Queste note di Franco Fortini – tutte del 1965, solo l’ultima del 1975 – le ho tratte da «Un giorno o l’altro» (Quodlibet, Macerata 2006) un suo «diario in pubblico» incompiuto, dove raccoglieva «interventi privati e pubblici, editi e inediti, dal ’45 agli anni ’80» . Pur con varie ripetizioni, riassumono al meglio un punto di vista non retorico e non celebrativo sulla Resistenza e si distanziano nettamente dalle rituali, ripetitive e ipocrite interpretazioni che circolano da settant’anni ad ogni anniversario. Non mancano gli accenti autocritici. Nel primo testo, ad esempio, Fortini fa sua la critica alla tesi della “resistenza tradita”. Ammette, cioè, che hanno vinto proprio i sostenitori della resistenza patriottica contro il “nazi-fascismo”, dei “fronti popolari” voluti dalla «classe capitalistica occidentale» e dalle «dirigenze politiche staliniane». Anche se continua a dire che «la Resistenza andava, in potenza, al di là dell’antifascismo; e, in una certa misura, ne era la critica ». Ci sono, dunque, delle oscillazioni nel giudizio, mi pare. Che pensare della Resistenza oggi: rassegnarsi o lanciare ancora invettive a vuoto? Fortini pare suggerire un’altra via, per così dire “poetica”. La riassumerei così: non ha più senso proporsi di riscrivere la storia della Resistenza né è possibile (e lui parlava nel 1965, ma ora la situazione è peggiorata) una prassi politica diversa; affidiamoci alla poesia, l’unica che sa – sembra di risentire un’eco foscoliana, quella de I sepolcri – conservare e interrogare «l’aspetto più atroce e vero della Resistenza», edulcorato dall’interpretazione ufficiale o perso di vista o stravolto da un certo giornalismo scandaloso. (Mi va di far notare che questa importanza che Fortini dà alla poesia rispetto alla storiografia è quella che io avevo cercato di correggere nella mia riflessione del 2003 ripubblicata l’11 aprile 2015 qui). Ma in queste note ci sono altre importanti e condivisibili puntualizzazioni. Ad esempio – e qui il Lenin del ‘senza teoria niente rivoluzione’ è ancora vivo nel giudizio di Fortini – su quanto furono infruttuosi eroismi e sacrifici a causa della debole capacità politica di chi diresse quel moto, ben più caotico e confuso di quel che si dice: «Chi parla di scelte assolute? Si passava da una all’altra, nel giro di pochi giorni, di ore. Ognuno si costruì con mezzi di fortuna una propria teoria politica». E, contro le facili mitizzazioni, pare fondamentale il punto in cui Fortini ricorda che il fascismo fu solo la forma politica che in un paese economicamente e civilmente debole le classi dirigenti scelsero per avviare il passaggio da una economia ancora agricola ad una prevalentemente industriale; e che la Resistenza, dunque, ha soltanto agevolato lo sviluppo delle forme moderne della produzione capitalistica in Italia, inserendola così inesorabilmente nell’orbita del capitalismo statunitense. Altro che “liberazione”, dunque. [E.A.]
1. La Resistenza
In tutti questianni abbiamo avuto la tendenza a lamentare il tipo di interpretazione che si dava più o meno ufficialmente della Resistenza. La si è vista come lotta di liberazione piuttosto che come conflitto di classe, piuttosto come lotta risorgimentale che come fatto rivoluzionario. Molte persone come me protestavano contro questa interpretazione, e quindi avevano la tendenza a costituire una specie di controstoria «piagnona» della Resistenza. Ma mi sono reso conto – e ci sono voluti molti anni a capirlo – che questo tipo di discorso ha torto. È veramente inutile piangere sul fatto che l’interpretazione della Resistenza sia stata quella che è stata data dal quindicennio al ventennio seguente. L’interpretazione autentica della Resistenza è data dagli anni seguenti, che sono andati in un certo modo e non in un altro modo.
Sarebbe una grossa illusione pensare di poter modificare la cosa riscrivendo la storia della Resistenza; perché quegli elementi che si lamentava venissero trascurati dalla storiografia ufficiale (di destra e di sinistra), non arrivarono a formularsi in termini politici, o, quando lo fecero, furono dalla parte degli sconfitti.
Tutto quello che è stato l’aspetto più atroce e vero della Resistenza, che ha sconvolto, che ha lavorato in profondo, non ha parole; l’unica parola che può avere è quella della poesia che, appunto, da Dante in poi, è fatta da «quel che tu non puoi aver inteso».
Se non è arrivato aa esprimersi, non è riscrivendo la storia della Resistenza, e tirando fuori questi elementi, che si modifica la faccenda: interpretare diversamente la Resistenza lo si può solo nella prassi politica. Una prassi politica diversa da quella che hanno seguito fino ad oggi i partiti di sinistra.
[Commento del 1994] Non è un caso che la più seria e bella storia «morale» della Resistenza sia stata scritta negli immediati scorsi anni (Claudio Pavone) [Si riferisce all’opera «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», Bollati Boringhieri, Torino 1991], accentuando l’aspetto etico di quell’evento, a detrimento della valutazione politica.
(p. 342)
2. Ancora sulla Resistenza
La Resistenza italiana fu – i giovani comunisti dovrebbero saperlo benissimo – uno degli episodi conclusivi di quel conflitto interno al regime capitalistico mondiale che si svolse tra le sue forme democratiche e quelle fasciste, e che in parte continua. Fin dal 1935 il comunismo internazionale aveva deciso di allearsi con l’antifascismo borghese e (non però senza intempestive oscillazioni) quella alleanza sostenne per più di un decennio. I giovani comunisti sanno dunque che nel nostro paese il comunismo si è avvantaggiato, come già Lenin diceva, della instaurazione di un regime democratico-borghese nella precisa misura in cui entro questi ultimi regimi si danno migliori condizioni di lotta per il rovesciamento del potere capitalistico e nella (altrettanto severa) misura in cui le organizzazioni del movimento operaio sanno di quelle condizioni fare uso.
Ai più giovani la Resistenza va presentata quindi come l’importante episodio della vita nazionale e internazionale che essa è stata. E presentata storicamente: a patto di essere, prima che con analisi storica, studiata col rigore politico che non solo precede l’atto storiografico ma lo segue e lo verifica.
Non potrà essere disgiunta quindi dalla storia della imponente non-resistenza al fascismo che la precedette, e a quella della sua utilizzazione a fini di consolidamento capitalistico che, alla conclusione del conflitto, le è seguita. Con episodi atroci e straordinari eroismi la Resistenza offre giusto argomento di emozione e di raziocinio. Vi si misura quanto possano le circostanze e volontà di minoranze, su di un popolo che il giudizio comune riteneva incapace di combattere con tanta energia e dimostra come non esistano condizioni oggettive assolutamente insuperabili. Anche vi si impara quanto poco eroismi e sacrifici possano fruttare in senso rivoluzionario quando non sia chiara e forte la capacità politica di chi deve reggerli; e come una parte di chi nella Resistenza combatteva altro avesse voluto, o più, da quel che i suoi capi intendevano e per quell’altro avesse lottato e poi, finito l’urto armato e con quei capi quelle mète non potendosi raggiungere, si disanimasse. Vi si apprende che la storia, se esiste, è fatta di individuali tragedie non riscattate, di errore non risarcito, di ingiustizie non sanate; e finalmente dimostrando come, secondo Saint Just, «chi fa le nvoluzioni a metà si scava la tomba», ma può, non si sa mai, insegnare a farle intere.
Un ultimo, non trascurabile insegnamento può venire poi dalla Resistenza: l’uso della clandestinità e della guerriglia degli scorsi vent’anni dimostra che questo a torto trascurato capitolo dell’arte militare ha continuato a trovare nella lotta di classe, malgrado la contraria opinione di molti capi politici e militari delle maggiori potenze, una applicazione tanto ostinata quanto politicamente decisiva. Occorre aggiungere che non aver altro da dire è un modo per dire una cosa ancora?
(p. 346)
Le resistenze
Il pathos delle «resistenze» ha le sue radici in quello del conflitto con la sorte, col destino e la mortalità. Le conflittualità storiche si fanno simbolo di quelle la cui storicità si occulta. Questo è il motivo del fascino da sempre offerto agli eroi della parte avversa. Una gran parte della pietà verso i vinti ha la sua radice non solo nel superstizioso timore della invidia degli dèi ma nella omerica certezza della collaborazione che lega il vinto al vincitore.
