero come tutto ciò veniva utilizzato.

Con Gigi si conoscevano da anni ma Francesco non aveva mai approfittato – al di là di qualche urgenza per il ritiro di un referto clinico – di quella conoscenza. Era una amicizia soft, partite a carte e qualche cena fuori porta. Eppure, anche in quel contesto familiare, Gigi continuava a chiamarlo ‘Professore’ con una nota a metà tra l’affettuoso e lo sfottò. Così come doveva essere! La primarietà era comunque riservata al rapporto amicale e di stima.

Ma la domanda conseguente che metteva a disagio riguardava non tanto il suo amico (perché non poteva sentirsi orgoglioso di conoscere una persona importante?) bensì il processo che, più o meno inconsciamente (e, purtroppo, il più delle volte, consapevolmente), veniva messo in atto. Infatti quanti altri invece avrebbero cercato di utilizzare a loro pro quella opportunità ‘autorizzandosi’ nel sentirsi crescere di importanza, mettendo in moto una catena parallela di investiture? E come può reagire chi – non disponendo di sue particolari risorse (economiche, sociali), o condizionato da modelli culturali che inibiscono ogni autonomia di pensiero e capacità critica – teme venga messo a rischio quel suo potere effimero, perché un potere che si appoggia su un ‘nulla’ è sterile? Questo modello ‘reticolare’ si era visto benissimo nel nostro dopoguerra, ben documentato da una coraggiosa cinematografia realista di quell’epoca! E se davvero si profilasse quella eventualità contro chi ci si rivolterebbe? Perché sappiamo che “cane non mangia cane” e che, a volte, si può perire anche per ‘mano amica’?

Pensieri che gli davano i brividi e, sentendo più freddo, si strinse di più nel provvidenziale plaid.

Anche il medico che lo accolse lo salutò con un “buon giorno Professore”: ma lì passavano altri messaggi. Nonostante tutto, era il medico che in quel contesto deteneva il potere.

Ad alta voce lesse dagli appunti: “L’infermiere che l’ha accompagnato, riferisce che, alle 9.00 circa di oggi, su chiamata del portinaio e di un amico, l’ha rinvenuto a terra, addossato ad una parete, infilato in uno spazio angusto, come rintanato e con un ematoma in testa. E che, pur avendo riconosciuto l’infermiere stesso e mostrato un comportamento vigile, sembrava disorientato e spaventato”.

Poi alzò lo sguardo: “Questi i fatti. Vediamo, se possibile, per quanto lei riesca a ricordare, di ricostruire gli antefatti. Com’è che si trovava in quel punto della casa?”

Di solito, nella vita professionale, era lui a fare le domande. E questa inversione di ruoli lo disturbava un po’, come se fosse sotto inquisizione.

Partì dall’essersi diretto al mobile bar per farsi un Martini Dry…

“Alle nove di mattina?” lo interruppe il dottore.

Francesco spiegò come si trattasse di una specie di rituale farsi un sorso propiziatorio prima di affrontare una iniziativa pubblica come la conferenza di quel giorno.

“Ah, una conferenza?” chiese il medico. “Ma qui in città? E su che tema?”

“Ma che c’azzecca!?” pensò Francesco, però rispose alla domanda: “Contraddizioni di sistema e compliance”.

“Ah, interessante! E quindi, dopo aver bevuto il suo Martini Dry si è trovato a terra!”

Francesco percepì la sfumatura inquisitoria che andava alla ricerca di una verità precostituita….

“No, dottore. Non ho bevuto. Per la banale ragione che la bottiglia del Gin era ancora da aprire e non c’era tempo per farlo perché ero già in ritardo! Questo lo ricordo bene. Forse arrabbiato per la frustrazione imprevista, non lo so, può essere che mi sia girato di scatto. Volevo riporre il bicchiere al suo posto… devo aver sbattuto la testa sullo spigolo dell’anta a ribalta rimasta semiaperta… Ricordo il bicchiere che non doveva cadere e forse per preservarlo ho perso l’equilibrio… devo aver cercato di aggrapparmi da qualche parte, non so… forse ho fatto una piroetta su me stesso … sinceramente non ricordo”.

“Mmh, bene, bene” rispose il medico mentre scriveva qualche cosa su un foglio. “Non riesce a quantificare il tempo intercorso tra quel momento e l’arrivo dei suoi soccorritori?”

