di Ennio Abate
Sulla pagina FB di Sei di Cologno Monzese se… sotto questo post:
avevo lasciato il seguente commento:
Ennio Abate
Lo storico Claudio Vercelli a proposito di Giornate della Memoria imposte dall’alto:
"Ha riscontrato al riguardo lo storico e filosofo Enzo Traverso che l’ossessione commemorativa dei nostri giorni costituisce allora il prodotto del declino dell’esperienza trasmessa, in una società che ha perso i propri punti di riferimento, spesso accompagnata da una violenza insensata, senza altro oggetto che non sia il bersaglio occasionale del capro espiatorio, e da un sistema sociale che tende a cancellare le tradizioni (ovvero, il convincimento che il presupposto per dotarsi di un domani riposi nella consapevolezza del passato) così come frantuma le esistenze riconducendole a molecole di un sistema invece complesso, come tale al limite dell’incomprensibile per i più. Se ci si vuole risparmiare le pedanti e inette pedagogie dell’obbligo, allora forse bisognerebbe liberare il nostro bisogno di memoria (e di storie) dal vincolo della sua mera istituzionalizzazione. Poiché quest’ultima rischia invece di svuotarne i contenuti dall’interno. Il problema, in fondo, non è il pronunciarsi sulla maggiore o minore pertinenza di una ricorrenza civile ma sul modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare. Il resto, in fondo, rimane un campo aperto ad opportunità ed esperienze.
Dalla pagina FB di Claudio Vercelli del 27 gennaio 2022)
Ne è seguito questo scambio:
Cosimo Vincenzo Sansalone
non si capisce perchè i richiami storici istituzionalizzati o meno debbano svuotare di significato le ricorrenze.E ancora meno si capisce cosa propone come alternativa Enzo Traverso alla “banale” ricorrenza.
Ennio Abate
Non si capisce? Ma basta guardare i fatti. A te sembra che le annuali ricorrenze del 25 aprile abbiano prodotto una crescita politica e un maggior rispetto della Costituzione antifascista? E allora come ti spieghi Acca Larenzia di qualche giorno fa, Casa Pound, etc.? O che le Giornate della memoria abbiano diminuito l’antisemitismo (palese o mascherato)?
Cosa propone Claudio Vercelli (non Enzo Traverso che egli cita all’inizio del suo scritto) mi pare chiaro: non contesta la “ricorrenza civile” ma il “modo, gli strumenti, i criteri con i quali diciamo di volere ricordare”. Per me in soldoni dice che la Giornata della Memoria non può essere un precetto imposto dall’alto, il racconto spesso retorico di una tragedia che viene usata come esorcismo per convalidare la “democrazia”: quella stessa che fa e sostiene le guerre. Ora in Ucraina. O tace e appoggia il massacro a Gaza in risposta al “pogrom di Hamas”da parte dello Stato di Israele, che lo giustifica in buona parte anche in nome dello sterminio subito dagli ebrei durante il nazismo.
P.s.
Dietro la Giornata della Memoria c’è un problema enorme che viene banalizzato a rito propagandistico. E’ questo che non va. Per dartene un’idea ti riporto qui lo stralcio di un altro scritto (del 2015) di Stefano Levi Della Torre, che tra l’altro parteciperà a Cologno all’incontro del 19 gennaio all’Auditorium di Via Petrarca proprio sul conflitto a Gaza:
«Ora, il dibattito sull’ “unicità” ha via via acquisito un forte connotato politico. La tesi dell’ “unicità” esclusiva della Shoà è diventata prerogativa della destra nazionalista israeliana ed ebraica: in quanto proclama l’unicità esclusiva degli ebrei come vittime dell’estremo, è piegata a giustificare ogni azione dei governi di Israele come “legittima difesa” preventiva, come diritto di prevaricare, in nome della sicurezza, i diritti del popolo palestinese e il diritto internazionale, che pure si è andato formando ispirandosi in gran parte a principi desunti dall’esperienza della Shoà. In nome di questa interpretazione esclusiva dell’“unicità”, ogni ostilità palestinese verso l’occupazione israeliana viene equiparata alla minaccia estrema nazista. E con ciò si vuol tacitare ogni critica politica e morale alla colonizzazione israeliana dei territori occupati, e al sistematico contrasto a ogni occasione di trattativa e di compromesso di pace. Di contro, coloro che considerano la memoria della Shoà come permanente allarme sulle atrocità di massa contro ogni gruppo umano da chiunque messe in atto, rifiutano questo sfregio strumentale della memoria esclusiva della Shoà: memoria inclusiva contro memoria esclusiva, universalismo e diritti umani contro la degenerazione nazionalistica della memoria».