Mentre Widerstand [Resistenza] è l’opposizione di chi sta e fa fronte, resistere è qualcosa che implica un precedente avvenimento, un ritirarsi, un fuggire e poi una decisione di fermarsi. Resistere indica un mutamento, non una semplice opposizione come Widerstand, né la sopportazione, la Endura dei Càtari.
E tuttavia la letteratura della resistenza non è celebrazione delle vittorie ma celebrazione del combattimento, anzi del combattimento ineguale. Ogni celebrazione della resistenza è davidica, si contrappone ad un gigante, vuoi essere vittoria della giovinezza, della audacia, sulla tracotanza, la forza «materiale» .
(p. 349)
Un’«altra» storia
Allora, guerra e fascismo occupavano tutto l’orizzonte. Chi parla di scelte assolute? Si passava da una all’altra, nel giro di pochi giorni, di ore. Ognuno si costruì con mezzi di fortuna una propria teoria politica.
Allora, la Resistenza era più dell’antifascismo; più, anche nel senso del diverso. È qualcosa che abbiamo dimenticato; o che hanno voluto farci dimenticare. Ma oggi è giusto che la storia faccia rientrare la Resistenza nell’ambito di quella complessa (e ancora in parte oscura) operazione politica internazionale che, nella sua parte emergente, va dai fronti popolari alla finedella guerra in Europa, dal I935 al I945, e che si denomina «antinazifascismo»; nell’ambito di quella linea sulla quale la classe capitalistica occidentale e le dirigenze politiche staliniane hanno «fissato» per oltre un ventennio la classe operaia europea e i suoi intellettuali. La Resistenza invece andava, in potenza, al di là dell’antifascismo; e, in una certa misura, ne era la critica.
Ma, per una di quelle astuzie storiche che non cessano di stupirmi per la loro estrema eleganza, il decennio di misconoscimento della Resistenza sotto i nostri governi clericali ha consentito la saldatura (o la confusione) fra progressismo radical-democratico antifascista e residui rivoluzionari connessi con la Resistenza. Ecco perché mi prende un brivido ogni volta che guardo da vicino certi visi di combattenti e di morti d’allora (i vivi, quasi sempre, hanno accettato di farsi interpretare … ): perché accanto ai combattenti coscienti, e alle vittime, questi vent’anni, invece di seppellirli, ci riportano i visi, i moti, gli scherni, la durezza nel dare morte e nel riceverla, l’angoscia e il rancore dei molti che erano veramente, loro, lo «strano soldato» della canzone, che portavano veramente, loro, una volontà di mutamento (dico: di sovversione e non soltanto di pace e di libertà) che pochi osarono fissare e nessuno guidare.
La storia ignorerà. È il suo dovere. La schiuma sanguinosa delle esistenze non la interessa. E va bene: sarà per un’altra volta, come disse quel condannato a morte. Non restano che i poeti per dire «Quel che tu non puoi aver inteso – però come la morte mia tu cruda».
Nel 1944, a Zurigo, scrissi una commedia in un atto, che intitolai Il soldato; tradotta in tedesco, venne recitata al Kongress Haus da un gruppo di giovani attori a beneficio dei rifugiati italiani, la sera del 27 dicembre 1944, più tardi, in italiano, da dilettanti, alla Casa del popolo.
In una villa dell’Appennino, la madre e la sorella di un sottotenente che è alla macchia con un reparto partigiano sono costrette a dare ospitalità ad un soldato che, impiegato dai fascisti in un’azione antipartigiana, è stato fatto prigioniero dai patrioti e ora è fuggito. Sopraggiunge, per una breve visita notturna, il sottotenente. I suoi tentativi di persuadere alla giusta causa il soldato non hanno esito. Il soldato sente che la «libertà» di cui gli sta parlando l’ufficiale non è la sua. Ma quando, circondata la villa dai fascisti e sfuggito loro l’ufficiale, il capo fascista interroga il soldato sulla dislocazione dei reparti partigiani, il soldato, in nome di un onore e di una rivolta incomunicabili, sceglie il silenzio; e, alla fine, la fucilazione.
Tanto ingenua quanto appassionata, quella modestissima scrittura ha ben meritato di restare inedita; se ne può sorridere. Ma è una prova testimoniale a favore di un’ «altra» storia della Resistenza, che ancora non è stata scritta.
(p. 353)
Ventesimo della Resistenza, in una scuola
Il grande valore di quel che è accaduto venti anni fa non è soltanto nelriacquisto delle libertà costituzionali e parlamentari, quelle libertà che oggi mi consentono di parlarvi e che consentono, anche a chi la pensa diversamente da me, di esprimersi nei luoghi e nei tempi che la legge prevede: enemmeno nel riscatto delle colpe che gli italiani accettarono o subirono di addossarsi nel ventennio precedente. Forse ad un giudizio storico più rigoroso comincia ad esser chiaro che il fascismo non è stato altro che la forma politica che in un paese economicamente e civilmente debole le classi dirigenti si sono scelte per poter avviare il passaggio da una fase di economia prevalentemente agricola ad una di economia prevalentemente industriale; e allora la stessa Resistenza risulterà essere un episodio del medesimo fenomeno, ossia l’operazione politico-militare che ha contribuito a spazzare via i resti di una classe politica inetta ed ha consentito lo sviluppo delle forme moderne di produzione capitalistica anche nella nostra penisola. Credo però che la grande eredità della Resistenza consista proprio in quello che a molti o pavidi o ipocriti è sembrata la sua macchia o la sua vergogna: di aver messo spietatamente gli uomini gli uni contro gli altri, di aver diviso le famiglie e spesso l’uomo da se stesso, di aver contrapposto doveri, di aver imposto scelte strazianti, di averlo costretto a scegliere. Questo popolo che per secoli era stato avvezzo dalla sua storia a pensare che c’era qualcuno, un qualsiasi superiore, che decideva per lui, si trovò costretto a dilemmi morali feroci: debbo rischiare la vita di montanari innocenti, che domani una rappresaglia può impiccare o bruciare vivi, per non accettare di trattare col vicino comando tedesco? Debbo, obbedendo alle leggi della guerra, rifiutare di presentarmi come responsabile di un attentato e lasciar fucilare dieci o cento ostaggi, o debbo invece salvar la vita degli altri a prezzo della mia propria? Debbo, ufficiale dell’esercito, porgere la mia rivoltella al tedesco che me la chiede o devo portarmela alla tempia? Debbo obbedire a mia madre,che non ha che me e mi implora di non rischiare la vita, o andare volontariamente a perderla con i compagni partigiani? Inseguito, affamato, disarmato, devo varcare la frontiera svizzera, o presentarmi alla caserma fascista a implorare perdono? Internato in Germania, mentre intorno mi muoiono i compagni di tubercolosi e di fame, debbo o no firmare quel foglio che significa cibo, coperta, ritorno in patria? Quel ragazzo di diciotto anni, spia del nemico, che mi chiede pietà piangendo, debbo farlo fucilare o no?
Questi e simili interrogativi si posero tragicamente e bruscamente a centinaia di migliaia di italiani, in quei mesi. Fu una guerra morale, un corso accelerato di vita civile quanto più, tutt’intorno, tutto sembrava furia, bestialità, cecità, delitto. Gli italiani scoprirono che non esistono cause assolutamente immacolate, che non esistono gruppi di «puri», che le azioni collettive esigono la rinuncia alla integrità e che il rimorso è inseparabile dall’azione. Scoprirono che è cosa ben diversa sparare al nemico straniero, che parla un’altra lingua, e indossa altri colori e sparare sul tuo concittadino o sentire il tuo stesso dialetto sulle labbra del militare che manovra la mitragliatrice contro un gruppo di donne e di bimbi atterriti, com’è accaduto a Marzabotto. Quando la violenza delle contraddizioni è portata fino all’orrore, le volontà si fanno implacabili, zone ignorate della coscienza e della società vengono avanti, e scopriamo con spavento e con gioia che la gerarchia degli uomini era, appunto, apparente e falsa. Questo – e non soltanto quello dei partiti politici e delle parole d’ordine – è stato il senso rivoluzionario della Resistenza. È lo sconvolgimento introdottosi fin nel più umile villaggio dell’ Appennino o delle Alpi, la morte sull’aia o nel fosso che ci aveva visti giocare da ragazzi .
