L’intelletto delle erbe

Prove per un approccio ecocritico ai versi di Fortini: Una obbedienza

Ripubblico in versione completa questo importante saggio già comparso   nel n. 9 cartaceo di  Poliscritture (gennaio 2013) ma mutilato di alcune importanti note. [E. A.]

di Marcella Corsi

il mio desiderio è un albero che supera il cielo
tutto da una conchiglia – Erasmus aveva
le sue ragioni – minuscole nel fango primordiale
di oceaniche grotte di perla poi vegetali essenze
dotate di respiro e pinne e ali e piedi (chissà
se Katherine pensava a Darwin quando scriveva
di conchiglie e grotte di perla)
lentamente viaggiare
serpeggiando da giovani piante per sentieri di radici
per riuscire a sentire quel che il seme capisce
inventare nuovi usi per vecchi
strumenti tenendo a mente i due millenni
che servirono ad un seme per far crescere
la più celeste delle imponenti sequoie
poi converrebbe chiedersi perché le piante
siano tanto fissate con il sesso, perché
si prendano la briga ogni volta di produrre semi
come sessuati non essiccare, come asessuati
disseminarsi in spore e radicare: così le felci
si pensava rendessero invisibili
chi possedeva i loro invisibili semi
a mezzanotte raccolti sui piatti di peltro della notte
che tagliava la mezza estate –
nessuno rida delle invisibili
diluizioni che guariscono
nascosto nel cuore di una mela vive un frutteto

L’ interesse che da sempre nutro per la vita vegetale è stato di recente stimolato – oltre che del volume1 di Jonathan Silvertown da cui ho tratto spunto per i versi che precedono – dalla particolare ottica di lettura delle opere d’arte proposta dall’ecologia letteraria.
E’ quest’ultima un metodo che si situa tra ermeneutica e attivismo, uno strumento con cui l’etica ambientale si esercita criticamente sui prodotti letterari, proponendo un’idea di cultura come strategia di sopravvivenza, motivata da precise esigenze di rifondazione culturale, in continuo esercizio di creatività.
Sul versante storico˗ermeneutico si tratta di un approccio volto ad acquisire consapevolezza dei valori ecologici – in senso affermativo o negativo – di cui un’opera, e un autore attraverso le sue opere, si fa portavoce. Da un punto di vista etico˗pedagogico essa vede nel testo letterario, e più in generale nell’opera d’arte, anche uno strumento di alfabetizzazione ambientale volto ad orientare positivamente il modo con cui gli umani si rapportano al mondo non umano2.
Non di rado scorrendo versi di Fortini ero stata colpita dalla rilevante presenza in essi del mondo animale e di quello vegetale3. Ho voluto rileggere quei testi alla luce dell’ottica proposta dall’ecologia letteraria. Forse solo un modo per riproporre versi che mi avevano colpito.
Rimango per ora nel cerchio ristretto delle poesie raccolte nell’80 sotto il titolo di Una obbedienza, affrontando i testi per quello che, anche loro malgrado, sembrano dire e cercando di liberarmi dai condizionamenti che gli scritti di critica e di passione politica potrebbero esercitare.

Un’ora esiste conosciuta a molti
nera e rada. Che nella campagna
le bestiole abbandonano la cerca,
lenta è ogni persona, gli edifici sono chiusi.
Dico della notte di luglio se è tutta muta.
Hanno ripreso a tremare nella loro tana sparuta
le famiglie dei ricci, vittime sotto le stelle
di raggi ultraterreni o feroci veleni,
cieche alle alte cose che a noi paiono belle.
O rive smorte, incanti grigi, ire disseccate.
Capovolto il capo nei sonni ostinati
la generazione dei dormienti precipitando
sente che mai potrà destarsi.