Qualche anno fa ho scoperto, in grande ritardo, che Sergio Romano già nel 1997 (forse l’unico in Italia?) aveva espresso opinione negativa rispetto all’istituzione della Giornata della memoria.
(Ricordo peraltro che l’Italia la istituì su iniziativa di Furio Colombo, che voleva commemorare soprattutto la deportazione degli ebrei romani del ghetto, ricevendo come risposta quasi immediata da parte delle destre di commemorare allora anche gli italiani uccisi nelle foibe o comunque prima dell’esodo croato-dalmata. Soltanto dopo arrivò il decreto dell’ONU sull’istituzione della Giornata della memoria).
Le argomentazioni di Romano, che lette oggi a me sembrano acute e profetiche, sono riassunte nel suo libro “Lettera a un amico ebreo”, che si rivolge idealmente a due importanti personalità del mondo ebraico: l’americano Roger Weiss e l’italo-israeliano Vittorio Segre.
Credo possa essere interessante affiancare il pensiero di Romano alle affermazioni riportate sopra.
In una intervista del 1999, si legge:
-Che cosa pensa della proposta di istituire per legge una “giornata della memoria” in ricordo della Shoah? Ritiene che sia opportuno commemorare nella stessa occasione anche le vittime del Gulag?
SR: Non sono favorevole a questa iniziativa. E non perché ritenga che il genocidio degli ebrei debba essere dimenticato: del resto non mi sembra affatto che la sua memoria stia impallidendo. Però leggo nella proposta la volontà di presentare lo sterminio come il necessario punto di arrivo del sentimento antiebraico che ha pervaso nei secoli l’Occidente cristiano. Insomma, con la celebrazione ufficiale di una “giornata della memoria”, si cerca di tenere mentalmente in libertà vigilata i colpevoli di ieri, visti potenzialmente come i colpevoli di oggi e di domani. Ma io non credo che le cose stiano così: fra la giudeofobia cristiana e l’antisemitismo razzista corrono grandi differenze.
-Però la vicenda delle persecuzioni contro gli ebrei è molto lunga e sanguinosa.
SR: Non c’è dubbio. Essa però va collocata in un contesto nel quale professare una religione minoritaria significava rischiare la vita. Per secoli gli eretici sono stati bruciati, musulmani e cristiani si sono combattuti spietatamente, i cattolici hanno massacrato i protestanti e viceversa. Ma la “soluzione finale” hitleriana è un’altra cosa, che va studiata separatamente.
-Lei pensa che nel XX secolo la condizione ebraica sia completamente mutata rispetto al passato?
SR: Alla fine dell’Ottocento in Europa le comunità ebraiche mostravano una forte tendenza a integrarsi nelle rispettive società nazionali. L’esplosione dell’antisemitismo tra le due guerre mondiali, poi culminata nello sterminio nazista, ha interrotto brutalmente questo processo, ripagando nel modo peggiore gli sforzi di assimilazione degli ebrei. Ne ha invece ricevuto uno straordinario impulso il sionismo, il movimento per la fondazione di uno Stato ebraico in Palestina, che fino a quel momento era rimasto un fenomeno minoritario e velleitario.
-In fondo la storia aveva dato ragione ai sionisti.
SR: Non direi. Bisogna guardarsi da una visione determinista di tipo hegeliano, secondo cui il genocidio è stato lo sbocco inevitabile di un antisemitismo profondo che covava da sempre nella società europea. Non si può leggere la storia solamente in funzione di quanto è avvenuto, come se fosse un processo perfettamente razionale. Occorre invece indagare le cause specifiche dei singoli eventi, che spesso hanno un carattere contingente o addirittura casuale.
– Di recente lo storico britannico Eric Hobsbawm ha criticato l’uso della Shoah come “mito legittimante” da parte dello Stato d’Israele. Mi pare che ci siano evidenti assonanze con le tesi da lei sostenute nella “Lettera a un amico ebreo”.