“No, anche perchè era come se non avessi la cognizione del tempo… Però non molto, credo”

Francesco avrebbe voluto sogghignare di fronte alla toppata sbrigativa del dottore, ma ogni movimento facciale gli causava dolore. No, non era caduto perché era ubriaco… ma forse nemmeno perché era frustrato per aver saltato quel rituale…. Era turbato già da prima… non ci teneva molto ad andare a quella conferenza, incominciava ad essere infastidito per il fatto di parlare, parlare e denunciare, denunciare mostrandone i nessi e i dettagli, di mettere a disposizione degli altri le sue esperienze e tutto continuava come prima, anzi, peggio di prima. Se avesse voluto parlare solo a se stesso, per il suo piacere o la sua gloria, bastava mettersi davanti allo specchio, gonfiare il petto…. O reclutare adepti/discepoli fedeli, oppure trovare quel pubblico che ha bisogno di un guru così come il guru ha bisogno di quel pubblico. Esaudito quel ‘primario’ bisogno poi tutto torna nell’immobilità. Invece lui non era capace di fare “palle di pelle di pollo” e spacciarle per grandi verità!

E’ che in quella circostanza, un suo collaboratore, che organizzava eventi culturali, era riuscito a persuaderlo chiamando in causa l’amicizia, un ideale comune. Ma, più che di Francesco, del suo pensiero, che pure valorizzava, Rashad aveva bisogno di completare la ‘scaletta’ (e, soprattutto, voleva stare dentro il budget dei costi!). Così Francesco, pur comprendendo tutto questo strano ‘giro’, pensava di rispondeva all’amico… O non rispondeva invece a qualcos’altro? Colludeva, forse?

Però le cose erano andate diversamente: “l’uomo propone e Dio dispone!”, così gli era stato insegnato in casa quand’era piccolo!

Non ascoltò nemmeno il medico che gli stava illustrando la prassi che avrebbe dovuto seguire. Docilmente si mise sulla lettiga che nel frattempo l’aspettava fuori l’ambulatorio, pronto ad affrontare la serie di indagini previste in quella circostanza.

Il suo corpo si sarebbe certo ripreso ma dentro di lui ormai si era aperta la ferita di un dubbio non facilmente sanabile date le condizioni di isolamento e di silenzio che lo circondavano. Forse ci voleva solo del tempo, questo lo sapeva. E intanto? Beh, intanto aveva raggiunto la consapevolezza di non essere complice!

 

NOTE

(*) Tiresia, personaggio della Grecia antica, era dotato del dono della preveggenza. Un giorno, camminando sul monte Cillene, si imbatté nella vista di due serpenti che si accoppiavano. Inorridito, uccise il serpente femmina e, subito, si trasformò in una donna. Visse in questa condizione per sette anni, sperimentando tutti i piaceri che una donna potesse provare. Al termine dei sette anni, si trovò davanti nuovamente la scena dei due rettili, uccidendo, questa volta, il serpente maschio: tornò, così, uomo. La cecità gli fu inflitta dalla moglie di Zeus, Era, come punizione per aver svelato il segreto che la donna, nell’atto sessuale, prova piaceri più ricchi e differenziati rispetto all’uomo.

La cecità di Tiresia è di tipo particolare: gli fa vedere le cose deprivate dai loro orpelli. Inoltre, alla facoltà, sempre più ridotta di indovino – il cui sguardo è rivolto al futuro -, si affianca una particolare attenzione per la storia. Infatti Cesare Pavese, in uno dei dialoghi con Leucò in cui parla di Tiresia, contrappone il mondo olimpico “che è fatto di “parole, illusione, minaccia” a quello degli uomini, perché quest’ultimo è più vecchio degli dei”.  Per Tiresia, dunque, si passa dalla preveggenza sterile all’esercizio della memoria.

(**) Uroboro è un simbolo che nell’antichità veniva raffigurato come un serpente o un drago che si mordeva la coda, formando un cerchio senza inizio né fine. Dentro quel cerchio era rinchiuso l’universo.

Si tratta dunque di un simbolo molto antico, presente in molti popoli e in diverse epoche: apparentemente immobile, ma in eterno movimento, rappresentava il potere che divora e rigenera sé stesso, l’energia universale che si consumava e si rinnovava di continuo, la natura ciclica delle cose, che ricominciano dall’inizio dopo aver raggiunto la propria fine. Fra le altre simbologie applicabili troviamo l’infinito, l’eternità, il tempo ciclico, l’eterno ritorno, l’immortalità e la perfezione.