(1975-’77)

Leggendo Una obbedienza, prezioso libretto a cura di Giorgio Devoto che ripropone 18 poesie del periodo tra il ’69 e il ’79 prefate da Andrea Zanzotto4, alcuni testi colpiscono per l’attenzione partecipe, quasi affettuosa, portata ai piccoli animali della campagna e per la precisione delle citazioni arboree.
In questo Primo dei Cinque recitativi iniziali, entro l’irriducibile pedagogismo di taglio etico˗apocalittico che spesso connota i versi del nostro, s’affacciano bestiole che a sera terminano la loro ricerca di cibo e materiali utili alla riproduzione della vita e si ricoverano nelle tane grandi appena quanto basta (ma l’aggettivo scelto richiama anche la paura che li fa tremare).
Esse sono ‹‹cieche alle alte cose che a noi paiono belle›› e vittime dell’azione umana sull’ambiente naturale (a questo mi sembra rimandino i ‹‹raggi ultreterreni›› e i ‹‹feroci veleni››. Si badi a come l’autore, utilizzando il verbo parere, lasci aperta la possibilità – la suggerisca quasi – che quel che a noi sembra bello poi bello in realtà possa non essere. Per quanto affiancata all’immagine della cecità animale, questa messa in dubbio della percezione umana del reale mi sembra significativa.
Se quel noi avesse un riferimento più ‘stretto’, non all’umanità nel complesso ma agli uomini che sono in condizione di poter pensare al bello, allora quelle bestiole e quei ricci rimanderebbero allegoricamente ai molti umani che altro non possono che lavorare per riprodurre le condizioni della loro esistenza in vita (si capirebbe allora perché già alla prima lettura quegli animali avessero, conferito loro dal poeta, odore d’umana famiglia).
L’ipotesi pare confermata dai versi seguenti, dove natura, mondo culturale e sfera della bellezza in particolare, ed infine il proprio personale sguardo sulla realtà si presentano contraddittori o, come spesso in Fortini, in compresenza di contrari (‹‹rive smorte, incanti grigi, ire disseccate››). E soprattutto pare, negli ultimi tre versi, che la generazione consapevole della propria incapacità di destarsi anche in avvenire sia senza dubbio quella degli umani, anch’essi, in modo diverso da quello degli animali, ostinatamente dormienti.
E’ però qui rilevabile, mi sembra, la percezione di una stretta interrelazione tra natura, animali e uomini, una compresenza che implica reciproci condizionamenti: non solo, come espresso nei versi, dall’azione umana al mondo vegetale e animale ma anche implicitamente all’inverso, dalla natura nel suo complesso sull’uomo, la sua vita, le sue convinzioni.
Incontriamo uno sguardo attento e partecipe sugli animali anche nel Quinto recitativo5, in Il nido6, in La nostra Regione7. Perfino in Two-Step, dove non ce lo aspetteremmo. Invece ecco rospi e altre bestiole che stupefatti vedono atterrare aerei, e abbài di cani da guardia e alla fine animali che… contemplano le stelle8.
Nel Terzo recitativo (e ricordiamo che i Cinque recitativi9 sono nel libretto in posizione preminente, iniziale) colpiscono i due versi in cui al ‹‹paese delle volpi parlanti›› viene accostata ‹‹l’impossibilità di capire definitiva››, questa degli umani, giacché pochi versi più sopra ‹‹lo spazio tra le persone del gruppo›› era diventato ‹‹come una pelliccia››10.
Nel Quarto, che in prima persona plurale afferma la necessità di non sfuggire alle responsabilità sociali e soprattutto alla ricerca della verità, non passano inosservate un paio di domande e una finale osservazione: ‹‹E non guardate dove le stelle si riproducono? Non volete/ nemmeno osservare le piccole persone/ che stridono sotto le nostre scarpe?/ Come l’agonizzante diventa un sasso lo sapete››.
Vi sono coinvolti stelle, sassi, insetti e umani agonizzanti, in una compresenza tragicamente interrelata, in una condivisione di condizione che tende significativamente al meticciato. Le stelle si riproducono come umani ed animali, sotto le scarpe non insetti stridono ma ‹‹piccole persone››, e l’umano agonizzante diventa sasso. E’ la possibilità della metamorfosi che s’intravede nella mescolanza. E nella commistione la centralità umana sembra essere messa (finalmente) in discussione. Certo il poeta si rammarica che possa accadere il ‘diventar sasso’ di un uomo ma prende atto della ‘verità’ che questa ammissione contiene. Il valore dell’umano può dunque non prevalere sul resto del mondo.
Un’obiezione: e se quelle piccole persone che stridono sotto le scarpe non fossero minuscoli viventi animali ma umani indifesi e oppressi? E’ probabile che entrambi i significati siano presenti nei versi. Ma, qualora (cosa che non credo) si dovesse scegliere una sola tra le due interpretazioni, è improbabile che si possa escludere quella animale. Credo di poterlo dedurre dalla citazione con cui la poesia inizia: ‹‹Perché alla fine che cos’è/ tutto il genere umano a paragone/ della natura e della universalità delle cose?››.
Un cenno merita, rilevabile nei versi, la precisione nel nominare le essenze arboree, che dice almeno di frequentazioni, di attenzione e competenza nello specifico. Non si incontrano alberi in Una obbedienza ma noci e aceri, pini e agrifogli, il gattice, il cipresso, le ginestre, l’elce, il leccio. E anche, o meglio, ‹‹lecci tenaci›› (in La nostra regione11), ‹‹larici spirituali›› (in New England12). E poi ‹‹prati acuti/ dove passa uno che non capisce›› (Per un sarcofago13). Così, mentre gli alberi – come d’altronde qui il mare – nella percezione del poeta acquistano vicinanza e quasi si umanizzano, viene il dubbio che l’acutezza di questi prati non possa essere solo questione di punte d’erbe o di steli spinosi14
Quando fosse allegoria (come con tutta probabilità è), sarebbe comunque significativa la scelta dell’immagine naturale. Di ‹‹intelletto delle erbe›› Franco Fortini parlerà esplicitamente nella prima delle poesie della prima sezione di Composita solvantur, e più avanti (in La notte oppresse…) definirà la profondità dei fiumi come ‹‹il luogo dell’intelligenza››.
Così l’affermazione finale (‹‹quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di molti››) non sembra contenere paura o tristezza ma, entro un’idea di compresenza nel reale, recare conforto e pacificazione15.
Torna in mente l’augurio finale del Terzo recitativo (‹‹Il mancato piacere definitivo/ si mutasse in acquisita intelligenza./ E l’acquisita intelligenza si mutasse/ in lode della creazione.››) e la già citata citazione posta all’inizio del Quarto. Il fatto che quest’ultima sia, per esplicita dichiarazione dell’autore16, una citazione immaginaria la rende, credo, ancora più significativa.
Concluderei questa breve prova di lettura ecocritica preliminare con i versi iniziali e finali del Quinto recitativo, che per primi scorrendo il volumetto mi hanno affascinato.

