Introduzione a “Nei dintorni di Franco Fortini”


di Ennio Abate

Ma scrivi sulle orme del nostro antico e logico disegno. Evidenziale, anneriscile,
se hai solo il nero. Preziose sono anche le residue ombre»
                              (Ultimo dialogo tra il Vecchio Scriba e il Giovane Giardiniere)

Nel 1991 avevo pensato ad uno studio ampio su Fortini e la sua opera e gli avevo trovato il titolo che oggi ha questo libro,1che è un resoconto di ricordi, appunti e riflessioni dal 1978 al 2024. È suddiviso in sette sezioni: – Un filo tra Milano e Cologno Monzese, cronaca di alcuni incontri con Fortini, da solo o con altri, nell’ultimo decennio della sua vita; – Per rubare bene le ciliege, appunti su questioni di poesia e letteratura da lui trattate; – In dialogo e in polemica, riflessioni su scritti di intellettuali, interlocutori o antagonisti di Fortini; – La polis che non c’è, su «questioni di frontiera»: guerra e pace, conflitti sociali e politici degli anni ‘70 in Italia, comunismo; – Poeterie per FF, versi miei a lui dedicati; Ruth e Franco, due ritratti per avviare una ricerca su un Fortini più quotidiano.
A chi mi chiedesse perché, tra tanti scrittori importanti, proprio Fortini abbia ricevuto stima e attenzione così prolungate nel tempo da parte mia,
rispondo così. Perché più e meglio di altri ha difeso una idea di poesia, di letteratura, di politica, di visione comunista e critica del mondo sia nel biennio politicamente esaltante del ‘68-’69 sia dopo, nella crisi degli anni Settanta (compromesso storico, uccisione di Moro, scioglimento del PCI) e fino alla sua morte avvenuta agli inizi delle attuali guerre “democratiche” o “permanenti”.
E
perché il libro esce così tardi? Per la fatica di rimeditare il vuoto lasciato dalla scomparsa di quelle speranze affiorate quasi di colpo proprio nel ’68-’69. Potrei aggiungere che sono rimasto per tanto tempo nei dintorni di Franco Fortini per non abbandonare, a causa della sconfitta, le verità «nostre» che in quegli anni confusamente intravvedemmo e non metterci definitivamente una pietra sopra a quelle speranze.
Oggi, da vecchio, questo mi pare il senso del percorso che ho fatto attorno a Fortini e nei suoi libri.
Sono partito dalla lettura di «Questioni di frontiera» nel 1977, cogliendo diverse somiglianze tra il suo percorso di intellettuale e di militante politico
e il mio. Ho poi approfondito i suoi scritti – saggi, poesie, articoli sui giornali -, che mi hanno aiutato a riannodare il filo spezzato tra la generazione dei padri (Fortini stesso, mio padre, altri) e la mia. E capito meglio sia la tragedia del fascismo, che aveva costretto al mutismo gli adulti con cui ero cresciuto al Sud (mio padre, meridionale, contadino e militare in due Guerre Mondiali, mia madre, ricamatrice e casalinga, i parenti, i miei stessi professori di liceo) e sia quella del comunismo sovietico, sottovalutata dai compagni con cui mi ero messo nel ‘68-’69.
Nei trent’anni dopo la scomparsa di Fortini
 ho continuato a confrontare le immagini sue delineate da altri – del poeta, dell’ospite ingrato, dell’intellettuale del ‘68, del comunista senza partito, dell’uomo con «una fragilità di fondo nell’ambito degli affetti» e, più recentemente, del pedagogista gramsciano – con quelle che mi ero  costruito io: del «compagno “saggio”, di una generazione “eroica”», del «maestro» sia pur «a distanza»,2 di un Fortini “quasi in esodo” o del Vecchio Scriba. Notando ora le concordanze ora le discordanze tra me e gli altri studiosi di Fortini. Come se ci fosse tra me e loro una sorta di tiro alla fune mai dichiarato apertamente sull’aut aut: proteggere quelle verità o gettarle via perché diventate un carico insopportabile.
Tante cose sono
cambiate nel frattempo. Eventi tremendi – guerre, massacri, impoverimento, smarrimento politico e morale, impotenza degli individui ridotti a spettatori – rendono il «combattimento per il comunismo» auspicato da Fortini più arduo o persino impossibile.
Il mio libro fuori stagione, mai dimentico
però del «Conflitto sconfitto»3 e del bisogno di costruire un progetto e un’autorità collettiva secondo l’indicazione fortiniana di combattere il disordine e di dare forma (comunista) alla vita, cerca lettori tra quanti resistono al caos del presente e non sopportano di vivere alla giornata o – chi ancora ce l’ha – di ritirarsi a coltivare il proprio giardino.

 

Note

1 Lo stesso di una rubrica del sito Poliscritture, dove dal 2006 raccolgo anche testimonianze e contributi di altri su Fortini. Il titolo vorrebbe sottolineare il mio punto di vista periferico, estraneo ma non ostile di per sé a quello dei docenti universitari o accademici. Almeno fin quando non danno prova di quell’«aristocraticismo dottorale della gente coltivata [che] inclina a ritenere che tutto quanto viene pensato, sentito, vissuto, ecc. in “basso“ può essere solamente un prodotto di impulsi provenienti dall’alto» (G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Roma, Editori Riuniti, 1981). Ci tengo a far sapere che chi scrive è nato e si è formato in Sud Italia, abita dal 1964 in periferia – a Cologno Monzese nell’hinterland di Milano – e nella vita ha fatto l’insegnante di italiano e storia nelle superiori. É uno, cioè, che Fortini poteva anche non incontrarlo mai, così tante erano le differenze di generazione, di geografia, di collocazione sociale e di formazione che lo separavano da lui e dal suo mondo.

2 Questa definizione potrebbe apparire ambivalente. Psicologicamente segnala rispetto e sospetto, reazione di molti e abbastanza consueta nei confronti di Fortini o verso l’autorità in genere. Certo, ho provato grande rispetto per lui. L’ho sentito un consapevole magister. E mai ho dubitato dell’ampiezza della sua cultura o della sua forza morale (cristiana e comunista) nel partecipare alla vita pubblica. Il sospetto, nel mio caso, nasceva  dal volermi far carico pienamente e a volte persino con orgoglio della mia condizione di «intellettuale di massa» o di «periferico». Col rischio di contrappormi – da nano di fronte a un gigante, mettiamola pure così – alla reale o supposta centralità di Fortini e del suo ambiente universitario. E non ho mai voluto sorvolare su tale diversità o differenza. Anche prima d’incontrarlo mi era chiaro che pensavo e agivo rasoterra, in periferia. E definitivamente, per tutta la mia vita. Tanto che avevo fatto mio un detto di Bertolt Brecht: «Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!». (Dal frammento La bottega del fornaio)

3 Cfr. L’albero gramo: l’albero svetta là,/sulla strada dimenticata!/ Orrido non è./ Alle belle onde non cede./ Non gocciola spiccioli / d’imposti doveri. /E dà dolore vero,/ poiché innalza / il Conflitto sconfitto, /scorcia il nostro sgomento / e fermo ve lo ritorce.

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