di Edoardo Chiti
Angelo Australi, Passeggiare dove sono di casa, Firenze, Editrice Fiorentina, 2024
1. Si inizia con un brano di Ottiero Ottieri (“Il «passo» vero, calcolato, matematico della pressa chi lo conosce?”), si chiude con il Biglietto lasciato prima di andar via di Giorgio Caproni, meravigliosa poesia del Franco cacciatore. Al centro, quattro racconti – genere nel quale Angelo Australi è maestro – che raccontano altrettante passeggiate. E che il lettore compie seguendo la parola, vero e proprio tappeto magico, portale capace di aprire nuovi mondi. E dalle quali si esce più incerti, con nuove domande, eppure, proprio per questo, più maturi. Perché il cuore del libro, impreziosito da una bella postfazione di René Corona, sta nell’intreccio di questo doppio materiale: da un lato, la forza della pura parola, la capacità dello stile di costruire mondi affidandosi all’immaginazione moltiplicatrice del lettore, dall’altro, la forza sottile delle meditazioni che muovono il racconto e interrogano il lettore.
2. Chiediamoci, anzitutto: chi sono i protagonisti di questi racconti? Chi passeggia?
C’è un personaggio principale, ed è sempre lo stesso in tutti i racconti: si chiama Spartaco, ha una moglie di nome Ambra e una sua storia. Viene chiamato per nome in tutti i racconti, ad eccezione del primo: dove si fa comunque riferimento a sua moglie Ambra, in modo che il lettore capisca, almeno retrospettivamente, che è lui.
Questo Spartaco lo troviamo in molti racconti precedenti di Australi. Ad esempio, c’è uno Spartaco bambino in La vita dell’albero e la mia e ne L’occhio di Polifemo. Mettendo insieme questi e altri racconti, possiamo ricostruirne la storia. Scopriamo che ha un passato, che è cresciuto nel Valdarno superiore, nel triangolo compreso tra Firenze, Arezzo e Siena, viene dal mondo contadino ma ha conosciuto quello operaio, è stato iscritto al Partito Comunista, ha due figli, legge come un matto. Se non conosciamo questa storia, perché non abbiamo letto i racconti precedenti, lo incontriamo per la prima volta nelle righe iniziali del racconto che apre il libro. La mascherina gli copre le labbra. Ma nonostante la bocca tappata, ha pensieri molto vivi e ci racconta molto di sé.
Chi è Spartaco? È uno di noi: un essere umano impegnato nella vita. Nella sua catena di responsabilità, dalle quali è difficile sfuggire e che rischiano di impoverirci. Ma anche nella sua bellezza, nella poesia che si annida nei gesti quotidiani, nel «qui e ora», così come nei ricordi. Il suo tratto principale è questo: Spartaco non è un eroe, non vuole rubare il fuoco agli dei o compiere grandi imprese. Se è un eroe, è un eroe quotidiano. Vuole vivere, vuole mettere in relazione il «contingente», il «qui e ora», appunto, con il momento assoluto. Da questo punto di vista non schiaccia il lettore, non lo domina. È una presenza forte eppure gentile, discreta.
Sarà un caso, ma questa presenza forte e gentile si riflette in una scelta narrativa particolare: Spartaco parla in prima persona in tutti i racconti tranne che nell’ultimo. Che sia un modo per evitare di rendere troppo ingombrante l’ego di Spartaco? Per vederlo da fuori, metterlo in prospettiva, aiutare il lettore ad accomiatarsi da lui?
3. Cosa fa Spartaco, ce lo dice il titolo: passeggia. E, bisogna aggiungere: mentre passeggia, osserva, pensa e parla. Ma le passeggiate sono tutte diverse.
Nel primo racconto, Isolato dietro un muro di pensieri, passeggia, pensa e si scambia messaggi con un amico scrittore. Soprattutto, però, pensa. E pensando, ricorda e racconta, e in particolare racconta del suo viaggio di nozze (senza prenotazioni, all’arrembaggio). È una passeggiata interiore, quella alla quale partecipiamo.
Nel secondo racconto, La barzelletta dei due frati, Spartaco, in effetti, non passeggia. Vorrebbe passeggiare, sta per iniziare ed è già immerso nei suoi pensieri quando un suo amico gli si para di fronte e lo blocca. L’amico si chiama Ottorino (e il lettore si chiede: ma anche questo Ottorino avrà una storia, in qualche racconto precedente?). Ottorino racconta una barzelletta, che poi è una storia. Spartaco non apprezza (il lettore sì). Ma il punto è che questa è una passeggiata mancata, interrotta sul nascere. Una passeggiata desiderata che poi diventa qualcos’altro, e di altrettanto bello: l’ascolto di una storia raccontata da un amico.