SR: E’ abbastanza normale che due studiosi di storia condividano alcuni criteri d’interpretazione. Vorrei chiarire però che io non ho giudicato negativamente l’uso politico dell’Olocausto: l’ho semplicemente constatato, comprendendone anche le ragioni. La costruzione di uno Stato è sempre un processo difficile e pericoloso, tanto più nel contesto mediorientale. Non deve stupire quindi che Israele abbia fatto ricorso a un’arma dialettica così efficace. Tutte le nazioni hanno il loro mito fondatore. Casomai la questione riguarda l’ebraismo della diaspora, che è stato mobilitato al servizio di un’impresa di edificazione statuale.
– Perché a suo avviso questo costituisce un problema?
SR: Così si determina una condizione di doppia lealtà. In tutto il mondo gli ebrei si sentono cittadini dello Stato cui appartengono, ma la maggioranza di loro mantiene al tempo stesso con Israele un legame molto solido, che induce spesso a sottoscrivere anche le scelte politiche più discutibili di quel paese. Per il momento in Occidente la situazione non ha creato conflitti gravi, soprattutto perché lo Stato ebraico, dal 1956 in poi, è stato il più affidabile alleato degli Stati Uniti in Medio Oriente. Ma che cosa accadrebbe il giorno in cui Washington giudicasse prioritaria l’amicizia con il mondo arabo? In quale imbarazzo si troverebbe la comunità ebraica americana?
– Sempre nella “Lettera a un amico ebreo”, lei esprimeva il timore che l’insistenza sulla colpa collettiva dell’Europa per l’Olocausto potesse provocare reazioni antisemite. E’ ancora di quel parere?
SR: Non vedo ragioni per modificare il mio punto di vista. Mi preoccupano per esempio le azione intentate contro banche e compagnie assicurative che incamerarono i beni degli ebrei perseguitati. A oltre mezzo secolo di distanza, mi sembra abnorme chiamare a pagare società che hanno cambiato azionisti, amministratori, clienti. E’ l’equivalente, sul piano economico, del principio per cui la Germania e la civiltà cristiana sono sempre responsabili per l’Olocausto. Ma quando si vuol tenere in eterno sul banco degli accusati una cultura intera, c’è il rischio che gli interessati finiscano per ribellarsi.
@ Galbiati
L’intervista di Romano è da accostare – sempre in una prospettiva di studio e di approfondimento – a questo scritto di Franco Fortini, che avevo citato in un mio scritto del 1999 per l”Associazione culturale IPSILON di Colgono Monzese (poi rimasto inedito), NELLA ZONA GRIGIA DEL REVISIONISMO STORICO, Incontro – dibattito con Pier Paolo Poggio:
autore di Nazismo e revisionismo storico, Manifesto libri 1997:
Franco Fortini, da Corriere della sera, in “Extrema ratio”, pagg. 108-115, Garzanti 1990
E ogni volta che toccai argomenti in qualche modo relati a Israele ebbi a sentirmi rifiutato e contestato (e proprio dal direttore o almeno per sua bocca) quel che avevo inteso scrivere. D’altra parte l’interesse a diffondere la storia del sovrano buono e dei suoi mali consiglieri e del direttore sopraffatto dai vice direttori fa parte dei fondamenti di qualsiasi management e mi pare se ne trovi già traccia nei poemi omerici.
Quando il presidente del Bundestag fu costretto alle dimissioni per un discorso sulla Schuldfrage tanto coraggioso quanto, o così parve, inopportuno e molto ne parlarono i giornali, scrissi un articolo e lo portai personalmente al direttore invece che al responsabile della Terza Pagina perché, gli dissi, mi pareva toccare un tema che, se a Jenninger era costata la presidenza, a lui avrebbe potuto costare il posto. Infatti me lo respinse. Non molto prima sorte analoga aveva avuto un intervento dove, a proposito della scomparsa di Primo Levi, rammentavo come diversa dalla sua la mia opinione circa la “unicità” dello Shoa (la parola “olocausto” mi ripugna, mistico-dannunziana quale è). Forse non ero ancora informato che qualsiasi dubbio su quella unicità e singolarità sarebbe stato considerato equivalente a complicità con il terrorismo mediorientale. Lo trascrivo, insieme ad un appunto di allora.