(p. 354)
Letteratura e Resistenza
I. Il solo rapporto non futile fra la Resistenza e la letteratura consiste nella similitudine fra Resistenza storica (e analoghe forme etico-politiche di antagonismo reale) da una parte e la funzione antagonistica e conflittuale della letteratura – e più della poesia come eccellenza – in quanto tale.
2. La teoria letteraria che sostiene questa funzione antagonistica della letteratura tende a valorizzarne la natura negativa secondo una linea che è – quella tardo romantica e/o avanguardistica. Essa conduce ad una dicotomia fra letteratura autentica e letteratura apologetica e di propaganda, volgarletteratura e letterature di élite. La tematica resistenziale in quanto tale è degradata a pathos, o emotività.
3. In una concezione deII’Òggetto letterario che mettesse invece in evidenza la doppia (e contraddittoria) sollecitazione interna ad o ni atto letterario, que lo della conferma e uello della contestazione, la tematica resistenzia e anc e in senso lato) viene a cadere nella categoria oggi ingiustamente desueta dell’ «interessante» e del «buon soggetto» (nella accezione tardo settecentesca o goethiana). Ed è inevitabile che quella tematica venga fatta rientrare negli schemi della narrazione favolistica, con gli ostacoli, le peripezie, la morte redentrice ecc.
4. Tanto nella ipotesi di una valutazione della natura eminentemente antagonistica dell’opera letteraria (Adorno) quanto in quella di una sua duplicità e contraddittorietà radicale, l’elemento resistenziale (o politico) scompare e si riduce ad un sottogenere come l’agiografia medievale, la biografia rinascimentale, il western. Ma è essenziale sapere se tale scomparsa avviene per assorbimento della storicità della tematica nella astoricità della forma letteraria o invece per assorbimento del sotto genere nel genere, ossia nelle categorie della narrativa, dell’ epica, della lirica celebrativa e così via.
Nei nomi simbolici di Beckett e di Brecht si collocano le due linee. Va da sé che per la prima o tutto si riduce a scrittura e a testo o i livelli e la qualità di linguaggio nella loro dissociazione testimoniano della schizophrenia universalis; mentre la seconda tende a diminuire quella dissociazione. Come Mehring dice che Marx facesse, questa seconda tendenza «include Clio fra le nove muse» e fa della cronaca partigiana e del diario qualcosa di altrettanto «classico» quanto il poema o la narrazione epica.
(p. 495)
Questi appunti del 1965 testimoniano un fermento di idee e un dibattito, allora ancora in sordina, sui diversi aspetti della Resistenza. Dal libro di Roberto Battaglia (Storia della Resistenza italiana, Einaudi, 1953) nel quale si rifiutava la categoria di «guerra civile» a favore di quella di «guerra di popolo» e si dava un’interpretazione “ufficiale” – marxista in un certo senso, del Pci sicuramente – che monumentalizzava la Resistenza; al libro di Giorgio Bocca (Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Bari, Laterza, 1966) e a quello di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991) la ricostruzione storica delle vicende degli anni 1943-1945 è cambiata molto. Il mito della «Resistenza tradita» è stato quasi del tutto abbandonato, come pure quello della Resistenza come rivoluzione proletaria/popolare mancata (nei suoi obiettivi sociali). Oggi, nella storiografia più recente, si tende a interpretare la Resistenza come un fenomeno molto più complesso, con all’interno aspetti e tendenze diverse, valorizzando di tutte il comune valore di lotta contro il fascismo e il nazismo e l’occupazione nazista. In sostanza, oltre alla Resistenza combattente, si recupera tutta quella «Resistenza» popolare non combattente che testimonia il clima politico di quegli anni. Insieme alle formazioni partigiane combattenti, che non avrebbero potuto resistere senza una vasta solidarietà da parte della popolazione, c’è infatti il comportamento della popolazione che, dapprima maggioranza consenziente alla propaganda fascismo (sicuramente fino al 1940, ma forse ancora fino al 1942), fa registrare poi il progressivo distacco e il crescere di quel fenomeno di «non collaborazione» con i fascisti e i nazisti, diventato prevalente nel 1943. Una zona in gran parte grigia, dove però la resistenza trova, in varie forme, l’acqua in cui nuotare. Infatti, dalla non collaborazione col nemico, una parte della popolazione passa gradualmente alla collaborazione con i partigiani in forme non combattenti (fornire cibo e vestiti, nascondigli, informazioni ecc.; in questo l’operato delle donne – valorizzato dalla storiografia degli ultimi dieci anni, è stato decisivo; come l’operato di molti parroci, conventi di suore e frati ecc.). Una parte più ristretta collabora in modo più attivo (forniture e appoggi clandestini, staffette, ecc.), pur non combattendo. È così che i reparti combattenti, sebbene sempre numericamente minoritari nei confronti del nemico, passarono dai circa 10.000 arruolati dell’autunno 1943 ai circa 100.000 del 25 aprile 1945 (sono stime di massima, alcuni autori danno cifre inferiori). Ai centomila vanno poi aggiunti altri 100/150mila che si attivarono in vario modo solo negli ultimi giorni (manifestazioni antifasciste del 20-28 aprile 1945; assedio delle caserme dei fascisti ecc.). I partigiani combattenti caduti sono stati circa 40.000 e circa 10.000 le vittime civili delle rappresaglie fasciste e naziste. All’interno della Resistenza intesa in questo senso ampio di impegno e rifiuto del fascismo e del nazismo, la storiografia colloca poi anche il fenomeno della deportazione di italiani in Germania, che riguarda, oltre agli ebrei, i militari che si rifiutarono di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale, i prigionieri politici e i lavoratori rastrellati per impiegarli nel lavoro forzato. In totale si arriva a un livello di coinvolgimento della popolazione italiana che è maggioritario, ed è su questo concetto di Resistenza, che si confonde quasi con il concetto più generico di antifascismo e antinazismo, che oggi si fonda, più che sulla Resistenza come momento rivoluzionario e combattente, l’«ideologia» patriottica della Resistenza come momento storico fondativo della Repubblica e della Costituzione.
Ciò ovviamente lascia in ombra, soprattutto nei discorsi celebrativi, nelle commemorazioni ufficiali e nella divulgazione didattica, le profonde contraddizioni della Resistenza, che fu insieme, per un aspetto lotta patriottica, per un altro lotta rivoluzionaria di classe, per un altro ancora solo lotta di sopravvivenza e di rabbia, sicuramente antifascista, ma senza un definito colore politico. Contraddizioni e confluenze forzate di posizioni diverse, testimoniate da tanti episodi di contrasto, fino allo scontro e al sangue in qualche caso, fra partigiani comunisti (che erano la maggioranza), socialisti, democristiani, azionisti e badogliani e monarchici. Confluenze e contraddizioni che portarono ad una Costituzione che, al di là delle celebrazioni mistificatorie alla Benigni, contiene nel suo DNA forti elementi di compromesso che ne hanno poi determinato largamente la non applicazione o l’applicazione in uno spirito diverso dalla lettura «socialistica» che ne diedero le forze di sinistra. Ciò è tanto vero che oggi, fra Costituzione scritta e «costituzione in senso materiale», cioè nella sua effettiva traduzione in leggi e funzionalità istituzionale, a parere di tutti i giuristi c’è una notevole differenza.
Pertanto, a mio parere, la Resistenza è «tradita» (ma il termine è improprio) fin dal momento del suo svolgersi, perché gli obiettivi dei combattenti furono diversi e solo le circostanze storiche complessive europee impedirono che, cacciati i tedeschi e abbattuto il fascismo, i combattimenti non proseguissero con lo scontro armato fra chi voleva “fare come in Russia” e lo proclamava apertamente nella sua propaganda politica e chi voleva invece un’Italia saldamente ancorata all’Occidente europee e a una costituzione di tipo “democratico razionalizzato”, cioè, secondo l’accusa dei comunisti, di tipo borghese e capitalistico.
La conseguenza di tutto il dibattito, spesso sofferto, di 70 anni di post-Resistenza, è che oggi, come il Risorgimento e come altri avvenimenti storici non sentiti più, dalla cultura dei giovani (quella dei “vecchi” è diversa), come attuali, gli ideali i valori il senso della Resistenza sono pressoché dimenticati e rievocati solo nelle celebrazioni e in senso generico, o meno generico ma strumentale, con una ritualità che non coglie più il dibattito ancora vivo nelle pagine di Fortini, che si riferiva alla Resistenza come evento-esempio capace, pur fra mille polemiche, di insegnare ancora qualcosa in senso pratico (etico e ideologico e militante). Credo che l’ultima stagione della Resistenza sentita ancora in senso militante “rivoluzionario” sia quella del ’68 e degli anni seguenti fino al 1975 circa. In seguito, più che elemento di dibattito vero e legato all’attività politica, casomai diventa elemento di nostalgia e di dibattito legato al ricordo.