La luce del gran nuvolo stupefacente
e gli agrifogli e i ghirigori! Ormai
anche i visitatori più assorti avranno compreso
quanto la sera è inevitabile.
L’uccello piangeva dalla vetta del gattice
i rapiti dal nido inconsolabile
[…]
visitatori pellegrini ospiti!
Infilate le maglie, perdete le ricche ginestre,
scendete verso le auto, non vogliate sostare
dove lo stagno detto delle libellule
è discarica assoluta, non chiedete
il doloroso segreto
del serpe mozzo, dell’opaca salamandra.
Furono, sì, sono, saranno; ma fiera la luna
è rapidissima lassù e possiamo, addio,
tra elce e leccio, tra cipresso e leccio
senza suono toglierci, senza pena
dalla complessiva immagine.

Nessun tentativo di rifugiarsi nella natura, nessun riposo dello sguardo. Stupore ammirato di fronte alla magnificenza e all’inevitabilità dei fenomeni naturali, consapevolezza delle contraddizioni che anche qui si mostrano più pesantemente umane che animali (pesantissimo quell’aggettivo assoluta attribuito alla discarica che lo stagno delle libellule è diventato, mentre lo sguardo accoglie partecipe il dolore inconsolabile dell’uccello privato dei piccoli), una residua possibilità di comprensione per chi sia disposto a guardare.
E nell’invito ai visitatori mi colpisce il verbo perdere riferito alle ginestre, ricche – credo – solo dei molti fiori e tuttavia chiaramente preziose.
Erbe e animali nella loro partecipe, sapiente, preziosa (apparente) immobilità rimangono fermi, a sera, dove sono. Ci sono, ora come nel passato, ora come nel futuro. Nei secoli dei secoli, verrebbe di dire se non avessimo ora una consapevolezza diversa della fragilità degli ecosistemi. Al di la della differente percezione delle fragilità naturali propiziata da trent’anni di distanza tra i versi di Fortini e l’oggi, questo rimanere di piante, acque e animali dolenti promana forza, induce fascinazione. Si collega fermamente alla già sottolineata ‹‹tenacia dei lecci››, alla ‹‹spiritualità dei larici››.
Ma visitatori, ospiti o pellegrini possono approfittare del movimento rapidissimo della luna per muovere anch’essi, e perdere, non sostare, non chiedere.
‹‹Possiamo – ricompare il noi ad infiltrare (o forse ad attestare) l’autore tra i visitatori – senza suono toglierci, senza pena dalla complessiva immagine››. Non sarà così, non più, a mio parere, in Composita solvantur17.

E’ probabile che una lettura intertestuale porterebbe anche qui ulteriori suggestioni. E certo sarebbe assai utile seguire alcuni temi della poesia del nostro autore (quello del sonno per esempio) presenti anche nei versi sopra riportati. A me però ora preme sottolineare una diversa possibilità di leggere il Fortini poeta, quella operata alla luce di un importante strumento interpretativo e ‘formativo’ quale mi sembra sia l’ecologia letteraria. E insieme segnalare l’interesse che i versi di Fortini possono avere per chi tale strumento padroneggi meglio di me.
Con tutta evidenza sarebbe opportuno concentrare l’attenzione su Composita solvantur, giacché, come notò Roversi18, ‹‹è quando si fa giusta attesa “la vergogna di vecchiezza” che il pubblico fustigatore, il sapiente senza livrea arriva a disporre dopo la lunga macerazione e per intero della propria parola poetica››.
Forte stimolo in questa direzione deriva da poesie come Qualcuno è fermo…, Le piccole piante…, Sono nella stanza, Stanotte…, Saba, Compiendo settantacinque anni, Sopra questa pietra…, Ruotare su se stessi…, La notte oppresse…19. Noto qui parenteticamente che sette di nove delle poesie di Composita solvantur che mi sono sembrate le più significative ai fini di una lettura ecocritica sono state titolate con lo stesso criterio adottato per gli Otto recitativi, cioè non hanno titolo (condizione riservata in Una obbedienza ai soli Cinque recitativi).