Nel terzo racconto, Il lusso democratico italiano, la passeggiata è amara: viene condizionata da una pubblicità che guasta l’umore di Spartaco ma attiva la sua mente e i suoi pensieri. Spartaco torna a casa, dialoga con se stesso attraverso un ritratto fatto da un amico. E questo dialogo interiore lo porta a pensare all’amico autore del ritratto, che si è suicidato a Milano, con la tv accesa. Questa passeggiata è diversa dalle due precedenti: è una passeggiata politica, perché è politico il mondo nel quale viviamo, come direbbe Bob Dylan, ed è inevitabilmente politico ciò che facciamo.
Nell’ultimo racconto, intitolato …Il bianco e il nero sono due colori senza tinta, la passeggiata è un incontro umano. Mentre passeggia, Spartaco si imbatte in un uomo «che sembrava molto vecchio», si siede accanto a lui e parlano. Conversando, entrano in contatto l’uno con l’altro. L’ultima, bellissima frase del racconto lo dice in maniera quasi biblica: il vecchio apre il suo regno a Spartaco e lo invita a prendere i suoi frutti: quelli materiali, cioè i frutti della terra, ma anche quelli non materiali, ovvero la propria umanità.
Dunque, Spartaco passeggia. Ma lo fa in molti modi diversi. Questi racconti si aprono alla varietà del passeggiare. E ovviamente, questa varietà di modi nel passeggiare interroga anche noi lettori: qual è la cifra delle nostre passeggiate? ci chiediamo man mano che procediamo nella lettura e i racconti trovano la propria risonanza dentro di noi.
4. Le quattro passeggiate hanno una collocazione temporale precisa, che è quella della pandemia e del lockdown. Le storie, in altri termini, si svolgono nel passato recente. Un passato-presente, si potrebbe dire: un passato che non è ancora passato del tutto.
E tuttavia, questo passato-presente è il punto di partenza per qualche viaggio nel passato-passato. Sono viaggi nel tempo, quelli che Spartaco fa con le proprie meditazioni, seguendo i propri ricordi, ricostruendo, evocando episodi, persone, situazioni del passato. Si tratta di un tratto distintivo dell’opera letteraria di Australi, al di là di questi racconti. L’uso del tempo verbale riflette questa prospettiva: un racconto è al presente, due al passato prossimo e nell’ultimo viene usato il passato remoto. Il passato-presente è un momento specifico raccontato con una tavolozza ampia di tempi verbali, che danno movimento, dinamismo temporale al racconto.
Con una particolarità, che vale la penare sottolineare. In questi racconti, Spartaco non si muove mai verso il futuro. I suoi pensieri sono qui e ora, ma si aprono anche al passato, come si è detto. Invece, non immaginano il futuro. Spartaco non fa profezie, non si chiede cosa gli riservi il destino, non gioca con ciò che deve ancora accadere. Una forma, forse, di saggezza? Di radicamento nel proprio mondo e nel proprio tempo, che rende inutile interrogarsi su ciò che verrà?
5. Oltre al quando, è importante il dove. Le passeggiate si svolgono – ci dice il titolo – «dove sono di casa». In luoghi familiari.
Ma come sono fatti questi luoghi familiari, questi luoghi nei quali Spartaco è di casa?
Eccoli, in ordine di apparizione: il piazzale del supermercato, il centro della cittadina, l’argine del torrente (presentato come il «cacatoio cittadino»), gli argini del fiume, una rotatoria al confine tra la zona industriale e quella commerciale, di nuovo il fiume (ma questa volta è il greto del fiume, al quale si arriva per un sentiero «tortuoso e pieno di tranelli»).
Nel complesso, è un paesaggio urbano, il paesaggio ordinario di una provincia italiana. Ma è dominato dal fiume. Il fiume, l’acqua, è il vero baricentro. Si cammina a fianco del fiume, ci si siede di fronte al fiume. Questo fiume non offende (al contrario delle pubblicità), ma piuttosto innesca i pensieri di Spartaco, dà loro un ordine, seppure fluido, acquatico.
E allora, questi luoghi sono familiari non solo perché Spartaco vi è cresciuto, e neppure solo perché sono vicini alla vera casa di Spartaco, alla sua abitazione. Sono familiari perché Spartaco vi ritorna. Siamo vicini a ciò che scrive Eliot nei Quattro quartetti. Sono due passaggi diversi: nel primo, Eliot scrive «casa è da dove si inizia» (Home is where one starts from); nel secondo, molto più avanti, Eliot scrive «la fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere nel luogo dal quale siamo partiti e conoscerlo per la prima volta». Questo punto di partenza, di ritorno e di nuovo inizio, nel caso di Spartaco, è il fiume. Che è scorrere, fluire, ritmo musicale, liquido amniotico, madre e molte altre cose ancora.