«Caso Jenninger, crimini nazisti, consenso di massa. Di quel che l’ex presidente del Bundestag avrebbe dichiarato, non so più di quanto i giornali hanno scritto. Avrebbe, fra l’altro, affermato che il nazismo aveva goduto del consenso della maggioranza dei tedeschi. Un incidente protocollare, il suo; come di chi avesse indossato calzini a losanghe rosse e blu per esser ricevuto in Vaticano. O un trionfo della ipocrisia internazionale. Traduciamo: il nazismo possedeva profonde radici culturali, precedenti la propaganda hitleriana.
«Due anni fa, venne recitato a Milano il testo teatrale L’istruttoria di Peter Weiss, montaggio di verbali di un processo contro criminali nazisti celebrato a Francoforte. Una istituzione culturale tedesca mi invitò a parlarne in pubblico. Scrissi il mio intervento e ritenni opportuno mostrarlo, per un parere preventivo, a chi me lo aveva richiesto. Il mio cortese ospite mi informò di un vivo dibattito che ignoravo, allora in corso in Germania, sulle tesi cosiddette revisioniste, sostenute dalla autorità dello storico Nolte (ma anche da personaggi, come si suol dire, infrequentabili) e avversate da una delle massime figure dell’attuale pensiero tedesco, Habermas.
«Alcune parti delle mie pagine – mi disse – avrebbero potuto venir interpretate come di appoggio alle tesi, politicamente equivoche, dei cosiddetti revisionisti. Questi avrebbero voluto combattere l’idea di una mostruosa (e quindi diabolico-divina) singolarità storica dello sterminio nazista degli ebrei e accreditarne una di sostanziale identità (per barbarie se non per metodo) fra quelle ed altri grandi massacri di popolazioni civili, inclinando ad associare a quelli nazisti i crimini dell’era staliniana, anzi, di tutti gli eventi successivi all’Ottobre 1917. Quanto
a me, oltre ai grandi eccidi di Amburgo, Dresda, Hiroshima e Nagasaki, ricordavo il macello di milioni di slavi compiuto dai nazisti e, più in genere, la distruzione di popoli interi e culture compiute dal colonialismo e dalle rivoluzioni industriali dell’Occidente. Non fa grande differenza sopprimere due generazioni di esseri umani in cinque o in cinquant’anni.
«Convenni col cortese interlocutore, tolsi, attenuai. Ma quel che pensavo allora, ancora oggi lo penso anche se mi dispiacque sapermi in disaccordo con chi tanta maggiore autorità della mia aveva nell’argomento, cioè un uomo dall’altezza intel-
lettuale e morale di Primo Levi.
«La questione è quella delle radici dei sistemi autoritari. Finché ci si limiterà a parlare di “personalità autoritaria”, in termini di sociologia freudiana, temo si farà poca strada. Si ridefiniscano le nozioni di consenso, di democrazia rappresentativa, di finalità della politica; si cerchi di farlo, evitando le sedi (che non sono solo i parlamenti e i mass-media) dove le menzogne siedono in scranno, convenzionali e necessarie. Per questa periodica e quindi relativa e provvisoria “verifica del linguaggio” si discriminino gli interlocutori e i destinatari con un atto preliminare, che è già politico; e non si pretenda ad una ingannevole universalità. Penso ad alcuni nodi della riflessione storico-politica, che porta i nomi (simbolici, naturalmente) di Arendt, Bloch, Merleau Ponty, Adorno, Lukàcs, Sartre, Weil, Althusser, Bateson, Marcuse, Foucault. Quella della generazione che
nel ventenni o successivo alla guerra si interrogò sul cinquantennio precedente. Rimuovendo (non senza qualche buona ragione) quelle “letture del mondo”, il pensiero successivo si è però guardato dal sostituirle con altre interpretazioni. Ha esorciz-
zato un mezzo secolo, nella illusione di possedere così le chiavi del successivo. Nei confronti di una storia intollerabile ha emesso una propria “dichiarazione di inesistenza”, degna di Alicenel Paese delle Meraviglie.