Ritornando ai testi di Una obbedienza vorrei riprendere qui, per concludere, alcune delle deduzioni man mano emerse dalla lettura dei versi ed esplicitarne brevemente la rilevanza in termini ecocritici.
Significativa è sembrata nel Primo recitativo la messa in dubbio del valore assoluto della percezione del reale operata dal noi fortiniano, confermata dalla connotazione positiva attribuita a piante e animali riscontrabile in diverse delle poesie riportate.
Ancora di più forse rileva quella condivisione di condizione quasi meticcia di astri, sassi, animali e umani notata nel Quarto recitativo (ma, a ben vedere, anche nel Primo), una compresenza interrelata che ha in sé la possibilità della metamorfosi e sembra mettere in crisi la centralità dell’umano entro il complesso della realtà dei viventi: il modello antropocentrico avviato a decostruzione.
Potevamo aspettarcelo fin dall’inizio che lo sguardo poetico di Fortini transitasse senza intoppi dall’attenzione convinta ai problemi dei deboli entro la società ad una considerazione partecipe anche della condizione dei deboli entro il mondo naturale. L’approccio etico ve lo predisponeva. La messa in discussione dell’io lirico per un noi civile da declinare nei più ampi modi non poteva non estendersi anche al complesso dei (nei più vari modi20) viventi entro l’ambiente naturale.
Proprio però la messa in discussione, qui forse solo iniziale, della centralità dell’uomo entro le differenze presenti nell’universo dei viventi è insieme premessa indispensabile e sintomo importante di un atteggiamento ecologico, che fa cioè prevalere un discorso sull’oikos (casa, ambiente nel quale si vive) rispetto ad uno centrato sull’ego. D’altronde la consapevolezza delle contraddizioni dell’azione umana sulla natura è più d’una volta espressa nei versi citati in questo scritto. Ma qui mi sembra ci sia qualcosa che va oltre una generica denuncia dei guasti provocati dalla presunzione degli umani.
Quello che qui avvertiamo in modo non del tutto implicito in Fortini è un ‹‹umanesimo non antropocentrico››21, capace di immaginare (o comunque cercare) strategie di sopravvivenza culturale in praesentia naturae: senza trascurare il legame stretto tra cultura degli uomini e sapienza della natura.
Anche la virile, quasi serena consapevolezza del finire ‹‹cibo e bevanda di molti›› assume una diversa sfumatura entro questa cornice. C’è, certo, ad aiutare la fiducia che solo quanto di sé si consuma debba finire a quel modo, ma c’è pure quella particolare sdrammatizzazione della morte che si guadagna spazio nella mente di chi si pone in una prospettiva ecologica.
Sentire la cultura come un percorso etico finalizzato alla creazione di un patrimonio comune, inclusivo, in continua autorevisone. Essere ‘fedeli’ ai figli più, od oltre, che ai padri. In alcune caratteristiche dell’umanesimo non antropocentrico che connota la cultura ambientale come strategia di sopravvivenza mi sembrano riconoscibili intenzioni e pratiche del poeta e dell’uomo Fortini. Riletta in quest’ottica, la sua poesia trova nuove direzioni di attualità.

