Narratorio 12
di Ennio Abate
E stevene a Salierne roppe a guerra.
Il dopoguerra era oscuro. E pure la guerra restò oscura.
State sicure ca null’avite mai ritte ra guaglione manche a parola ‘guerra’, prufessò!
Chelle ca ere succiesse – na traggedia! – e cristiane ca remanettere vive se l’avettere scurdà. S’avettere truvà na scuse per campà. O facevene pe figlie. Mò e cose brutte è meglie ca nunn’e ricimme ae e piccirille, anna cresce senza brutte pensiere. Accussì ricevene. E si quacchune – se lasciava scappà nu cunte e sangue o e muorte accise – eh, nuie ae tiempe ra guerre, steveme… -, n’ate subbite o faceve sta zitte: Chelle ch’è state è state…Succerette pa guerre cumme co nomme ra principessa Sichelgaita.
Parole entrate nella mente senza significato. Per lungo tempo. Lo stesso successe per la parola ‘fascismo’. Crebbe, giocò, studiò, poi s’innamorò ma niente seppe sul passato medievale di Salerno. E niente sul passato fascista di Salerno. Qualcosa dagli zii o dalle zie? Poco. Ne parlò zi Rina, ma tardi. Anche i cugini e le cugine più grandi di lui non parlarono mai della guerra, che pur avevano visto. E neppure i preti. E neppure i maestri. Né i professori delle medie. O del liceo. Quello che seppe – ma tanti anni dopo – lo lesse sui libri.
E Nannìne non ne parlò?
Chiero ricordava che nell’armadio con il grande specchio nella stanza da letto di Mìneche e Nannìne, tra cappotti e altri abiti, c’erano – arrotolate in un angolo – delle grandi foto: di Armando Diaz, di Vittorio Emanuele III e della regina Elena. E ne dedusse – tardi, sempre tardi – che avessero avuto simpatia per la monarchia più che per il fascismo. E pensò pure che al referendum del 2 giugno ‘46 – repubblica o monarchia – entrambi avessero votato per la monarchia. Su via Sichelgaita, nelle settimane prima del voto, quanti i manifesti attaccati sui muri! Ed erano tutti – o lui vedeva solo quelli? – del Partito monarchico, del MSI e della DC. Più tardi, alle politiche del 1948, a lui e agli altri ragazzi distribuirono – chi? – pacchi di foglietti di carta insaponata. Sopra, come copertina, lo scudo crociato della DC. E un giorno che erano andati in visita con Nannìne a casa di zia Adelina e don Matteo Natella, Chiero e Eggidie ricevettero in dono alcune cartoline. Su c’era il disegno della faccia di Garibaldi ma, se le capovolgevano, spuntava quella cattiva di Stalin Baffone.
Nannìne – un altro indizio? – cantava ogni tanto almeno i primi due versi di una canzoncina che faceva: «Il general Cadorna ha scritto alla regina/ Se vuoi veder Trieste te la mando in cartolina».i Eppure era una canzone – Chiero controllò poi – antimilitarista. Come mai la conosceva sua madre, visto che era nata e cresciuta in un ambiente così cattolico? Come e da chi la canzone era arrivata fino a lei? O, forse, si sbagliava e ricordava male le parole della canzoncina? A lui pareva che Nannìne dicesse Badoglio invece di general Cadorna. Altre volte Nannìne aveva raccontato ai figli del suo viaggio di nozze a Roma e che aveva visto da lontano il Papa e Mussolini.
E Mìneche?
Ai figli non raccontò quasi niente del suo passato. Qualche parola sulla guerra, però, l’aveva detta. E da quelle poche parole che avevano capito Chiero e Eggidie? Che poi che parole erano? Queste erano: “e verè e piezze e carne pe terre e nunn’ai sciatà”; “na vota pa sete c’avetteme beve a pisciazza nosta”. E, però, Mìneche in guerra c’era stato. Nella Prima e nella Seconda. A poco a poco Chiero s’accorse che anche altri fratelli di Mìneche e zi Vicienze, il fratello di Nannìne, le avevano fatte tutte e due quelle guerre mondiali. Ma dove? E che gli era successo? E che capivano dei ragazzi della guerra? E chi la capisce davvero una guerra?
Chiero e Eggidie avevano visto la cicatrice della ferita al costatoii, quando Mìneche tornava a casa dal lavoro da Salentino e si toglieva la maglia di lana per farsi asciugare il sudore da Nannìne. E poi c’era la baionetta, che ora usavano sul terrazzo per smuovere la terra nei vasi o nelle bagnarole dove crescevano i pomodori e le piantine di basilico, menta e prezzemolo. E in salotto il quadretto con la cornice dorata appeso al muro con le medaglie.iii E poi non c’era zi Rafiluccia vestita sempre di nero per il lutto? E pure a casa di zi Vicienze sul comò della sala da pranzo c’era almeno una foto giallognola. C’era zi Vicienze giovane, alto e con la divisa di granatiere di Sardegna vicino ad un cannone.
