Dove il crinale accarezza il sorriso del cielo

Sensibilità ecologista e sentimento della montagna nei versi di Gianmario Lucini

Una versione precedente di questo articolo del 9 settembre 2017 (in forma di opuscolo e con le immagini di Stefania Corti) é uscita nell’ottobre 2015 in Poliscritture (qui). [E. A.]

di Marcella Corsi

Gianmario Lucini è stato un poeta, un editore coraggioso, un critico attento, sensibile, un umanista, un animatore socio-culturale a tutto campo e… una persona assolutamente amabile. Soprattutto uno che vale la pena rileggere. La sua poesia in particolare è una poesia che aiuta a vivere.

Conosceva, amava e rispettava la montagna. E non di rado i suoi versi vi hanno fatto riferimento. In questa occasione vorrei rivisitarne alcuni ‒ tratte soprattutto da Istruzioni per la notte, l’ultima delle sue raccolte pubblicate ‒ sottolineando la sensibilità da ecologista che vi si legge: l’attenzione profonda alla natura, l’accoglimento nei confronti dei viventi tutti, un dialogo prezioso con il silenzio, un sentire ‘paritario’rispetto agli animali, talora il ‘sentirsi albero’, l’appartenere ad un paesaggio. E sempre, anche nei versi di maggior lirismo, il prescindere da ogni bamboleggiamento naturalistico.

La poesia di Gianmario è infatti, per sua stessa definizione, “poesia lirica”, che tuttavia “tematizza aspetti della realtà, pur nella sua crudezza. Il lirismo non è infatti soltanto poesia del cuore o dei buoni sentimenti ma è anche l’epica della coscienza, dei suoi conflitti e dei sentimenti che li agitano” ( traggo dalla nota che lui stesso premise a Vilipendio). Il fare poesia di Gianmario era “un appassionato inseguimento del reale” (utilizzo la definizione che di poesia dà Czeslaw Milosz in La testimonianza della poesia) che si esprimeva soprattutto in testimonianza, impegno, dissenso, proposta. Il sentimento della natura ne era parte. Le sue montagne ne costituivano l’indimenticata sorgente.

*

Qualcuno in rete paragonò Gianmario Lucini ai fiori d’altura che incontrava sulle sue montagne, organismi viventi capaci di resistere in situazioni ambientali molto difficili e insieme di “riflettere il sorriso del cielo” (guardare in faccia la realtà per quello che è e, nonostante tutto, riuscire a conservare vita e desiderio di condivisione). Bellezza in solitudine. Si evita di calpestarli se si può.

“Guanciali di gioia sulla pietra”. Così Gianmario definisce i piccoli fiori d’altura in una delle poesie incluse in Per il bosco (a p. 22), il volume più esplicitamente ‘ecologico’ tra le sue raccolte in versi.

Vi è forte l’ammirazione per la natura delle sue montagne: bella, tenace, silenziosa e nel suo silenzio epica, mossa dal vento ma ferma “a rammentare che la vita è soltanto un frammento di tenace poesia”.

Guanciali di gioia sulla pietra
dove il crinale accarezza il sorriso del cielo
nel silenzio passiamo i giorni dell'estate;
acceso il viola che trema nel vento
a rammentare che la vita è soltanto un frammento
di tenace poesia,
che la Storia è anche questa lontananza
che non conosce storia, di magnifici poemi
che non conoscono parole.
                                  
                                        (piccoli fiori delle alture)

E’ una natura quella di Gianmario, sapiente, emotivamente partecipata, preziosa. In questo testo mi sembra inoltre significativo il fatto che il noi del poeta Lucini… coincida con quello dei fiori.

Ritroviamo il fiore d’altura anche in una poesia di Istruzioni per la notte (la IX della sezione Istruzioni per l’ascesa). “Una gloria perfetta e assoluta”, così viene definito. Non c’è solo ammirazione, c’è partecipazione, e un esplicito, garbato, affettuoso invito al rispetto. Ecco le prime due strofe del testo.

Nel fiore dell'altura c'è una vita intera
partorita nel travaglio della luce
per un tempo d'acqua che sfugge tra le dita
una gloria perfetta e assoluta.

Tu lo eviti, se puoi e lo scarpone
poco innanzi o poco indietro fai cadere
e cade il tuo sguardo sul colore
di quella giovinezza, come fosse
a te soltanto rivelata;

[…]

Questo privilegio di una comunicazione significativa con la natura, con il suo silenzio (nominato anche negli ultimi versi di questa poesia) si rileva nella sua soggettiva, evocativa precisione in un brevissimo racconto che è in un’altra delle poesie di Istruzioni per la notte (non di rado le poesie di Gianmario sono narrative), questa nella sezione che ha lo stesso titolo della raccolta (a pag. 20).