Note

1 Jonathan Silvertown, La vita segreta dei semi, Torino, Bollati Boringhieri, 2010. L’ultimo verso deriva direttamente da un proverbio gallese.
2   Serenella Jovino, Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, Milano, Edizioni Ambiente, 2006. L’ecolologia letteraria può definirsi anche ecocritica (dall’ inglese ecocriticism).
3 Sembra d’altronde che erba e animale siano tra i lemmi a più alta occorrenza in Fortini (Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini Gadda Pagliarani Vittorini Zanzotto, Roma, Quodlibet, 2007, p.105.
4 Franco Fortini, Una obbedienza, Genova, S. Marco dei Giustiniani, 2005 (I ed. 1980). In copertina il sottotitolo indica 18 poesie 1969–1997, ma è evidentemente un refuso per 1969–1979 (Fortini essendo morto nel ’94). Lo conferma anche la lettera dell’autore al curatore riportata a premessa della pubblicazione, la cui prima edizione è appunto del 1980.
5 Del Quinto recitativo si tratta più avanti nel testo.
6 A metà marzo fra il il muro e il tetto/ certi uccelli di becco ostile giallo/ nervosi miseri fanno di stecchi un nido./ Quando è notte molto alta e non dormo/ so che stanno dietro il muro i loro nati./ […] Dentro il nido ignoranti esserini/ alla frenesia della madre tremeranno./ Griderà la fame e tutto insegnerà la madre./ Nell’aria inorridita voleranno/ e non sapranno nulla di più mai./ […]. La chiamata in luce che degli uccelli viene fatta in Il nido mi sembra davvero si configuri come una trasposizione allegorica di umane contraddizioni.
7 Lo spazio della nostra regione basta alle volpi/ che sono scarse e si cibano di piccoli uccelli/ dove al sole la discarica esprime/ della politica invernale i residui e si scorge/ il puntiglio dei passeri e l’incertezza dei gatti/ lo spazio prescritto percorrere./ […].
8 […] e fuor della sala fra poco/ saltellare lampadine/ perché presto disfatti/ i globi solenni dell’ovest/ e il canotto del guardiacoste a sussulti/ di lampi bianchi viola e i quadrigetti/ ansiosi sulla direttrice/ d’atterraggio a stupefare rospi/ e altre bestiole tra l’erbe./ […] Sera del sabato cena del sabato./ Tutto qui e i canili dei recinti e gli abbai dai depositi./ […] Ah ma noi vivremo/ creature umidi corpi vivremo sempre/ la polizia scherzava amore vivranno sempre/ gli aliti con noi dei motori verso i motel./ E il tic tac bianco viola del guardiacoste/ e le croci dei cieli che i nostri animali contemplano/ e dormiremo insieme/ nella notte del sabato sempre nella pia notte.
9 I Cinque recitativi con cui si apre il libretto diventano otto (vi si aggiungono La nostra Regione rinominata Lo spazio…, New England e un testo nuovo) e si posizionano al centro della raccolta quando vengono inseriti in Paesaggio con serpente (Torino, Einaudi 1984), che riprende tra le altre 16 delle 18 poesie di Una obbedienza. L’ordine dei cinque recitativi iniziali entro gli otto di Paesaggio con serpente è leggermente diverso (lo specifico nel caso qualcuno possedesse Paesaggio con serpente e non Una obbedienza): al primo posto viene posizionata quella che era La nostra Regione; al secondo e al terzo rispettivamente il Primo e il Secondo recitativo, rititolati a partire dalle prime parole del primo verso (operazione che viene effettuata su tutti i testi di questa sezione); Quello che era il Quarto recitativo occupa, con diverso titolo, il quarto posto degli otto; al quinto troviamo quello che era il Terzo di Una obbedienza; al sesto troviamo La luce del gran nuvolo…, che era in origine il Quinto recitativo; viene interposta una poesia non inclusa nel libretto del 1980, intitolata Come mai le foglie…; e da ultimo ritroviamo New England. Il titolo del librino del 1980 andrà a connotare l’ultima sezione della pubblicazione del 1984.
