Recensione a Il gatto di Fortini, di Donato Salzarulo, La farfalla salata, 2024, pp. 168, gerardoprocaccino@gmail.com
di Massimo Parizzi
Recensire il libro di un autore su un altro autore, come questo di Salzarulo su Fortini, significa recensire un rapporto. Come si fa? In questo caso Salzarulo sembra, ma sembra soltanto, rendere il compito più facile. In uno degli undici testi che compongono Il gatto di Fortini, scritti fra il 1995 e il 2024 – lungo, il rapporto di Salzarulo con Fortini! – in occasioni diverse e per destinatari diversi, in uno di questi testi, dicevo, “Il sogno della casa di Fortini” (pp. 73-79), l’autore racconta, analizza e interpreta un proprio sogno. Ne sono protagonisti Salzarulo, Fortini e sua moglie Ruth Leiser, e vi compaiono anche la moglie di Salzarulo e le loro due figlie e altre persone. Non racconterò il sogno; lo leggerete nel libro. Mi limito a riferire che l’autore ne dà un’interpretazione di tipo più o meno psicanalitico che, però, sfocia in seguito in un’interpretazione politico-sociale interessante e acuta. La prima si può riassumere nel desiderio/bisogno del sognatore di “uccidere il padre”: “I ‘grandi uomini’ meglio tenerli a distanza e, se proprio non è possibile farli fuori, si cominci almeno con lo svalutarli” (p. 76). In sogno, insomma, Salzarulo voleva ucciderlo, Fortini, o almeno svalutarlo.
xxxxAnch’io ho frequentato a lungo il “maestro”, dalla fine degli anni Sessanta a pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel 1994, parlando con lui al telefono, scambiando con lui lettere e incontrandolo insieme ad amici, non frequentemente, una volta all’anno o meno, nella sua casa di via Legnano a Milano. Erano serate che si concludevano a volte a notte fonda, in cui Fortini parlava, parlava, parlava e io ascoltavo restando per lo più in silenzio e da cui uscivo, oltre che con un gran mal di testa, gravato, come Salzarulo, da “un senso di vergogna” e “sottomissione”: vergogna per tutto ciò che non facevo o non facevo abbastanza, cioè leggere, studiare e scrivere, cui s’accompagnava, ancora più intensa, l’ansia vana di rimediare e mettermi subito a leggere, studiare, scrivere. Un’ansia vana, perché leggere, studiare e soprattutto imparare a scrivere e scrivere richiede tempo, molto tempo, e pazienza, e anche perché era un’ansia, almeno in parte, frutto di “sottomissione” a un modello irraggiungibile, e irraggiungibile non tanto (ma anche) perché troppo alto, bensì perché “altro”. La sottomissione annichilisce. Finché un giorno, nel 1983, scrissi per “il manifesto” un articolo in cui, fra altre cose, dicevo che “Fortini non è un modello e neppure un esempio”. Lui se la prese e mi scrisse una letteraccia; io gli “spiegai” e il rapporto riprese. Ma che cosa gli spiegai? Non lo ricordo, ma non gli dissi la verità, e non per timore della sua reazione o altro: semplicemente perché ancora non la sapevo. La verità, che mi aveva spinto a scrivere che non era un modello né un esempio, era, anche per me, il desiderio/bisogno di “uccidere il padre”.
xxxxMa ho detto che, con questo sogno, il compito di recensire il suo rapporto con Fortini Salzarulo “sembra” renderlo più facile. Questo rapporto, infatti, è più profondo e anche più interessante, ai miei occhi, quale si manifesta soprattutto nei testi che l’autore dedica alle poesie fortiniane. Nel primo, “Fortini, testimone del vero” (pp. 9-39), prende in esame poesie tratte dall’ultima raccolta di versi del poeta, Composita solvantur. Leggendolo, come leggendo gli altri, mi sono posto una domanda: che cosa ha cercato o (quasi inaspettatamente?) trovato Salzarulo nelle poesie di Fortini? Le mie risposte: vi ha cercato e trovato la scienza e sapienza ritmica, metrica e prosodica del poeta; dà inizio infatti a tutte le sue osservazioni su ogni poesia analizzandola con scienza e sapienza su questi piani. Vi ha cercato e trovato quanto già si trova in misura maggiore nella saggistica di Fortini: la sua visione del mondo e della storia, del passato, del presente e del futuro e dei loro rapporti (un tema, quest’ultimo, al centro di due testi di Salzarulo: “Leggendo Fortini: l’infinito valore del presente” e “Reversibilità: due forme di trascendenza della vita privata”), le sue “certezze” insomma; ma si leggano al riguardo, a p. 97, le acute osservazioni di Salzarulo sulla dialettica, in una poesia di Fortini, fra certezza e incertezza. Infine (un “infine” che fa riferimento solo alla mia enumerazione, non a una gerarchia d’importanza o altro) vi ha trovato (e cercato?) quanto nella saggistica fortiniana si trova in misura molto minore (ma si trova): quello che Fortini stesso chiama il “niente”.