A volte risalgo di notte dirupi
per sentieri a me familiari, a brine
a brezze gelate, al suono di torrenti
ed è come nascere a mondi paralleli
l’occhio alla ricerca dei segnali
al lume incerto della torcia elettrica

da buio a buio in un viaggio onirico
aggrappato a un chiarore o a un riverbero.

E quando intravvedo lontano il chiarore d’un rifugio
e confuse sagome umane
quasi m’opprime un rimorso
d’aver tradito a se stesso quel dialogo onesto
col silenzio della montagna
e non farne più parte.

Sulla soglia qualcuno mi osserva
come venissi da un sogno oltre tombale
o da un limbo senza morte né vita.

Poi varco la soglia e chiedo la cena
uno come tutti risucchiato dalla luce.

Nel rapportarsi alla natura in modo aperto e senza paure, specie se il cammino è notturno, si può nascere a mondi paralleli, si può instaurare con il silenzio della montagna un dialogo onesto, di quell’onestà che spesso le parole tradiscono. La ricerca di Gianmario Lucini è invece proprio quella dell’onestà, della verità, pur soggettiva, pur provvisoria.

Noto parenteticamente come gli interessi comunicare col lettore, farsi capire. E come sia la notte (metafora a mio avviso della realtà difficile, dolorosa) a permettere una comunicazione profonda, anche con se stessi: “[..] ci vuole la luce negra della notte/ e le sue fresche braccia che raccolgono/ ogni colore in un colore solo.// E forse parlerai con quello che eri/ o che volesti e che non sei mai stato”, per dirlo con i versi di un’altra delle poesie incluse in Istruzioni per la notte (p. 18).

E ancora (notte e silenzio che illumina): “Ama la notte e sarai sempre amato:/ ti brilleranno gli occhi e nella mente/ non avrai che silenzio, ogni pensiero/ al suo posto” ( Istruzioni per la notte, pag. 24).

Gianmario ha la consapevolezza di appartenere ad un paesaggio, quello delle sue montagne e del fiume che le lambisce. Ne è pervaso, trae da esso identità, e quel residuo di speranza che la coscienza dei tempi gli consente.

“Se una speranza ancora perdura/ è questo dolce degradare di colline/ verso il mare, il gracchiare di corvi/ i richiami dei gabbiani nel mattino/ terso di febbraio”. Così inizia una delle Elegie brissinesi ( in Istruzioni per la notte, a p.80). Altrove è “la carezza del sole che deterge lo sgomento/ per ciò che siamo e che potremmo essere. Il cuore/ oggi naviga sereno per un cielo nobilissimo” (questi versi sono in Vilipendio, a p. 83).

In questa direzione noto in particolare quanto afferma nei versi finali di un testo, in Istruzioni per l’ascesa (pag. 33), in cui parla della sosta in montagna:

[…] è il momento 
di sentirti parte del paesaggio, di volare
col cuore sopra il vuoto che ti colma
precipitare in alto fra le nuvole 
dove dorme il silenzio che ti attira. 

Saltano all’occhio gli ossimori: il vuoto che colma, il precipitare in alto. Ma la sapienza retorica del poeta non intralcia il suo intento comunicativo.

La poesia in cui mi sembra più esplicita questa pervasività del paesaggio, anche qui montano (in Istruzioni per la notte, p. 59) la riporto per intero.

Invocazione per il viaggio
La mia terra è la casa solitaria
della neve e della tramontana,
del sole e della vigna che risale
gli scoscesi pendìì della montagna.

Chiedo all’azzurro dell’Adda e ai poggi petrosi
di riposarmi dentro e con me viaggiare
per ricrearsi in altri luoghi e in altri segni,
in altri boschi, al canto d’altri uccelli

e ci conosceremo un poco e un poco potremo
tanta fiera bellezza rammentare
di lontano – perché ogni terra sempre
la terra prima e l’ultimo rammenta

nostro destino ‒.

Il poeta Lucini è consapevole di appartenere a questo paesaggio. Da esso trae ispirazione e forza. Ne è segnale, credo, anche la costruzione del testo, strutturato rigidamente in quartine.

Ed è consapevole di condividerlo, direi in modo paritario, con gli altri esseri viventi, animali e piante. In una delle prime poesie di Istruzioni per la notte parla di ”sottofondo spazio-temporale che ci accomuna all’animale” (p. 15), in un’altra, intitolata Racconto,qualche pagina dopo (p. 21) si legge: “[..] ci avviammo verso il passo stagliato nel cielo/ ancor cupo, come animali acclimatati all’asperità della montagna/ parte di un tutto che lento diveniva/ incontro alla gloria dell’alba”.