«Per questo i discorsi di un Jenninger (e dei suoi critici) suonano, al di là delle loro ottime intenzioni, curiosamente infantili alle orecchie di una generazione avviata, come la mia, allo Exit. Forse siamo rimbambiti (o imbarbariti, è lo stesso). Udendo quei discorsi, il gesto di insofferenza, seppure inevitabile, è inutile; come certo è ridicolo quello che ho compiuto, poche righe sopra, rimandando ad una qualche bibliografia. Presuppone viva una decrepita illusione e cioè che gli “addetti” possano mediare le loro riflessioni e letture ai “non-addetti” quando invece questi ultimi sono essi, i consumatori della informazione di massa e illusi di partecipare direttamente alla menzogna cerimoniale, coloro che si alzano indignati alle parole di Jenninger, reagendo insomma secondo uno dei due o quattro modelli di formule accettate come tollerabili. Avete notato come quelli che dibattono in TV sono sempre ben preoccupati di rispettare le regole della tolleranza ideologica? Anche quelli che si alzano e se ne vanno se odono quelle che loro paiono inaccettabili enormità, lo fanno (ma in genere non lo fanno) con un gesto-parola, come fossero rappresentanti di una nazione all’ONU e non già perché personalmente indignati. Laddove chi gridasse
“Bugiardo!” o “Buffone!” sarebbe solo considerato un maleducato.
«Eppure, qualche sussidio bibliografico … Qualche anno fa alcuni cosiddetti “nuovi filosofi” francesi ebbero un momento di volgarissima fama per certi loro libri dove si dimostrava che le grandi menti della Germania dell’età di Goethe e Hegel e fino a quella di Marx incluso erano le orribili madri dell’antisemitismo, del nazismo e del comunismo staliniano (equiparati tra loro, per non creare troppi problemi a chi deve solo annusare il vento che tira). Erano sciocchezze. Però servirono, anche da noi, ad un preciso programma di demoralizzazione ideologica rivolto alla generazione degli anni 1967-1973. Dopo di che, eseguita la bassa bisogna, quei filosofi furono rimandati alle loro cattedre o redazioni.
«Parlare del consenso della maggioranza dei tedeschi verso la politica hitleriana, almeno fino al 1942; e di quella della maggioranza degli italiani verso il fascismo, almeno fin verso il 1938; e della maggioranza dei sovietici per quella staliniana,
almeno fin verso la fine della guerra, pone interrogativi cui non è facile rispondere. Ci si avvedrà che una cultura, se non del nazismo, certo introduttiva al nazismo, “dai romantici a Hitler” (titolo di un remoto saggio dell’inglese Peter Wiereck) esisteva, eccome, e non coincideva con quella dei portavoce o dei
portapenna delle S.S. ma di tutta una parte della grande cultura tedesca dall’età romantica a quella guglielmina e nella quale rientravano anche le massime figure dell’umanesimo decadente, George o Rilke o Mann o Gundolf o Spengler o Junger.
«Non è forse questa una chiamata in correità di tutta l’eredità culturale europea? Di quel che abbiamo di meglio? Come è stato possibile che si sia giunti dove si è giunti? Chi è il responsabile, qui? Subito dopo la guerra, a fosse aperte, ce lo siamo chiesto.
Oggi, mentre continuiamo a scoprire inimmaginabili fosse comuni, accettiamo che la storia del secolo, cioè la nostra vita, ci sia raccontata come una favola di burattini, i buoni qui e i cattivi là, tutto chiaro.
«I bambini, credo lo sappiate, non sono portati dalle cicogne. La storia degli uomini non è un parlamento di brava gente. Quello Jenninger voleva essere (che dico: certo era) un signore dabbene. Ha avuto la dabbenaggine di dire quel che pensava e non avrebbe dovuto dire. Ma non innocentemente si diventa così autorevoli personaggi. Peggio per lui. Contrariamente a quel che alcuni suoi critici hanno detto, quel che pensava e dichiarava era probabilmente cauteloso, circonlocutorio, generico. Se non si provvede, non già a dire o a scrivere (che serve a poco) ma a pensare anche in luogo suo e dei milioni dipersone dabbene e di media buona coscienza, allora sarà tanto peggio per noi».