6. La letteratura è piena di passeggiate. Il vagabondaggio, il passeggiare è un archetipo della letteratura: li troviamo nelle favole, nella letteratura picaresca, ma anche e soprattutto nella letteratura moderna. In questa letteratura, però, si passeggia in mille modi diversi. C’è un tratto comune, quello della libertà della passeggiata, nei fini, nei modi e nei tempi. Ma i significati del passeggiare possono essere molti e diversi tra loro. Ci sono passeggiate esperienziali, dalle quali si impara; passeggiate sapienziali, nelle quali si procede nel percorso verso la saggezza; passeggiate morali; passeggiate romantiche; e molto altro ancora.
Qual è, allora, il senso del passeggiare di Spartaco?
C’è una pista, nel libro, un’indicazione che indica al lettore la direzione. Sono i versi finali della poesia di Caproni che chiude il libro: «Il mio viaggiare è stato un restare qua, dove non fui mai».
I versi, lo si è ricordato in apertura, sono tratti da Il franco cacciatore. Il titolo della raccolta è lo stesso di un’opera tedesca romantica del primo quarto dell’Ottocento: un’opera di Carl Maria von Weber, il cui libretto era stato scritto a partire da una novella contenuta in un libro pubblicato nello stesso periodo da due autori tedeschi, Schulze e Apel. Siamo in Boemia, intorno al 1625. Il protagonista della novella è un guardiacaccia in declino, al quale un cacciatore offre dei proiettili magici. Il cacciatore ha un piano: farà in modo che con i proiettili magici il guardiacaccia uccida la sua fidanzata, così da essere condannato a morte; e la sua anima andrà a un demone, con il quale il cacciatore ha stretto un patto. La vicenda finisce bene. Ma quello che interessa è il personaggio del «cacciatore libero», che può sparare proiettili magici e, così facendo, corre un rischio, perché almeno uno dei proiettili è quello del diavolo.
Caproni riprende l’idea del libero cacciatore. Ma la sua caccia diventa la ricerca di Dio. Ad esempio: «L’occasione era bella. Volli sparare anch’io. Puntai in alto. Una stella o l’occhio (il gelo) di Dio?». Però, questo colpo va a vuoto. Caproni parla espressamente di una «stoica accettazione», quella della «solitudine senza Dio». Fino alla poesia che chiude la raccolta, Conclusione quasi al limite della salita: «- Signore, deve tornare a valle. Lei cerca davanti a sé ciò che ha lasciato alle spalle.»
C’è forse un gioco di rimandi tra il passeggiare di Spartaco e la libera caccia di Caproni. Ci si chiede se anche nei racconti di Australi non vi sia, in fin dei conti, una ricerca di Dio, un passeggiare sulle sue tracce, per poi scoprire che ciò che si cerca è dietro di noi, nel nostro passato, nella memoria, e arrivare a un’accettazione stoica della solitudine senza Dio. Spartaco come il franco cacciatore di Caproni, dunque. O come l’Ulisse di Saba, ormai vecchio e stanco, eppure sospinto al largo dal «non domato spirito, e della vita il doloroso amore». E non è forse un endecasillabo il titolo del volume di Australi? Non portano con sé la trama della poesia i racconti che lo compongono.
Ma forse questa citazione di Caproni è una falsa pista, un’indicazione che svia il lettore e lo manda nella direzione sbagliata. E un altro è il senso del passeggiare di Spartaco.
In questi racconti, passeggiare significa fare due cose insieme: ritornare ai nostri paesaggi interiori, ai molti luoghi che abbiamo dentro di noi; ma anche riconoscere il paesaggio intorno a noi, aprirci a questo paesaggio esterno. E a volte (non sempre, ma a volte sì) questi due paesaggi coincidono: camminando, un passo dopo l’altro, oppure sedendosi sul greto del fiume, può capitare che il paesaggio interiore e quello esterno entrino in contatto tra loro e addirittura si sovrappongano. E allora noi siamo immersi nella realtà, abbiamo penetrato la realtà e la realtà ci ha accolto, siamo parte della vita, del qui e ora della vita, di questo insieme di esseri viventi che esiste insieme, qui e ora.
È probabilmente questo, il passeggiare di Spartaco. È la ricerca di questa epifania. E del resto, c’è un passaggio nel quale Spartaco lo dice apertamente: «la preghiera è osservare il paesaggio con attenzione. Una preghiera che facciamo a noi stessi, più che ai defunti. Credo sia proprio questo il loro desiderio: che ci perdiamo nella quiete del luogo». Quasi una confessione.
Un’ultima notazione: è proprio su questo piano che emerge una tensione probabilmente irrisolvibile della poetica di Australi. È una tensione che riguarda il ruolo stesso della letteratura.