In montagna è più agevole mettere a fuoco i limiti degli umani, la lontananza ormai dalla natura, l’assai minore capacità rispetto agli animali di orientarsi, di avvertire il pericolo: “tu non sei un camoscio o un animale/ che sempre sa dove si trova/ e fiuta l’aria, interpreta l’eco/ dei suoi stessi richiami,/ tu sei soltanto umano e la natura/ ti è ormai aliena e tu ad essa”. Così nell’ottavo testo delle Istruzioni per l’ascesa (p. 34).

Più significativo è il III della stessa sezione (p. 29), nel quale, in modo leggero ma riflessivo, è esplicitata tra l’altro la convinzione che in montagna sia augurabile, necessario forse, diventare come animali, meno abili di loro ma a loro il più possibile simili. Eccolo per intero, godibilissimo.

Due bastoncini allungabili leggeri
con una fettuccia al pugno ti saranno comodi
per scaricare dalla gambe la fatica
dell’ascesa, per meglio equilibrarti
dove l’asperità del terreno insidia.

Due protesi leggiere alle zampe anteriori
e diventiamo animali di montagna
seppure impacciati camosci o capre
di loro più lenti ma lentamente
dov’essi arrivano anche noi arriveremo
graffiando la pietra e lasciando il segno
della nostra animale umanità.

Ci vuole un aiuto anche alla metafora 
dell’ascesa, un argomento che vinca
con pazienza ogni resistenza
e godere di un cielo più libero
quando la vetta ci chiama alla sua gloria
intramontabile nel tempo dell’effimero.

Trovo affascinante questo accostare all’episodio contingente la riflessione ampia, di taglio filosofico-sapienziale, frequentissimo nella poesia di Gianmario. E l’abbiamo già visto passare dal fiore d’altura alla Storia con la S maiuscola.

Tornando al tema, quella degli umani è per Gianmario una “animale umanità”. D’altronde già in Per il bosco (p. 24) aveva scritto, come un augurio per l’uomo: “Quando possiederai la mitezza dei miei occhi saremo/ fratelli e vedrai colori/ mai veduti/ conoscerai il destino/ come conosci l’ora del giorno”. Chi parlava era un cane pastore.

E in Krisis (p. 25):

Questa pioggia non piove più acqua e brucia i fiori del pesco a primavera; le gemme dei larici ingialliscono asfittiche nate già morte. Un mesto fradicio coro d’uccelli s’appoggia alla bruma della sera e pigola adagio unica voce che ancora si levi
 difesa accorata
 stremata

 ‒ e non questo mio inutile dolore 
che già svanisce nell’aria della notte. 

L’ estrema onestà intellettuale ed emotiva induce spesso Gianmario a sentire animali ed umani in modo del tutto paritario. Versi molto significativi in questo senso li trovo in Vilipendio (pag. 75), nella sezione intitolata La scimmia democratica:

Nella concitazione del rastrellamento
le case ci scrutavano ed ogni portone
celava l’insidia. Si andava
guardinghi in silenzio a ridosso dei muri sparando
a ogni sagoma in movimento. Un cane
ferito a morte guaiva lontano
e quando mi avvicinai per finirlo
incrociai nel suo lo sguardo di mio padre
e di mia madre e una domanda
che da allora mi perseguita.

Porto ancora quegli occhi nei miei
nella tortura dei tramonti e delle veglie
quando la mente si scioglie
con un guaito in braccio alla notte.

Non solo, talvolta si ha l’impressione che egli si confonda con gli alberi, vi si mescoli, meticciandovi gli umani tutti: “Dalla notte ci verrebbe la sapienza/ se potessimo ancora sperare follia/ e a lei torneremmo, fra le sue mura/ quando il dubbio ci scalza alla radice/ e al vento ci disperde come foglie/ secche nell’abbaglio della luce”. Leggendo l’ultima strofa della prima poesia di Istruzioni per la notte sembrerebbe trattarsi solo di un paragone, ma quel “dubbio che ci scalza alla radice” fa di noi degli uomini-albero.

E’ una condivisione di condizione, una immedesimazione che è stata chiaramente espressa in una poesia di Per il bosco (tematizzata come metamorfosi, a pag. 42), la cui ultima strofa recita: “Le mie dita sono rami che frugano il cielo/ cercando verità che dormono da sempre,/ le gambe tronchi che gemono al vento/ ‒ tornando indietro nel tempo ero albero ‒”.

Un tempo eravamo alberi. Nei versi di Lucini un poco lo siamo ancora. Leggiucchiando qua e là nei suoi volumi di poesia ne trovo tracce: “Sono arrivato dal nulla a questo angolo di luce/ e volgo le radici al cielo”. E’ lo straniero protagonista di Il respiro del male, nella raccolta Monologo del dittatore (p. 63). E, ricordate quel noi dei piccoli fiori d’altura?