[Mìneche partecipò alla guerra del 1915-18 (Dove fu mandato?). Fu anche nel Dodecanneso e nell’Albania occupate dai fascisti. Aveva girato, dunque. Avrà avuto ricordi atroci? Avrà disprezzato quelli che avevano avuto una vita più tranquilla e borghese? Nella sua famiglia era il fratello maggiore e, dopo la morte del padre, fece da capofamiglia. Trattava con durezza le sue sorelle (Luigia e Felolla) e i fratelli (Peppino e soprattutto Totonno). Perché vedeva le cose del mondo da militare? Sempre?]
Per tanti anni queste sensazioni vive restarono frammenti. Incompleti. Incomprensibili. Erano tracce. Però restavano tracce. Potevano rimandare alle due Guerre e all’Epoca Nera, che c’era stata in mezzo. Ma Chiero sapeva seguire quelle tracce? Qualcuno gli aveva spiegato perché era Nera l’Epoca? La chiamò così dopo. Ma, nei suoi primi vent’anni, quelle tracce finirono in secondo piano. Anzi furono proprio cancellate e dimenticate. Perché la vita che fece in parrocchia e da studente lo distrassero. Quella vita gli mise altre cose in testa a cui pensare o da desiderare.
Una distanza – incolmabile? – si costruiva. Tra Mìneche e la gente con cui si ritrovò a campare poi nel dopoguerra. Tra Chiero e Mìneche. Ed erano state le due guerre che avevano costruito quella distanza e quella difficoltà di intendersi e di volersi più bene? Quello che Chiero da ragazzo temeva in Mìneche e negli adulti era l’oscurità del passato, l’oscurità di due guerre con in mezzo l’Epoca Nera? Sentiva forse l’oscurità ma non la capiva? E non era possibile chiedere spiegazioni?
Pure si vi fosse venute ‘nmente r’addummannà quacchose a Mìneche o a Zi Vicienze, nu risonnevene. Puteve scappà quacché parola smuzzicata. Tanine o figlie e zi Rafiluccia è muorte sott’a nu bombardamente. Ah! E baste. Le altre domande dopo le prime nun c’erene. Chi le poteva fare? E poi e guagliune allore nun putevene fà dumande.
Era il silenzio degli adulti su quel passato – qual era stata la loro vita allora? Cosa avevano pensato, detto o fatto Mìneche, Nannìne, i parenti, don Enzo Q, la signorina Dag durante l’Epoca Nera?- che lavorava le paure e i desideri di Chiero. Ora in quella città. In mezzo ad altri parenti. Quando Nannìne portava lui e Eggidie in visita. A scuola, in mezzo a quei ragazzi delle elementari sconosciuti. In parrocchia, con tutto quel che là si costruì nella sua mente, che lo staccò dai cugini, dalle cugine, dai parenti di paese.
Tutti quegli adulti che cosa avevano pensato, detto o fatto prima se lo tenevano come un dolore dentro e basta. O, forse, una colpa. Pure quelli che portavano ancora il lutto se ne stavano zitti. Anzi più di quelli che non portavano il lutto. E fino a quando durò quel silenzio e quelle tracce non furono indagate? Fino alla lettura dei libri. Fino al ‘68 e oltre. E così aumentò il distacco di Chiero da Mìneche. Arrivarono a non parlarsi più. E anche dai parenti di Antessano e di Pellezzano, che forse dalla guerra più erano stati toccati. Si separò. Perché Chiero divenne studente e loro restarono così poco istruiti. Crebbe la sua diffidenza verso di loro. E la loro verso tutta la sua famiglia che ora abitava a Salierne. Eppure, Chiero si sentiva a disagio tra gli studenti e i professori del liceo. Diffidava più di loro che dei parenti di paese.
A Salerno Chiero non si fece domande sulle due guerre e sull’Epoca Nera. Non se le fece quando guardò la prima volta le foto conservate nel cassetto dell’armadio. Ci giocò quella prima volta con Egiddie. Per passare il tempo. Ci giocò e non sapeva di giocare con foto di adulti che erano andati in guerra o erano stati giovani nell’Epoca Nera. Quel giorno per Chiero e Eggidie fu un giorno di vacanza. E per vincere la noia – per quale ragione non erano andati a scuola? – lui ed Eggidie rovistaron in uno dei cassetti dell’armadio della camera da letto dei genitori. Mìneche era a lavoro. Nannìne lasciò che tirassero fuori un pacchetto di foto. Le sparpagliassero pure sul pavimento. Così per qualche ora stavano buoni. E aveva raccomandato di rimettere poi tutto in ordine.
Ormai erano già morti Mìneche e Nannìne e quelle foto se le spartì con Eggidie. Quelle rimaste a lui le aveva conservate per anni senza guardarle.
i https://www.ildeposito.org/canti/il-general-cadorna
ii Foglio matricolare n.68980 di Mìneche: «riportò in zona di guerra il giorno 28.5.1917 ferita da pallottola di schrapnell al 4to spazio intercostale sinistro guarita in giorni 41»
iii Foglio matricolare n.68980 di Mìneche:«Anno 1948. Autorizzato a fregiarsi del distintivo d’onore per la ferita riportata (zona di guerra) il 28.5.1917 Circ. 182… 1927
Concessa la Croce al merito di guerra con la determinazione…9.8.1926
Autorizzato a fregiarsi della croce d’argento per anzianità di servizio etc
Autorizzato in base al R.D 15.6.1912 ad aggiungere la Corona Reale alla Croce d’argento di cui è fregiato».