Sarebbe bastato correggere con due o tre parole prese dal repertorio della ovvietà e quelle righe sarebbero state pubblicate senza difficoltà. Naturalmente, posso dirlo
perché mi faccio volontariamente più ingenuo di quanto non sia e fingo di non sapere il senso e avviso che il rifiuto voleva avere, qualcosa come il gatto morto buttato
sulla soglia di casa. Quel che oggi, in quelle mie righe, mi urta, non è già quanto vi è detto ma quanto non vi è detto o è appena accennato o sottinteso. Al limite,
uno potrebbe parlare di rose e di nuvole invece che di Intifada e, nondimeno, introdurre nelle forme sintattiche o nelle scelte lessicali qualcosa che ferisca l’ordine più gravemente di un appello alla insurrezione. (Le polizie, manifeste o segrete, di tutto il mondo, queste cose le hanno sempre sapute).
Sono probabilmente il solo autore del mio paese che a settantadue anni di età scrive un articolo inaccettabile per un grande quotidiano indipendente. Di che insuperbire.
P-.s.
NELLA ZONA GRIGIA DEL REVISIONISMO STORICO, Incontro – dibattito con Pier Paolo Poggio:
autore di Nazismo e revisionismo storico, Manifesto libri 1997
si legge qui:
https://www.poliscritture.it/2019/01/26/nella-zona-grigia-del-revisionismo-storico/
Con il problema della giornata ufficiale si è aperto un cesto di vipere mica male.
Provo a tirarne fuori qualcuna a caso:
– una discriminante sul giudizio sul nazismo è sempre stata la concezione di ‘evento eccezionale, patologia irripetibile’ che ci viene venduta da tutti i perbenisti di turno e soprattutto da tutti gli organi (di stampa e visivi); laddove non faceva che portare avanti, a volte in mondo estremo ma non eccezionale, culture e comportamenti ben radicati in tutto l’Occidente, non ultimi i campi di lavoro come caso estremo dell’estrazione di pluslavoro.
– i simpatizzanti aperti come il re d’Inghilterra, poi per questo degradato a Duca, erano solo la punta di un iceberg che comprendeva negli USA i fratelli Dulles e nonno Bush e altrove il fior fiore della nobiltà più o meno blasonata; e gli stermini di popolazioni erano abitudini ben recenti, non solo nei soliti Stati Uniti ma in tutta Europa, e non solo verso i colonizzati ma anche verso gli stranieri a cavallo dei confini, come sanno gli sloveni massacrati nei campi di sterminio italiani vicino a Trieste (e di cui le foibe sono state, in piccolo, il rovescio).
– e chi come me ricorda ancora gli anni del dopoguerra, coi fascisti che organizzavano manifestazioni di massa per Trieste, ricorda anche il permanere annoso ed urticante di una mentalità quasi cultura che solo la pigrizia e la fretta indotte dal ‘miracolo economico’ hanno poi dilavato senza negarla e cancellarla.
E devo dire che questi echi mi tornano prepotenti in mente quando sento oggi parlare dell’Ucraina ‘bastione dell’Occidente’ o del genocidio di Gaza come ‘giustificata reazione’
-e ancora mi chiedo, oggi come allora, perchè dalla giornata della memoria sono stati esclusi il milione (? non sappiamo la cifra esatta, come del resto quella della Shoah è una cifra dichiarata) di zingari e, perchè no, l’altro milione di comunisti e perchè no, anche il mezzo milione di omosessuali nei campi. E a loro, e ai soli ebrei della diaspora darei la parola, non un giorno solo.
“È una cifra dichiarata”, e cosa dovrebbe essere, di grazia, un mausoleo con faldoni in ordine alfabetico? (e i morti palestinesi, basta “dichiararli” o bisogna contare i corpi a una a uno da parte di una speciale commissione creata ad hoc?).
“Ai soli ebrei della diaspora darei la parola”; gli altri, quelli emigrati in Israele, non ne hanno più diritto suppongo, non essendo più abbastanza vittime da suscitare compassione.
“La bocca sollevò dal fiero pasto”.
A proposito della denuncia del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia (CIG) dell’Aia contro Israele per genocidio…Pensieri di altri tempi…
SEGNALAZIONE
da Franco Fortni, Disobbedienze I, manifestolibri, 1997