Oggi, a mio parere, sulla Resistenza c’è ancora da fare un grosso lavoro storiografico (ad esempio di recupero dell’effettiva identità dei partigiani, molti dei quali, comprese diverse medaglie d’oro alla memoria, sono del tutto sconosciuti, privi di una biografia che vada oltre una scheda di venti righe) mentre è sempre meno importante, e spesso fuorviante, il suo uso come tema ideologico.
Oggi è il 25 aprile, festa della liberazione. Gli alunni, organizzati e opportunamente istruiti dalle insegnati, hanno letto nella piazza del piccolo paese dove abito brani di letteratura, poesie e varie testimonianze di quel periodo. Mi chiedevo cosa resterà nella memoria di quei bambini, oltre all’attenzione che hanno ricevuto e gli applausi, e ho pensato: be’, almeno capiranno che ci sono cose che non si possono accettare, come non uccidere e non limitare la libertà delle persone; e forse anche mantenersi in guardia affinché certe cose non si ripetano, perché se ci sono stati governi totalitari e violenti vuole anche dire che qualcuno ha accettato, se non favorito e sostenuto quei governi; magari pensando al proprio tornaconto, o per paura o per quieto vivere, ma l’hanno fatto. Allora conta che si guardi a questi tre difetti, mi sono detto, perché è su questi che possono innescarsi nuove tragedie. Poi gli intellettuali vadano a leggere sempre più in profondità nella storia sociale ed economica del paese affinché si sappia tutto del bene e del male, con obiettiva onestà, l’importante è che si sappia riconoscere l’idiota di turno, specie quando afferma “io dico solo quel che pensa la gente”, cosa che accade spesso, perché significa che vuole voti e non ha nulla da proporti che tu non sappia già; non solo, ma incoraggia la paura, il proprio tornaconto per l’agognato quieto vivere. Se così intesa, la Resistenza non è mai cessata, e per qualcuno anche la lotta partigiana per la libertà: della cultura, delle idee, l’emancipazione, la dignità… dando per scontato che non si debbano sfruttare uomini animali e piante. Insomma, un comunismo senza regime, sempre che la parola abbiano ancora un senso.
a Mayoor
devo ammettere che con gli anni la mia resistenza si è affievolita. Ma quella del passato mi è servita e molto, ma a parte questo, caro Mayoor, oggi la vita è tutta una resistenza, lo capiranno i posteri, forse . Tanta gente resiste fuori dalle fabbriche giorno e notte e lotta per il posto di lavoro, tanti resistono a crudeltà inaudite, sopraffazioni, torture. C’è che fugge , c’è chi resta. Non so oggi l’idea di resistenza è cambiata, siamo tutti qui a chiedere qualcosa che qualcuno dovrebbe darci e che si trasforma ogni volta in una favoletta che non ha niente a che vedere con la realtà. Resistiamo noi italiani forse nell’illusione ma non so fino a quando, devo dire che tutto sommato mi sembra di vivere in un paese dove l’unico sogno è quello di trovare lavoro e l’unica forza è quella di riuscire ad andare avanti aiutandosi l’un l’altro…fino a quando? ciao
25 aprile 1945. Testimonianza minima.
1.
Il 25 aprile 1945 mi trovavo sfollato, lontano 1200 km da Milano, in una paesino di circa 2000 abitanti del profondissimo Sud e nella regione più marginale d’Italia ( la Calabria ) . In alcune carte topogeografiche quel paese neppure è segnato. Quel giorno avevo 13 anni e sono quindi “ testimone ancorchè minimo” di un evento del quale alcuni – che non erano ancora nati – oggi parlano. Circondato da numerosi parenti, amici dei parenti, miei giovanissimo amici, componenti ( per lo più contadini ) di quella comunità posso riferire alcune circostanze di fatto. Utili, inutili? Giudichi chi legge. I miei genitori erano rimasti a Milano durante tutta la guerra e la Liberazione ci ricongiunse. Lo studio di mio padre avvocato era stato ripetutamente bombardato e distrutto completamente. Cosicchè dovette rcominciare ex novo il suo lavoro iniziato a Milano nel 1932, anno della mia nascita. Breve ripresa perché l’anno dopo – 1946 – morì.
2.
Nella Calabria in cui vissi fino al 25 aprile non si parlò mai di “ partigiani “ cioè di uomini
( quale che fosse la loro fede politica ) in lotta contro altri uomini di fede politica diversa.
Tale termine lo conobbi tornando a Milano, parlando con mio padre e, dopo la sua morte, con altri e attraverso i libri. Altrettanto ignota la nozione di Resistenza .
La notizia della Liberazione fu accolta con sollievo da chi mi stava intorno, sollievo che mi sembrò chiaramente collegato alla fine del conflitto e dei disagi conseguenti . La fine del Fascismo era vista – prevalentemente – come l’esito quasi logico di un conflitto che ci aveva messi, noi Italiani, dalla parte sbagliata ( amici dei Tedeschi contro altri giudicati più forti e più affidabili come alleati ). Noi “piccoli“ vivevamo l’evento come una novità da festeggiare. I “grandi“ non manifestavano rimpianti ma non sembravano neppure “ leggere “ il fatto come una “ opportunità storica “ da sfruttare all’insegna di un luminoso e diverso avvenire.
Il desiderio di un periodo di tranquillità e normalità sembrava la nota predominante.
Per me, in particolare, la Liberazione fu un ricongiungimento e la prospettiva di un ritorno in una città in cui avevo iniziato gli studi elementari e imparato a leggere e a scrivere.
3.
Mio padre – liberale di vecchio stampo e crociano convinto – per qual poco che posso riferire, visse politicamente la Liberazione come qualcosa che avrebbe dato corso ad un rinnovamento della società italiana. Credo abbia festeggiato anche nei comportamenti quelli data . Era un uomo mite ma ci riferì di essere andato in piazzale Loreto a vedere Mussolini e Claretta Petacci.
Al ginnasio mi buscai un pugno in un occhio da parte di un gruppetto di “ fascisti “ che disturbarono la nostra uscita davanti al Liceo Berchet. In quell’occasione mi avvicinai ad un compagno di classe di famiglia comunista e lo frequentai. Né suo padre ( quasi cieco per un diabete di alto livello ) né le graziose sorelle cercarono di indottrinarmi. Parlavamo di politica in modo semplice e non settario,salvo brucianti parole contro i “ fascisti “ che avevano costretto il padre a dimettersi da un’amministrazione pubblica. Mi davano bonariamente del borghese conoscendo la mia estrazione sociale. La scuola allora era minimamente politicizzata; non ebbi contatti con persone che mi abbiano influenzato politicamente. A questa disciplina o arte mi avvicinai autonomamente attraverso la lettura di molti libri importanti ( avevamo una biblioteca veramente ricca, fonte di ammirazione per i miei amici ). C’erano anche libri di economia politica dai quali ricavai qualche nozione assai scarna sul marxismo.
La figura del mio Preside – un ebreo di rare virtù umane – mi indusse a leggere alcuni testi sugli ebrei e sulla “ soluzione finale “.
Venni a maturare convinzioni definibili socialdemocratiche e a leggere gli avvenimenti passati ( la guerra e la liberazione ) anche politicamente dandone una mia interpretazione ovviamente condizionata dalla mia esperienza. Nel frattempo conobbi in carne ed ossa un “ partigiano rosso “ e il fratello di “ un partigiano bianco “ morto ( eroe della Resistenza ). Il primo mi raccontò della sua esperienza e il secondo dell’esperienza del fratello.
Incontrai altri condizionamenti nel tempo degli “anni di piombo“ e del terrorismo ma di essi non intendo parlare perché sarei rispetto ad essi sicuramente privo della necessaria serenità.
4.
Da questi fatti, notizie,ricordi sicuramente insignificanti e marginali ho tratto alcune convinzioni che oggi – giorno di memoria – voglio rimettere all’attenzione di altri.