Per un verso, non possiamo fare senza la letteratura. È il modo per sviluppare paesaggi interiori. Ma è anche il modo per ‘osservare il paesaggio’ esterno con attenzione. Ed è il modo per mettere in relazione questi due paesaggi. Se è lecito rovesciare García Márquez, non si vive per raccontarla, ma si racconta per vivere, per entrare nella pienezza della realtà e della vita. E qui forse si capisce anche la ricerca della perfezione stilistica che anima l’opera di Australi. Se la letteratura serve a sviluppare i luoghi interiori e a osservare quelli esterni, allora va maneggiata con molta cautela. Lo stile diventa decisivo, lo strumento senza il quale non andiamo da nessuna parte.
Per altro verso, la letteratura non può doppiare la realtà. In un’altra raccolta di racconti, Angelo chiude il volume con una frase di Paola Capriolo che dice esattamente questo: «la lingua delle cose è il silenzio, non vi è logica né grammatica che possa articolarla». E solo la poesia, «sfiorando il proprio dissolvimento, può forse tentare di alludervi».
Ecco: questa tensione è tutta interna al libro di Australi: dobbiamo scrivere per entrare nella vita, ma entrandoci dobbiamo accettare di dissolvere la letteratura.
“Il mio viaggio è stato un restare qui, dove non fui mai” ( Il franco cacciatore di G. Caproni”), versi che stanno in conclusione ai quattro racconti della raccolta di Angelo Australi e ne concentrano il complesso significato, immagino. Un viaggio lento che ha la dimensione di una passeggiata nell’osservazione di un paesaggio urbano raggiunto dalle contraddizioni del nostro tempo e di una quieta campagna nel periodo del covid, quindi prevalentemente in solitario. Spataco, l’alter ego dell’autore, passeggia solo ma nei ricordi evoca altri viaggi e personaggi come il viaggio di nozze con la moglie e quello culturale sulla tomba di I. Calvino …Viaggi nel tempo passato e nel presente, ogni incontro è un viaggio in altre dimensioni dell’umano, come con il vecchio contadino che coltiva alla maniera antica il suo orto sulle rive del fiume o l’amico Ottorino in vena di raccontare una sagace barzelletta d’altri tempi…Un passeggiare meditativo in un viaggio nel reale, l’amata provincia che Spartaco, l’alter ego dell’autore, non ha mai voluto lasciare, ma anche surreale e intriso del sentimento del mistero…Una realtà “dove non fui mai”, che resta, anche nell’arco di un’intera vita lì vissuta, sconosciuta, inesplorata e dove si ha l’amara impressione di dover ricominciare sempre da capo nella conoscenza: “Signore, deve tornare a valle. Lei cerca davanti a sè ciò che ha lasciato alle spalle”.( sempre Caproni)..La vita come labirinto, rompicapo, dove il senso sfugge ma va accolta nel suo mistero
Grazie Annamaria e, naturalmente, grazie Edoardo, per la profonda e stimolante analisi del mio “passeggiare”.
Mi fate davvero venire la voglia di riprendere in mano l’idea di un romanzo abbozzato qualche anno fa. In realtà molto più di un’idea perché ne avevo già scritte un centinaio di pagine ed avevo in mente il finale (un capitolo per esempio è diventato il racconto, “Lo sbarco sulla luna”, pubblicato proprio su Poliscritture). Del romanzo avevo in mente anche il titolo “Il pozzo di San Patrizio”, con riferimento al pozzo cinquecentesco di Orvieto, che arriva ad una profondità di 54 metri, ed è composto da due rampe elicoidali a senso unico. Cioè si scende da una rampa, si sale dall’altra. Ebbene il finale che avevo in mente per questa storia era l’incontro di Spartaco con un amico sugli argini del fiume, che si mettevano a parlare sul tempo trascorso e le tante cose fatte insieme. Ad un certo punto l’amico di Spartaco diceva che le esperienze sono un po’ come il pozzo di San Patrizio, che quando si è toccato il fondo di una storia si finisce per risalire da un’altra parte. La risposta di Spartaco sarebbe stata invece più contraddittoria: perché per considerare chiusa un’esperienza bisogna risalire il pozzo sempre dalla strada per la quale uno è sceso.
Il finale vero e proprio che avevo in mente era l’immagine di un bambino bello paffutello che ha seminato del grano sotto il noce situato di fronte alla casa colonica dove abita . Un piccolo campo rettangolare della grandezza di un asciugamano dove i germogli di grano color verde smeraldo venivano accuditi con i suoi giocattoli…
Sarà bello leggerlo! L’immagine finale è di molta speranza! Grazie Angelo
Vediamo un po’, … la voglia è tornata…