xxxx“Ho l’impressione che per Fortini” scrive Salzarulo (p. 15), nei “fatti” si possano individuare “le figure anticipatrici del futuro”. E più avanti cita con acume, dagli Studi su Dante di Erich Auerbach, alcuni passi illuminanti, illuminanti anche su Fortini, giungendo alla conclusione che, per quest’ultimo, “tutta la realtà storica deve ritenersi transitoria e imperfetta. Gli avvenimenti, perciò, possono rimandarsi a coppia l’uno all’altro ed è compito d’umana intelligenza coglierli e decifrarli nei loro attributi figurali di anticipazione e adempimento relativo. Le coppie, a loro volta, rimandano ad un futuro che è ancora da venire”. “Per milioni di uomini e donne di questi ultimi due secoli, e Fortini fra questi” prosegue Salzarulo “questo futuro ha preso il nome di comunismo.” Se è questa, la “certezza” su cui Fortini ha scommesso la sua vita e della sua vita ha fatto un compito, e lo è, è tuttavia “quando pratico col niente” che, scrive il poeta stesso, “torno, il mio compito, a saperlo”. E altrove parla dell’«ampiezza del nulla che accompagna l’azione positiva». Il comunismo non era per Fortini una certezza, ma, come scrisse egli stesso da qualche parte, una “scommessa”: una scommessa su cui puntò la sua vita, ma una scommessa, la cui vincita non era garantita da nulla. Ma Salzarulo, nel leggere Fortini attraverso Auerbach, osserva anche che “non si può applicare alla storia un modello d’interpretazione figurale senza credere che la verità a venire … non sia in qualche modo da sempre presente in quel ‘sereno/dove il celeste posa in sé’” (p.22).
xxxxDa qui è breve il passo verso la vexata quaestio del Fortini “credente”, di cui però, scrive Salzarulo (p. 21), parlare è “difficile e imbarazzante”. L’imbarazzo non è solo suo. Ricordo che, nel corso di un’affollata commemorazione pubblica di Fortini tenutasi a Milano poco dopo la sua morte alla presenza di Ruth Leiser, uno dei suoi medici (negli ultimi tempi, mi aveva detto al telefono Ruth, voleva parlare solo con i medici) raccontò che un giorno Fortini gli aveva confidato che “credevo che fosse una madre, e invece era un padre” e, a questo punto, il medico sollevò l’indice al cielo. Per la sala corse un brusio di irritazione, fastidio. Io provai fastidio, invece, per quella espressione di fastidio, tipica, mi parve, della sinistra “laica e progressista” che Fortini detestava. Le conversioni in punto di morte, è vero, suscitano quasi sempre fastidio, come se fossero dettate da opportunismo. Ma in punto di morte ci si trova di fronte al “niente” (all’“atroce no return scritto nei vetri di certe bottiglie”, scrisse Fortini), e ben poco è all’altezza del “niente” come la religione. Del resto, le religioni nascono dalla morte. Non voglio dire con questo che quella di Fortini sia stata una conversione in punto di morte, né che il “niente” dal quale egli “torna, il suo compito, a saperlo” sia una visione religiosa. Non so nessuna delle due cose e Salzarulo, in questo, non è d’aiuto: “Fortini era un comunista e cristiano sui generis” scrive (a p. 153), ma altrove cita di Fortini un’affermazione, o un invito, che ho da sempre fatto mio: “Dobbiamo avere la capacità e la spregiudicatezza di vedere che alla parola di Dio possiamo sostituire, ad esempio, un valore trascendente, una meta che si propone a tutta l’umanità” (p.138). Non saprei dire esattamente neanche, e neanche in questo Salzarulo è d’aiuto, che cosa sia il “niente” di cui Fortini parla, ma lo intuisco abbastanza da pensare che non sarebbe inutile seguire l’invito implicito e “praticarlo”, noi, talmente assediati e invasi dal niente che, il “niente”, non riusciamo più nemmeno a ipotizzarlo, tanto meno a scorgerlo. E forse a praticarlo ci può aiutare un altro invito di Fortini: “Per ora guardate la bella curva dell’oleandro, / i lampi della magnolia” (p. 81).
xxxxUno dei meriti di questo libro è che la figura di Fortini che ne emerge corregge, se non confuta, quella di una vulgata che vede in lui un marxista e comunista, eretico certo, ma tutto d’un pezzo. Marxista e comunista lo era, non c’è dubbio, e lo era anche “tutto d’un pezzo”, se con questa espressione s’intende che marxismo e comunismo hanno permeato tutta la sua opera e la sua attività, non restando confinati alla dimensione strettamente politica come in altri (simili in questo alla stragrande maggioranza dei cattolici del nostro paese, che lo sono soltanto la domenica a messa). “Tutto d’un pezzo” non lo era, però, in altri sensi: come Salzarulo mette in rilievo, il dubbio, le domande “ultime”, il “niente”, l’incertezza erano in lui sempre presenti ed esigenti. La stessa vulgata ha anche sempre visto in Fortini un cerbero, sempre pronto a rimbrottare, dare lezioni, condannare. Al riguardo mi permetto un ultimo ricordo personale: nel 1977 concluse una lettera, inviata all’amica scrittrice con cui andavo a trovarlo, Paola Cusumano, scrivendo “i saluti e gli auguri di Franco F., che vorrebbe essere amatissimo e sa solo rendersi antipatico”. Parole di un cerbero?
*La foto di copertina è tratta da qui: https://issuu.com/hystrio/docs/hystrio_2018-4_/s/11128581