A ) La Resistenza e la Liberazione non sono mai state esperienze comuni a tutta la società italiana. Alcuni ambiti territoriali furono estranei ad esse (in alcuni il convincimento che la Liberazione sia stata opera esclusiva degli “ Alleati “ fu ed è invincibile).
B ) La Resistenza e la Liberazione non ebbero per tutti gli italiani (o la maggioranza di essi) un significato omogeneo: Alcuni vi videro solo la fine della guerra senza analizzare il prima; altri si spinsero un po’ più in là intravvedendo in essa l’inizio di una nuova stagione per l’Italia come Stato unitario; altri ancora formularono diversificati modelli rispetto alla costruzione di tale Stato. Da alcuni fu teorizzata la trasformazione dello Stato liber-democratico-capitalista in uno Stato di stampo schiettamente comunista. Questa divaricazione profonda fu presente ab origine in alcune figure di resistenti. Come è possibile parlare – dunque – di una Resistenza e Liberazione condivisibili?
C ) La domanda – che esige però una risposta – è tanto più corretta allorquando si pensa che la Resistenza – a mio giudizio – integrò una vera e propria guerra civile le cui ferite non possono ritenersi ancora guarite del tutto. Che tali ferite siano – attualmente – strumentali a scelte politiche è altro discorso, certamente interessante che non affronto.
D ) Io credo – dunque – che sia possibile parlare di Resistenza tradita o Liberazione non completata solo rispetto a quel progetto o modello di sviluppo e rinnovamento che ciascuno aveva immaginato e ipotizzato. Ma se è così chi parla in modo simile ha “ l’onere “ di dimostrare che il modello ipotizzato è attuabile e indicare i punti in cui l’attualità lo smentisce.
E ) Ritengo che ogni Resistenza ed ogni Liberazione, come momenti di “ necessario superamento “ dell’attualità – che è sempre mediazione e compromesso – non possano essere che “ continuamente tradite “ e dunque continuamente da “ rivisitare “. Questo è – a mio giudizio – il senso credibile del concetto di utopia.
5.
Mi avvio rapidamente alla conclusione riformulando la domanda che ho fatto sopra e che in un certo senso genera l’altra, più banale. Ha senso commemorare il 25 aprile 1945 ?
Sono certo che è necessario dare una risposta positiva. Quale è stato il minimo comun denominatore della Resistenza e della Liberazione di ieri? E’ ad esso – al nucleo positivo di quell’avvenimento – che occorre agganciare le nostre ancore di salvataggio. Se ripenso ai fatti di quei giorni e alle persone che ho incontrato via via nel tempo, cresce in me la certezza che sotto la pelle di ciascuno corresse allora il desiderio di pace, di prosperità, di eguaglianza .
Sono “ desideri “ che non si possono dimenticare. Allora si uscì da un momento oscuro e dunque è la memoria della luce quella che conta. Dobbiamo – rovesciando Giovanni III,19 – dobbiamo dire con forza : “ E gli uomini vollero la luce piuttosto che le tenebre “.
Un buon 25 aprile 2015 da Giorgio Mannacio.
…mi mette sempre molta tristezza la celebrazione della Resistenza, atto finale di una guerra terribile, quando gli italiani fecero uno sforzo per compattarsi e arginare i danni di errori madornali e mettere fine a stragi assurde, a genocidi, alla miseria che ne conseguì e ricostituire le condizioni minime per la ripresa della vita…le diverse interpretazioni che ne furono date dagli storiografi…come si sono mossi la letteratura, il cinema e la poesia…le testimonianze di chi è vissuto in quel periodo anche se lontano dal teatro degli scontri, osservando come poi la società si sia riassestata senza riconoscere la lezione che poteva derivarci, vista la realtà attuale di guerra congelata e insieme feroce. Mi ha colpito in particolare il discorso di Franco Fortini in una scuola per il ventesimo della Resistenza, quel suo portare esempi, avendola vissuta, di come in situazioni di guerra vengano a galla aspetti atroci dell’uomo e come a volte, pur dalla parte giusta, si sia costretti nell’azione a fare una tragica scelta tra etica politica e coscienza morale… “Quel ragazzo di diciotto anni, spia del nemico, che mi chiede pietà piangendo, debbo farlo fucilare o no?”…
In tema di memorie, so qualcosa della resistenza popolare non combattente anche se sono nata nel ’45, dopo la fine della guerra. Ma la memoria di mia madre e di mia nonna l’ho succhiata col latte.
***
Mia nonna diceva se tanto
mi dà tanto, e alludeva
a guadagni improvvisi e benefici,
cosa mi darà altrettanto? e qui senz’altro
sono disgrazie è meglio prepararsi
a scansarle (a me arrivava la dura intimazione
sei sola difenditi e se mai
conta su di noi).
Gran Dio del cielo se fossi una rondinella
cantava con voce di bambina
ed era vecchia come io sono ora
vorrei volare vorrei volare…
Mi ha raccontato dei viaggi di guerra
giorni sui camion con le gambe gonfie
e il vestito del mercato nero
con la fodera interna a canaline
colme di sigarette e ritornava
con burro e zucchero per le bambine.
Ancora in guerra ha preso per un braccio
un giovane uomo da una fila
di condannati alla deportazione
lo ha messo al braccio della figlia come un fidanzato
e hanno continuato a camminare.
Gli ha salvato la vita, per anni
ha scritto gli auguri per Natale.
Piuttosto che niente, diceva allegra e svelta,
meglio piuttosto, e apriva un ventaglio
di possibilità!
e mia madre:
Le ho chiesto: ma i tempi delle foibe
sono stati terribili?
Sembrava esitare: intanto è stato breve
poi sono arrivati gli alleati
(usavano questa parola: era importante
essere diventati alleati
di quelli che vincevano
erano ricchi e sarebbe finita
quella guerra imbecille e crudele)
e poi gli slavi (ecco gli slavi
dicevano sempre e i sciàvi
li chiamava sua madre) hanno ammazzato
quelli compromessi col regime
ma non li hanno presi tutti
e spesso era gente da poco
come un cugino di mio padre, ha detto.
Invece i tedeschi li ha odiati per anni
non li ha scordati forse mai.
Senza nessuna preparazione politica, si erano staccate dal fascismo e dalla guerra, ecco tutto.
In un modo leggero mi allaccio all’idea di Fortini, che sia la poesia a dare parole a quegli anni e avvenimenti. Ma, in questo caso, proprio al contrario del senso del verso di Dante, che cioè la poesia racconti “quel che tu non puoi aver inteso”. Al contrario, la poesia dirà anche “quel che non puoi nòn (cesura) aver inteso”.
E tutto questo mio discorso ha sicuramente a che vedere con un argomento che è stato a lungo discusso nel femminismo: quello dell’estraneità delle donne alla politica degli uomini.
Ed è invece interessante considerare il coinvolgimento di giovani donne belle e volitive con i capi degli ultimi due governi del capo. Sarebbe opportuno leggere Il trucco, sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, di Ida Dominijanni, Ediesse, 2014.
RESISTENZA.
Resisti anche stasera all’amica
che non sa di essere incinta
e non lo vuole e allora viene a casa tua
e le spieghi che se è maschio è diverso
e lei ci crede e forse lo tiene e poi si vedrà
Resisti al padrone oh! Non si dice!Al datore di lavoro
che si è rifatto il naso, la macchina, la donna
e ti lascia a casa se avessi la casa e vai da tua madre
e lei ti dice che non è giusto non ti preoccupare
ma da domani quello che trovi trovi
perché senza lavoro non si può vivere
Resisti alla fame e vai in stazione centrale
là ti danno una minestra che sa di pesce e la mangi
poi t’addormenti e resisti alla sporcizia alla febbre
Resiti alla mancanza di figli che ti amano e poi
ti mandano all’ospizio perché rompi e non sai
che loro hanno adottato un cane e lo portano
nel parco a fare pipi e la cacca la raccolgono in un sacchetto
Resisti alla moglie che non vuole farti vedere il figlio
perché l’hai tradita quando lei era in vacanza col bagnino
Resisti sempre perché si deve resistere te lo hanno sempre detto
resisti perché la strada è lunga e se non resisti anche i sogni muoiono
e i sogni non devono morire a fa ‘n ….
Emilia Banfi
Da “Poesia e errore”, di Franco Fortini. Da “Al poco lume (1946-1950)”
“Tu guardi e vedi”
Tu guardi e vedi il cielo
tutto intento sui tetti
di nebbia e di ghiaccio muovere una notte
È inverno, dici, e il gelo
avrrà presto ristretti
i fili d’erba e i rivi.