Al di là delle sue esplicite affermazioni (come quelle dell’introduzione a Cronache da Rapa Nui e le molte altre rintracciabili nei volumi prodotti… mi viene in mente per es. il Poemetto misantropo in Il disgusto), quel che mi fa sicura della integrale apertura in senso ecologista del nostro è il vedere come essa emerga, in modo diretto o indiretto, in ogni suo volume di poesie, anche in quelli riferiti quasi interamente alle contraddizioni provocate dalla guerra.

In Monologo del dittatore per esempio (alla p. 73), dove non me la sarei aspettata. Vi è una definizione della “ pienezza dell’umano” particolarmente inclusiva:

Nel maggio dei campi rasati la bellezza
pare corporea, nella carezza
giovane dell’aria: nulla 
manca alla pienezza dell’umano,

se per un attimo stai cheto nel silenzio
e ascolti la musica dei mondi che ruotano,
la misteriosa fisica dei suoni che riverbera 
in ogni molecola dell’essere e delle cose.

Un attimo soltanto di grazia
e di panico
che sospende ogni regola e ti proietta
fuori da questo miscuglio di ipotesi

che chiamano vita e nessuno 
sa che cosa sia.

In Istruzioni per la notte, raccolta che costituisce una sorta di testamento spirituale interamente sostenuto da esperienze personali, egli sente ed instaura una stretta connessione tra inquinamento e guerra, tra disfatta dei soldati e morte del pianeta. Versi a metà tra denuncia e profezia (p. 54).

Canto una canzone senza rime
per l’ultimo fiore che rimane
per l’ultima larva che ancora
vuole mutarsi, destarsi farfalla

(batterà le ali e all’altro
capo del mondo squilleranno
le trombe degli ultimi soldati
per una disfatta senza memoria).

L’ultimo fiore giace nell’erba disseccata
ha lo stelo spezzato la corolla chiusa
come un sudario su stami e pistillo
e leva al cielo di pietra monodie
antiche salmodie terragne
per la sua flebile radice che si spegne
sepolta dei veleni e dal cemento
[…] 

Non continuo a cercare. In quel che ho già trovato leggo una disponibilità sostanziale a mettere in discussione la centralità dell’umano entro il complesso della realtà dei viventi: il modello antropocentrico di cultura avviato a decostruzione. Il ‘montanaro’ Lucini mi sembra già portatore di un “umanesimo non antropocentrico”, quello di chi cerca di elaborare strategie di sopravvivenza culturale senza trascurare lo stretto legame tra cultura degli uomini e sapienza della natura.

La definizione che di umanesimo non antropocentrico dà Serenella Jovino (Ecologia letteraria. Una strategia di sopravvivenza, p. 68) sembra tagliata sui suoi panni: ‹‹un tipo di umanesimo esteso, capace di stabilire relazioni di prossimità costruttiva [..] con altre specie e con l’ambiente naturale. [..] basato sulla costruzione di identità flessibili e, in quanto tali, democratiche e dialogiche [..] (che) inventano un’etica del futuro a partire dal presente, inteso come com-presenza non dualistica di umanità e natura››.

Concludo questo breve excursus con un testo, a metà tra poesia e prosa, in Krisis (p. 25), nel quale, da poeta con una squisita sensibilità ecologista, Gianmario riflette sull’impotenza della parola, pur non rinunciando a praticarla:

Io non so se i prati sereni di aprile
di là dal mio balcone, domani fioriranno,
se altri sguardi li potranno amare e se altri, prima del  mio, li hanno veduti come io li vedo, carichi di antico e di sempre nuovo ardore di vita e promesse di giorni.
Io non so se il poeta possa e debba qualcosa al mondo oltre le parole (un atto, una posa, un contrasto all’arroganza predatrice che ingrigia i paesaggi dei secoli a venire)
io non so cosa fare
per questo nulla che incombe e divora
ogni creatura  e ci lascia inariditi:

non trovo la parola che uccide, non trovo la parola che risana, e dentro il mio dire il tutto e il nulla hanno la stessa consistenza dell’inutile, come se i giochi fossero giocati prima di lei e d’ogni gesto possibile
di amore o disprezzo
per la verità.

Non ha altro, il poeta, che questa indicibile parola e annaspa e rincorre la verità che fugge e a volte di sé dimentica un indizio, un lembo di veste, un’orma
che il vento subito cancella.

Mi ripeto che, quando si trova quest’indizio di verità nei versi di un poeta, bisogna averne cura, farla conoscere, se possibile riprodurla. Per questo ripropongo le parole di Gianmario.

1 pensiero su “Dove il crinale accarezza il sorriso del cielo

  1. Invito tutti a rileggere i commenti all’articolo del settembre 2017 segnalato dalle due righe introduttive di Ennio: davvero un confronto di opinioni interessante su un autore da non dimenticare.

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