(***) L’Art Director gestisce e definisce tutta la parte visiva della comunicazione, dalla creazione di immagini al coordinamento di figure che operano nel settore visivo come registi, videomaker, illustratori e designer.

(****) Filastrocca scioglilingua “Apelle, figlio di Apollo, fece una palla di pelle di pollo. Tutti i polli corsero a vedere la palla di pelle di pollo fatta da Apelle figlio di Apollo”

 

Conegliano, 29.07.23

 

 

 

3 pensieri su “Il colpo di coda

  1. Lettura impegnativa. La coda, la ragazza Ibi (“ovunque e da nessuna parte”), il “Vostro Mercato” quello di via Masaniello (la cui rivolta portò al dominio alternativo della Francia rispetto alla Spagna sulla breve Real Repubblica Napoletana), sono (solo) spie dell’illusione in cui Francesco è potente e impotente allo stesso tempo. La mina che fa esplodere l’Uroboro, d’altra parte, andrà “di nuovo alla ricerca di un’altra testa sotto la cui protezione bisognava mettersi”.
    La storia si imborghesisce in ospedale: Apelle esporrà la sua apprezzata palla di pelle di pollo, Francesco vedrà di fatto l’immigrazione che assilla l’ospedale, comprende i limiti del suo ruolo professorale (“più che di Francesco, del suo pensiero, che pure valorizzava, Rashad aveva bisogno di completare la ‘scaletta’ (e, soprattutto, voleva stare dentro il budget dei costi!)” ed è diventato così staccato -per l’incidente- dalla vita da uroboro che… “Beh, intanto aveva raggiunto la consapevolezza di non essere complice!”

  2. un’opera teatrale in tre atti di Rita Simonitto, uno scritto difficile e nello stesso tempo stimolante da decodificare, con importanti spunti di riflessione sul comportamento umano…L’ho affrontato a volo di rondine, cioé cercando un filo conduttore, il bandolo della matassa e mi è parso che tutto ruoti intorno ad un percorso di trasformazione del protagonista, Francesco…Quindi ho pensato di capovolgere l’ordine degli atti, iniziando a considerare il terzo, che vede Francesco riprendere coscienza dopo un brutto ematoma alla testa, conseguente a una caduta…Ovvio che si tratta solo di una interpretazione…Francesco, professione Art Director, viene soccorso dall’amico Lucio, dal custode e da un infermiere del palazzo che, solerte, provvede a trasferirlo nel suo ospedale per gli opportuni esami di accertamento…Pero’ la sua mente, oltre che confusa, sembra lontana, coinvolta com’è dalla recente lettura di uno scritto dell’amico Lucio, studioso del mondo classico antico e letterato: protagonista il personaggo Oroburo, la personificazione vivente di un antico simbolo, quello del sepente che si mangia la coda muovendosi freneticamente in cerchio, in un movimento fine a se stesso e narcisistico, destinato a riproporsi continuamente…Il personaggio rappresentato, pero’, provacato, entra in crisi ma si attorciglia sempre su se stesso, finchè una mina lo fa esplodere in tanti pezzi…ma anche cosi’ la coda del serpente cerca una testa a cui congiungersi e il solito binario circolare, incapace di una vera trasformazione…Francesco trova il testo di Lucio insopportabile alla lettura e lancia per terra i fogli: insopportabili sia il personaggio arroccato al suo presunto e assoluto potere intellettuale come il pretenzioso linguaggio…
    C’è poi la il secondo atto, quando Francesco vive un’esperienza onirica, forse tra sogno e veglia, conseguente al trauma della caduta…In questo caso Francesco si vede presente nel suo ambiente di lavoro per una sfilata di moda e, casualmente, fa la conoscenza di una affascinante ragazza da cui si sente attratto. Cerca il dialogo con lei ma, aimhè!, il personaggio è altrettanto deludente di Oroburo, con la sua apparente semplicità legata al potere materiale della bellezza, delle merci e del denaro che amministra alla cassa di un supermercato…
    Nel terzo atto Francesco vede confermata questa generale ricerca del potere da parte degli umani , pratica propria di un sistema di rapporti economico-sociali avvitato su se stesso, anche nei comportamenti apparentemente altruistici, come nel caso dell’infermiere che si prodiga per l’infortunato, ma lo chiama il “prof”, cioè la persona importante, davanti a tutti, ricercando il suo spazio di considerazione e di potere nell’ospedale in cui lavora…
    In conclusione Francesco, osservandosi da dentro e non solo da fuori, non si ritiene complice ovvero affetto da quel male oscuro cosi’ diffuso che è il potere…o almeno entra nel dubbio…