E tu che ancora hai tepore alle dita
tu lentamente scrivi
al lume delle nevi
oscurati pensieri, incerte voci.
Questo è tempo di sonno.
Ma come al sonno lasciare vittoria,
come perdere ancora
il filo della storia
che ogni giorno riprende
la ragione paziente?
Forse pensi che è tardi,
forse che invano guardi
come tutto s’impietri
questo tempo nel cuore, questo inverno.
Ma altri occhi sono fissi ai vetri, altre unghie
incidono i ghiaccioli,
altri uomini contano le stille
delle gronde e resistono alla notte.
1949
LE RESISTENZE ALLA RESISTENZA
Siamo lontanissimi dal clima in cui nel 1965 Fortini scrisse questi appunti. Certo gli storici hanno lavorato bene, smitizzato e rimesso molte idee sulla Resistenza coi piedi per terra. Eppure a me resta il dubbio che il recupero, come scrive Luciano Aguzzi, di «tutta quella «Resistenza» popolare non combattente» – certamente legittimo e prezioso per il lavoro storiografico che deve mirare sempre alla massima completezza possibile della documentazione – sia stato usato («uso pubblico della storia») *anche* per distrarci da una riflessione più rigorosa degli aspetti tragici e sui limiti politici della «Resistenza combattente», impacci derivati a quei nostri coraggiosi antenati dal doversi muovere abbastanza a tentoni nello scontro tra USA e Urss che li condizionò inesorabilmente.
Col tempo proprio questa dimensione politica della «Resistenza combattente» ( lo notava già Fortini a proposito del libro di Claudio Pavone, costretto ad accentuare «l’aspetto etico di quell’evento, a detrimento della valutazione politica») è diventata il bersaglio principale, tanto essa era diventata, quasi subito e in modo chiaro dal 1948, un episodio troppo scomodo, se non indecente, per un Paese “democratico”.
Una prova di quest’arte di “distrazione di massa”? Le ricostruzioni truculente, da “libro nero della Resistenza», di Giampaolo Pansa, non a caso contemporanee alla grancassa altrettanto truculenta del “libro nero del comunismo”.
In passato si era parlato di “zona grigia”. Quindi mantenendo almeno alcune riserve sull’importanza concessa alle varie forme di «non collaborazione» con i fascisti e i nazisti rispetto a quelle esplicite e addirittura armate dei “banditi”. Poi si è finito quasi per avvalorare la tesi che la Resistenza che davvero abbia contato sia stata soltanto o soprattutto quella della «non collaborazione».
Resto dell’idea che, senza l’altra – la combattente e la consapevole politicamente – manco la «non collaborazione» avrebbe fatto capolino. (Come del resto avviene oggi. Perché hai voglia di chiamare ‘resistenza’ quella di «tanta gente [che] resiste fuori dalle fabbriche giorno e notte e lotta per il posto di lavoro», come dice Emilia Banfi. Quello che manca per renderla Resistenza è proprio qualcosa di “combattente” e di politicamente consapevole di chi è il Nemico e di come combatterlo).
Concordo poi con un’osservazione amara di Luciano Aguzzi: fino agli anni Settanta la Resistenza era ancora sentita come mito e problema serio. Almeno dalle minoranze politicizzatesi attorno al ’68-’69. Nel bene e nel male – quanto cruciale questa frase di Fortini: «Gli italiani scoprirono che non esistono cause assolutamente immacolate, che non esistono gruppi di «puri», che le azioni collettive esigono la rinuncia alla integrità e che il rimorso è inseparabile dall’azione» – alcuni fili con quel passato sembravano ricucibili; e riattizzabili alcune braci d’antagonismo non puramente romantico covate sotto la cenere. («A egregie cose…»).
In modi anche illusori, forse. Ma si trattava ancora di illusioni forti e non “mercantilistiche”. Di quelle indispensabili a qualsiasi progetto politico che non s’accontenti di amministrare l’esistente a favore dei già avvantaggiati. Poi non più. Perciò il grosso lavoro storiografico che ancora resta da fare può entusiasmare, sì, gli storici eruditi, ma non più i militanti che devono collegare un sapere specialistico (quale può essere quello della storiografia) ad una visione politica innovativa e lucida.
Gli alunni, che il 25 aprile nel paese di cui parla Mayoor hanno letto qualche lettera dei condannati a morte «organizzati e opportunamente istruiti dalle insegnanti», mi fanno pensare a me bambino e ai miei coetanei, che nel dopoguerra ricevevamo in regalo dei cartoncini da ritagliare in modo da costruire un Villaggio ERP (European recovery program, abbreviato in ERP, il Piano Marshal del 1947). O, più avanti e più cresciuti, quando andavamo ai campeggi dell’Azione Cattolica, dove all’alzabandiera una volta ascoltammo il prete che declamò una lettera di qualche condannato a morte della Resistenza.
No, non capiranno che «ci sono cose che non si possono accettare, come non uccidere e non limitare la libertà delle persone». Come non capivamo noi. Queste sono cose da adulti. E nemmeno gli adulti le capiscono sempre, ma solo momentaneamente e in particolari ed eccezionali situazioni. Quando, cioè, come ricorda sempre uno dei testi di Fortini (quello letto in una scuola), ci si trova, « gli uni contro gli altri», messi di fronte a «dilemmi morali feroci». Oggi tutto congiura nuovamente a evitare questa «macchia» o «vergogna», di cui si “sporcarono” gli uomini ( e le donne) della Resistenza e – appena appena – anche diversi di noi all’incirca tra ’68 e ’78.
La testimonianza autobiografica di Mannacio dimostra a sufficienza e dal vivo che il clima del dopoguerra si presentava alla gente comune, e specie al Sud, come “finalmente pacificato” (democristianamente pacificato). E che solo gli anni dal ’68 al ’78 hanno fatto riemergere contrasti di fronte ai quali i sinceri democratici perderebbero la «necessaria serenità».
In effetti ha ragione Giorgio a dire che sulla Resistenza non esiste una memoria condivisa e non può esserci («La Resistenza e la Liberazione non sono mai state esperienze comuni a tutta la società italiana» ). O che le ferite di allora, quelle procurate dalla «vera e propria guerra civile », non sono guarite. Secondo me, hanno continuato a emettere pus nascosti o decorati da belle parole. Per questo, «osservando come poi la società si sia riassestata senza riconoscere la lezione che poteva derivarci» (come dice bene Annamaria Locatelli), non è possibile commemorare il 25 aprile 1945 accomunati da un genericissimo e astorico «desiderio di pace, di prosperità, di eguaglianza». E che comune denominatore politico è un tale desiderio?
Quella “luce” non c’è stata e gli uomini (meglio gli italiani) hanno ancora una volta voluto le tenebre…( sia pur democratiche).
@ Ennio Abate.
Caro Ennio, prima di entrare in una breve quarantena desidero risponderti perchè l’argomento Resistenza/ Liberazione è cosa nostra o dovrebbe esserlo.Il tuo ” difetto ” – se mi consenti l’espressione – è sempre il solito. Qualcuno propone traguardi minimi e tu dici: sono astorici. Propone – metaforicamente – una luce come simbolo di una ricerca di qualcosa che non c’è ( indicata in traguardi fattibili di un buon vivere ) e tu la chiami tenebre democratiche. Intanto: quando si parla di cose da fare si è necessariamente ” fuori dalla storia ” nel senso che queste cose debbono venire e dobbiamo farle arrivare NOI. Cos’è dunque la tua accusa di astoricità? Ti sfido, dunque, a dirmi tu che storicità hai in mente e come credi possa realizzarsi. Conosci, poi, una via diversa dal buio democratico? Hai in mente un “praticabile sole dell’avvenire ” che ci rischiari? Assumi implicitamente che chi parla così sia o un incapace, o un cieco o un supersoddisfatto o un colluso? Ma ti rendi conto – concretamente – quanti Stati – nel buio democratico – hanno realizzato condizioni di vita accettabili e dunque ” storicamente ” fondate? Io non voglio il Paradiso dei ditattori ma il Purgatorio dei liberi e ciò è realizzabile come dimostrano i fatti se non nostri almeno altrui. Ma si tratta di ” altri ” che tu sembra rifiuti in blocco e senza plausibili e ragioni. A chi giova tale atteggiamento? Un cordialissimo saluto. Giorgio.