10 [..] Camminiamo fra i noci tutti gialli/ e gli aceri rossissimi./ Conoscendo i nostri vizi/ lo spazio tra le persone del gruppo/ diventa come una pelliccia./ [..] Verso Heathrow palpitazioni e luccichii,/ verso nord il paese delle volpi parlanti/ e l’impossibilità di capire definitiva./ [..].
11 [..] C’è chi dentro la mente si sente straziato/ perché è grave che il mare fiero, i lecci tenaci,/ il cigolio delle auto, il ragionare delle persone,/ tutto racconti di cose sparite/ che nessuno più attende./ C’è chi ne soffre sebbene soffrire non serva. I versi di La nostra regione finiscono sul tema del rapporto con il passato, o meglio con quanto del passato non è riuscito a diventare tradizione. Che fiero sia l’aggettivo scelto per definire il mare è però anch’esso particolare significativo nell’ottica che orienta questo scritto. Fierezza del mare, tenacia dei lecci.
12 Beninteso posso ancora guardare./ La finestra ha qualche lacrima. Il lume d’occidente/è alla vernice della parete. La sera/è la vertigine dei larici spirituali./ Dalla collina dei padri i pensieri già pensati/ mi guardano.// [..]. Aggiungo: certe volte non mi riesce di terminare la citazione dove sarebbe sufficiente: il verso successivo è così bello che non riesco a non copiarlo. Così qui. Dite: pur nella pochezza della mia analisi, non valeva la pena di rileggere questi versi?
13 [..] Ho l’età di mio padre e i sogni che rammento/ sono di errori rimediabili, consulti nei dizionari/ sono di dispute cavernose, di prati acuti/ dove passa uno che non capisce/ [..].
14 Devo dire che il seguito dei versi (uno che non ha nulla da capire/dove non c’è ragione ma solo infamia.), che ora rileggo, mi fa decisamente propendere per l’ipotesi della ‘spinosità’ di quei prati, ma ugualmente lascerei aperto uno spiraglio di possibilità all’altra…
15 Riporto i versi finali nella loro interezza: [..] Qualcosa mi è stato detto/ che debbo ricordare meglio: che/ quanto di me si consuma sarà cibo e bevanda di molti./ Non so se mette conto ritrovare tra le mie carte/ le precise parole della promessa.
16 Cfr. Franco Fortini, Versi scelti 1939–1989, Torino, Einaudi 1990, p. 448.
17 Questo scritto era, nelle intenzioni, premessa a un tentativo di lettura ecocritica dei testi di Composita solvantur. La chiusura in redazione del numero lo ha forzatamente autonomizzato, temo con risultati non particolarmente soddisfacenti.
18 Lo scritto di Roberto Roversi cui faccio riferimento, del 1998, è riportato in questo numero della rivista, a conclusione della rubrica Letture d’autore.
19 In Composita solvantur, rispettivamente alla pagine 7, 8, 10, 13, 17, 26, 54, 58, 59.
20 L’accenno alla vita delle stelle nel Quarto recitativo non mi sembra trascurabile nella direzione di ipotizzare nel nostro una percezione della “vita inanimata” niente affatto inanimata e irrispettabile.
21 Riporto in nota una sintesi della definizione che di umanesimo non antropocentrico dà Serenella Iovino: ‹‹un tipo di umanesimo esteso, capace di stabilire relazioni di prossimità costruttiva [..] con altre specie e con l’ambiente naturale. [..] basato sulla costruzione di identità flessibili e, in quanto tali, democratiche e dialogiche [..] (che) inventano un’etica del futuro a partire dal presente, inteso come com–presenza non dualistica di umanità e natura›› (Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, citato, p. 68).