  3. Innanzitutto voglio ringraziare Ennio per l’immagine scelta come frontespizio al mio racconto. Una inquadratura significativa in quanto riassume in un colpo d’occhio quanto io ho cercato di dispiegare in molte pagine (e ce ne sarebbero volute molte di più). In quella rappresentazione, si riuniscono due mitologie, quella ‘primitiva’ legata all’origine del mondo e quella successiva legata alla creazione divina. Inoltre ci fa vedere come l’albero (della conoscenza) sia il solo che può scioglierci dal potere delle spire dell’Uroboro, dal condizionamento di una realtà eterna e immobile a cui fa da contrappunto fascinoso il mondo dell’Eden, dove la vita si colloca in un eterno presente, tutto è a disposizione senza dover chiedere, non occorre lavorare, faticare, non viene richiesto sforzo alcuno. E questa illusione ha indubbiamente una carica molto forte al punto che, per mantenerla, si sacrifica ogni spinta alla crescita.
    Certo che l’uscita da quella beatitudine comporta dei costi ma questo è il prezzo della evoluzione umana. Altrimenti c’è la paralisi. Fra l’altro, tornando alla mitologia biblica, vediamo anche quanto sia difficile l’assunzione di responsabilità. Dopo aver attinto all’albero della conoscenza, assistiamo al primo esempio di ‘scaricabarile’: Adamo dà la colpa ad Eva, Eva dà la colpa al serpente e il serpente dice che ha rispettato gli ordini che venivano dall’alto!

    Un mille grazie pure a Cristiana che ha affrontato la lettura di questo racconto, davvero impegnativo, traendone un commento molto centrato e di attualità. Sul Mercato che (come Ibi) è dappertutto, ogni cosa è mercificata, e non è ‘prendibile’ da nessuna parte perché sfugge alla presa ‘critica’ che cerca di ‘metterlo a terra’ (il Mercato, intendo). Anche la cultura è mercificata (Francesco “comprende i limiti del suo ruolo professorale” in un mondo dove tutto fa spettacolo, anche la sofferenza e la morte).
    E’ che Cristiana ha utilizzato l’aiuto di un pensiero metaforico trasformando i ‘segni’ linguistici in ‘spie’ dotate di senso che l’hanno portata a fare associazioni interessanti. Valida quindi la sottolineatura della rivolta di Masaniello (dal 7 al 16 luglio 1647), una ulteriore dimostrazione in merito alle alternanze ‘alla Gattopardo’ (“tutto cambia perché nulla cambi. Ossia: se tutto cambia esteriormente, tutto rimane com’è; se tutto rimane com’è, tutto può cambiare interiormente”). L’aspettativa che il multipolarismo (posso dirlo oppure subirò l’ostracismo in quanto eretica?) possa modificare qualche cosa va ben analizzata perché facilmente non si rivelerà altro che una parcellizzazione che manterrà immutato il nucleo originario da cui proviene.

    p.s.
    Vedo adesso (ore 4.00 del 7 di agosto) il commento di Annamaria, molto attento, soprattutto nel cogliere l’inversione temporale (il 3° atto è il primo, in effetti, ma narrativamente, non poteva essere presentato così): è dal presente che possiamo cogliere alcuni aspetti del passato (in cui non c’eravamo) riportandoli poi come stimoli di lettura interpretativa al presente stesso. Ciò corrisponde alla osservazione (Shakespeare e poi Marx) che “la nottola di Minerva esce sul far della notte” (a giochi ormai accaduti). Francesco è il docente, arrabbiato con se stesso per il fatto di dover intervenire ad una conferenza solo per compiacere un suo collaboratore egiziano e, sconcertato dalla lettura del testo che l’amico Lucio gli ha dato da leggere, fa un movimento di stizza, si prende una bernoccolata in testa, cade semicosciente, e da lì parte il processo onirico in cui viene rappresentato un possibile(?) altro da sé, un Francesco Art Director preso, anche se in parte, dentro l’illusione di un mondo fasullo, fatto solo di immagini e di spettacolo. Nel sogno/incubo – in cui sono rappresentati alcuni ‘segni’ tratti dalla vita reale come i nomi di alcuni personaggi nonchè il dover presenziare ad un evento pubblico) – lo scuote l’interrogativo: quanto possiamo essere complici con un sistema di potere così pervasivo e visto che al momento abbiamo ancora pochi strumenti per decodificarlo?

    Grazie anche a te, Annamaria.

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