@ Mannacio
Caro Giorgio,
velocemente, poi entriamo in quarantena entrambi, perché, come ho precisato in un recente commento a Ezio Partesana i botta e risposta a due sono fastidiosi:
1. Ritengo che un «desiderio di pace, di prosperità, di eguaglianza» non sia un traguardo minimo, ma appunto soltanto u ndesiderio, cioè qualcosa di generico e fuori della storia se non si concretizza in obiettivi politici praticati da forze sociali concrete ( movimenti, partiti, lobby, gruppi di pressione o quant’altro).
2. A ciascuno le sue metafore. Se a te va bene quella della « luce come simbolo di una ricerca di qualcosa che non c’è», concedi che a me piaccia di più quella delle «tenebre democratiche».
3. Non posso accettare il tuo guanto di sfida perché anche per me il “sol dell’avvenire” è tramontato. E anzi è per questo che, secondo me, le «tenebre democratiche» incombono su tutto l’orizzonte. Che poi in queste tenebre si siano realizzate «condizioni di vita accettabili e dunque “storicamente” fondate» è punto tra noi da sempre controverso.
4. È possibile criticare un’idea, un regime, una persona senza svalorizzare o svilire i suoi sostenitori, degradandoli a incapaci o ciechi o supersoddisfatti o collusi? Se sì, continuerò a esercitare la funzione critica. Se no, qualcosa da secoli non funziona in tutto il dibattito filosofico, politico, ecc.
Ogni volta che leggo (o rileggo) F. Fortini, rimango sempre colpita dalla acutezza delle sue osservazioni. Va dato merito però anche a Ennio il quale, con analogo intuito, ha raccolto i punti nodali su cui si può incentrare “oggi” un discorso sulla Resistenza, secondo il sottoscrivibile metodo che le cose le possiamo conoscere soltanto ex post: *L’interpretazione autentica della Resistenza è data dagli anni seguenti, che sono andati in un certo modo e non in un altro modo.*
Un lavoro di riflessione sul senso da dare a questo ‘evento’ non corrisponde in Fortini ad alcun intento celebrativo. Risponde invece al desiderio di affrontare aspetti non visti (oppure ‘non intesi’, oppure ancora, come scrive Cristiana Fischer, *quel che non puoi non aver inteso*) e di cogliere altre sfaccettature che concernono la storia, la morale, la politica e, non ultima, la forma letteraria della poesia.
– Così si può apprendere come *la storia, se esiste, è fatta [‘anche’, aggiungerei io] di individuali tragedie non riscattate, di errore non risarcito, di ingiustizie non sanate; e finalmente dimostrando come, secondo Saint Just, «chi fa le rivoluzioni a metà si scava la tomba», ma può, non si sa mai, insegnare a farle intere* (F. Fortini).
– E inoltre, se una prassi deve essere modificata, *interpretare diversamente la Resistenza lo si può solo nella prassi politica. Una prassi politica diversa da quella che hanno seguito fino ad oggi i partiti di sinistra*. E si impara che *quanto poco eroismi e sacrifici possano fruttare in senso rivoluzionario quando non sia chiara e forte la capacità politica di chi deve reggerli*. Quindi, ancora più valido il richiamo di Lenin al “senza teoria, niente rivoluzione”, oltrechè monito verso i facili entusiasmi nei confronti delle varie ‘primavere arabe’ di recente esperienza.
– Un importante coinvolgimento rivolto alla poesia, *l’unica che sa […..] conservare e interrogare «l’aspetto più atroce e vero della Resistenza»*, ovvero restituire unità di senso alle sue parti epiche, dolorose e tragiche le quali, prese separatamente, ‘schizofrenicamente’, portano ad una lettura scissa:
a) o soltanto ‘eroica’, privilegiando quel *pathos delle «resistenze» [che] ha le sue radici in quello del conflitto con la sorte, col destino e la mortalità*, e che troviamo esportato anche in quel “ora e sempre resistenza”, slogan il più delle volte avulso da una analisi concreta della situazione concreta;
b) oppure rispondente alla necessità di avere un mito fondativo con una sua ideologia e una struttura Costituzionale che intenderebbe azzerarne le contraddizioni interne in vista di un progresso altrettanto mitico (“il sol dell’avvenir”, tanto per fare un esempio);
c) oppure aprire le porte ad una cultura che si appoggia a – ed è nel contempo strumento di – una letteratura che ha perso ogni connotazione critica. *Essa conduce ad una dicotomia fra letteratura autentica e letteratura apologetica e di propaganda, volgarletteratura e letterature di élite. La tematica resistenziale in quanto tale è degradata a pathos, o emotività* (F. Fortini).
E’ pur vero quanto sottolineato da Fortini che l’esperienza della Resistenza fu sconvolgente, tragica e che lavorò nell’intimo più di quanto si potesse sospettare determinando, anche a livello culturale, dei profondi iati. Anche perché portò gli italiani [non tutti e non molti] a scoprire *che non esistono cause assolutamente immacolate, che non esistono gruppi di «puri», che le azioni collettive esigono la rinuncia alla integrità e che il rimorso è inseparabile dall’azione. Scoprirono che è cosa ben diversa sparare al nemico straniero, che parla un’altra lingua, e indossa altri colori e sparare sul tuo concittadino*. [A questo proposito mi è venuto in mente il film di K. Loach, 2006, “Il vento che accarezza l’erba”, sulla guerra d’indipendenza irlandese e conseguente guerra civile, e a fronte del quale ho fatto una riflessione in versi che metto in calce].
Il fenomeno della Resistenza, proprio per le sue contraddizioni e ambiguità (che L. Aguzzi riassume, sia pure a grandi linee, come *un insieme, per un aspetto lotta patriottica, per un altro lotta rivoluzionaria di classe, per un altro ancora solo lotta di sopravvivenza e di rabbia, sicuramente antifascista, ma senza un definito colore politico*) si prestò egregiamente, proprio attraverso il mito della Resistenza tradita, anche a mantenere ipostatizzata l’ideologia della Resistenza come rivoluzione proletaria/popolare mancata. E questa cristallizzazione ideologica non permise a livello teorico – fra le altre concause limitanti – di sondare proprio quelle ragioni strategico-politiche individuate da Franco Fortini e che ne fanno momento antesignano di un pensiero che oggi, solo oggi, si sta facendo strada: * il fascismo non è stato altro che la forma politica che in un paese economicamente e civilmente debole le classi dirigenti si sono scelte per poter avviare il passaggio da una fase di economia prevalentemente agricola ad una di economia prevalentemente industriale; e allora la stessa Resistenza risulterà essere un episodio del medesimo fenomeno, ossia l’operazione politico-militare che ha contribuito a spazzare via i resti di una classe politica inetta ed ha consentito lo sviluppo delle forme moderne di produzione capitalistica anche nella nostra penisola*.
E poi aggiunge un’altra notazione che sarebbe importante sviscerare: * Ma, per una di quelle astuzie storiche che non cessano di stupirmi per la loro estrema eleganza, il decennio di misconoscimento della Resistenza sotto i nostri governi clericali ha consentito la saldatura (o la confusione) fra progressismo radical-democratico antifascista e residui rivoluzionari connessi con la Resistenza*.
Se è pur vero che esiste l’eterogenesi dei fini, è anche vero che c’è stata una buona parte che ha contribuito a mettervi mano. Chi?
—————
Dopo il film Il vento accarezza l’erba di Ken Loach
Fratelli
Insonorità di un’alba senza galli,
il volto già fantasma in controluce,
corpo e anima allacciati in esile consistenza
inginocchiato al margine del prato. Sotto splendeva
il silenzio dell’abisso dove sarebbe caduto
quando la pistola del fratello avrebbe fatto fuoco
e a pancia squarciata le sue budella
– mira alla testa, ti prego, ch’io non le veda –
forse sparse, ma poi le avrebbero raccolte
in degna sepoltura anche se aveva tradito,
ma solo per debolezza. Non nelle intenzioni certo,
ma, nonostante tutto, morte per morte. Negli istanti ultimi
fissò gli stivali del fratello-di-sogni
per un mondo diverso dove però da oggi
posto non ci sarebbe stato per lui perché debole
e in battaglia bisogna essere forti
sopportare le torture, oh come sa torturare bene
il nemico per strapparti le notizie che dovresti
tenere in fondo al cuore. Ma anche l’amico non è da meno
perché c’è la causa, causa giusta, lo dicono tutti.