1 pensiero su “L’intelletto delle erbe

  1. Grazie Marcella…l’ecocritica di alcune poesie, di mistero di natura e di impegno umano e politico, di Franco Fortini, la tua compresa, si rivela un vero saggio di ecologia profonda…
    Trascrivo altre poesie di F. Fortini, tratte dalla raccolta ‘Foglio di via’, con un messaggio profetico di tempi ancora più bui ma pure di una speranza da riporre nella natura e negli animali-guida

    LA ROSA SECCATA

    Dove ricercheremo noi le corone di fiori
    Le musiche dei violini e le fiaccole delle sere

    Dove saranno gli ori delle pupille
    Le tenebre, le voci – quando traverso il pianto

    Discenderanno i cavalieri di grigi mantelli
    Sui prati senza colore, accennando. E di noi

    Dietro quel trotto senza suono per le valli
    D’esilio irrevocabili, seguiranno le immagini.

    Ma il più distrutto destino è la libertà.
    Odora eterna la rosa sepolta.

    Dove splendeva la nostra fedele letizia
    Altri ritroverà le corone di fiori.

    LA SERA SI FA SERA

    La sera si fa sera,
    Tu non avrai compagni.
    Ed allora verrà
    La faina da te
    Per mettertipaura.
    Ma non prender paura,
    Prendila per sorella.
    La faina conosce
    E l’ordine dei fiumi
    E i fondali dei guadi
    E ti faré passare
    Senza che tu t’anneghi
    E poi ti condurrà
    Fino alle fonti fredde
    Perché tu ti rinfreschi
    Dai polsi fino ai gomiti
    Dei brividi di morte.

    Anche comparirà
    Davanti a te il lupo
    Per metterti paura.
    Ma non prender paura
    Prendilo per fratello.
    Perché il lupo conosce
    E l’ordine dei boschi
    E il senso dei sentieri
    E t’accompagnerà
    Per la via più leggera
    Verso un alto giardino
    Dove la luce é quieta.

    Il tuo posto é laggiù,
    Dove vivere é bello
    Dov’é il campo di dalie
    La collina dei giuochi.
    E laggiù c’é il tuo cuore.

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