Meglio allora non avere gli occhi azzurri e i capelli biondi
e avere sedici anni e il corpo sparso di lentiggini
lievi e fugaci come lieve e fugace sarà il respiro ultimo.
Lì ecco il fratello, ancor più che di sangue, sul pianoro dritto
come un dio vendicatore che ha il potere sulla vita,
perfido dio che ci illude di portare verità e giustizia
mentre solo le eriche sussurrano di morte con scabra intermittenza
e questo accade nel momento in cui tenero il fiore
si batte con la fine corteccia e inesausto vibra
quando l’egro nero del cuore piega sul rosato rosso.
Adesso invece un dito roseo piega sul grilletto nero:
ucciderne uno per salvarne cento.
Ma chi sta ad ascoltare i secoli di storia?
Bisogna solo fare,
bisogna compiere, bisogna salvare.
E l’ancella memoria raccoglie vesti attorno allo sterile ventre,
vi tuffa il volto per non mostrare alcun rossore
e il pubblico plaude dietro le bandiere.
Canta “non nobis, domine”.
“Non nobis”.
15.06.2012
R.S.
Er gioco dell’oca
C’è stato Mussolini pe vent’anni
a Duce de sta cazzo de nazzione
e solo co na guera e tanti danni
ciavemo avuto la libberazzione.
Pen tempo doppio ne l’istessi panni
se semo sobbarcati sur groppone
co la Diccìc mill’antri novi affanni
finenno pe tre lustri con Buffone.
Chiamato a sera p’arivà ar mattino
er Grosso Professore boccognano
cià ‘rivortato come an petalino
lassanno er testimone a quer Pisano
scarzato da sto Furbo Fiorentino
che mo se pija tutto chiavi in mano
p’aripercore identico er cammino.
SEGNALAZIONE.
La scrittura, il fascismo, la storia
di Giacomo Sartori
Stralcio:
“Mio padre era stato fascista, lo era rimasto anche dopo, e aveva fatto la guerra. Questo lo sapevo da sempre, era per così dire il suo insolente biglietto da visita. Scrivendo scoprivo però che guerra e fascismo erano indissolubilmente legati. Scoprivo che il fascismo non era l’aneddotico vestito quasi comico, quasi tenero, del burbero e spartano alpinista che non aveva mai rinnegato le sue idee, ricavandone una impertinente maestà appunto apprezzata, per non dire carismatica (stava simpatico perfino a persone che detestava). Era un veleno intimo e viscerale, una logica necessaria e pervasiva, un’infezione della realtà che era entrata anche in me, e era proprio quel fiele che mi rendeva la vita impossibile. Perché anch’io, che mi ero schierato fin da giovanissimo all’estrema sinistra, e che mi ero sempre considerato libero e indipendente, ero contagiato da quelle stesse vicende storiche, coagulate in modi di sentire e esistere. Qualcosa di tremendo ci legava. Il romanzo su di lui diventava un romanzo anche su di me, sulla necessità che avevo provato di liberarmi, rifugiandomi all’estero.”
Leggi tutto: http://www.nazioneindiana.com/2014/12/01/la-scrittura-il-fascismo-la-storia/
* Mi pare un interessante tentativo di scavo della storia a partire da vicende familiari con lo strumento della narrazione.[E.A.]
Questione della zona grigia. L’espressione è di Primo Levi che la usa ne I sommersi e i salvati. Ma PL tratta nel capitolo relativo due differenti questioni: la prima, di carattere antropologico, riguarda la tendenza manichea, il bisogno di semplificare, dividere il male dal bene riducendo “il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro”. L’altra questione è quella del lager, un luogo “dove esiste un potere esercitato da pochi, o da uno solo, contro i molti … un ‘laboratorio’: la classe ibrida dei prigionieri-funzionari ne costituisce l’ossatura … è una zona grigia, dai contorni mal definiti, che insieme separa e congiunge i due campi dei padroni e dei servi.” Propriamente zona grigia è questa, dei prigionieri collaboratori del potere.
Ennio Abate e Luciano Aguzzi usano zona grigia per indicare la resistenza popolare non combattente, con una sfumatura svalutativa in Abate: “in passato si era parlato di *zona grigia*. Quindi mantenendo almeno alcune riserve sull’importanza concessa alle varie forme di ‘non collaborazione’ con i fascisti e i nazisti rispetto a quelle esplicite e addirittura armate dei ‘banditi'”. Infatti per Abate “Senza l’altra – la combattente e la consapevole politicamente – manco la ‘non collaborazione’ avrebbe fatto capolino”.
Aguzzi invece fa una valutazione concreta della sua utilità “Insieme alle formazioni partigiane combattenti, che non avrebbero potuto resistere senza una vasta solidarietà da parte della popolazione, c’è infatti il comportamento della popolazione che, dapprima maggioranza consenziente alla propaganda fascismo (sicuramente fino al 1940, ma forse ancora fino al 1942), fa registrare poi il progressivo distacco e il crescere di quel fenomeno di ‘non collaborazione’ con i fascisti e i nazisti, diventato prevalente nel 1943. Una *zona in gran parte grigia*, dove però la resistenza trova, in varie forme, l’acqua in cui nuotare”.
Nei due casi l’espressione zona grigia concerne un luogo poco chiaro in cui si mescolano politica e morale. (Nel senso di una moralità genericamente umanitaria ho raccontato come mia nonna abbia salvato probabilmente la vita a un deportato, mettendolo al braccio di sua figlia, non mia madre ma la sorella, correndo un certo rischio tutte e tre. Ma politicamente sarebbe stata parte della zona grigia, in quanto aveva sì agito per ragioni di umanità, ma restando in una inconsapevole e passiva non adesione al regime. )
Forse si potrebbe definire zona grigia anche quando non si fa chiarezza sulle scelte che si impongono nella lotta, come spiega bene Fortini: “Quando la violenza delle contraddizioni è portata fino all’orrore, le volontà si fanno implacabili, zone ignorate della coscienza e della società vengono avanti, e scopriamo con spavento e con gioia che la gerarchia degli uomini era, appunto, apparente e falsa. Questo – e non soltanto quello dei partiti politici e delle parole d’ordine – è stato il senso rivoluzionario della Resistenza”. Consapevolezza oggettiva del conflitto tra morale e politica risulta anche dalla poesia di Rita Simonitto.
Sempre di più nel significato di zona grigia si comprende chi non sceglie e chi non combatte.
Ma, dopo la fine degli anni ’70 (in cui si combattevano ancora lotte di liberazione e c’erano vere rivoluzioni), dopo che l’idea di partito avanguardia si è sciolta in niente, dopo che il neoliberismo ha ridotto tutti a imprenditori di se stessi in perenne discesa verso l’impoverimento e in concorrenza con tutti, ma senza conflitto, quando le linee dei padroni e quelle dei servi-funzionari continuano a intrecciarsi confuse e inestricabili… non rischiamo di essere tutti zona grigia?
Sono fermamente convinta di no, perchè non manca e non cessa la consapevolezza politica di dover capire chi è il nemico e come poterlo combattere. Le mie parole sono parafrasi di una osservazione che fa Abate alla poesia Resistenza di Emilia Banfi: “Quello che manca per renderla Resistenza è proprio qualcosa di ‘combattente’ e di politicamente consapevole di chi è il Nemico e di come combatterlo.” In realtà con la sua poesia EB ha mostrato alcuni luoghi in cui non si contiene l’irriducibilità alle ‘tenebre democratiche’: sono forme di combattimento, anche se non sono ‘formazioni’.
…secondo me, c’è sì il rischio di cadere sempre più numerosi nella zona grigia. Intendendo, là dove ci si arrabatta,più che resistere, per rientrare nella situazione di partenza, ovvero non essere travolti…Individuare il nemico lontano è difficile per chi ha perso il lavoro in fabbrica e sciopera per riaverlo, per chi si rivolge all’Opera S, Francesco per un piatto di minestra (mi riferisco alla poesia di Emy)…per queste persone il nemico contingente è la fame o lo spettro della fame…Ancora di più è difficile individuarlo quando la povertà è di tipo morale, con qualche soldo in tasca e tante distrazioni elettroniche e mode, perché la neutralizzazione è totale, si vendo la primogenitura per un piatto di lenticchie…
Il conflitto etica morale ed etica politica posto da Franco Fortini e così tragicamente presentato nella poesia di Rita Simonitto oggi si è appannato, perché qui scivola tutto nell’apparente pace…