Ezio Partesana: «Un giudice incapace» (1)

di Donato Salzarulo

Le poesie di Partesana resistono. Resistono a chi legge, a chi vorrebbe addentare facilmente il loro senso, il loro contenuto di verità; sembrano costruzioni strane e stranianti, non tanto per la loro difficoltà di lessico o di sintassi, quanto per il nucleo oscuro che rimane dentro o al di là dei versi e delle strofe. Ad ogni lettura e rilettura qualcosa non torna. «La lettera arriva / a destinazione», ma ci arriva «Insieme all’errore / e alla traduzione» (pag. 71). Da qui il bisogno di comprendere come Partesana traduce il suo Sé, il suo vissuto, la sua esperienza della poesia nel filtro della lingua e se vi è errore – mi viene in mente l’endiadi «Poesia e errore» di una famosa raccolta di Fortini – la necessità di comprenderne la natura. Siccome credo che non si possano giudicare i libri senza leggerli con tutte le attenzioni dovute, mi sono permesso di esaminare, secondo una prospettiva linguistico-tematica, le prime dieci poesie del volumetto «Un giudice incapace» (Zacinto Edizioni, 2024)

IMPRESSIONI E DOMANDE SUL TITOLO.

La mia impressione è che susciti più l’aspettativa di un racconto che di una raccolta poetica.
Radice: “ius”; tema: “dicere”. Significato letterale: “chi dice il diritto”. Ossia chi ha l’autorità e la competenza per emettere giudizi, pareri, decisioni. “Giudice” di cosa? Di una controversia, di una gara, del proprio operato? Se questo giudice è “incapace”, vuol dire che non ha la preparazione e le attitudini necessarie a fare ciò che gli viene richiesto.
L’articolo indeterminativo lascia nel campo dell’indefinito e del generico questo giudice, lo lascia senza identità.
In che rapporto sta questo titolo con le poesie raccolte nel volumetto? Dobbiamo aspettarci poesie in cui, in qualche modo, l’attività del “giudicare”, cioè del “dire il diritto”, è ritenuta il frutto di un’autorità non in grado di fare ciò, inidonea, priva della capacità necessaria?… Può fungere da bussola?


PRIMA POESIA:

Spero e non credo
nella redenzione delle promesse
e nella pace dei morti,
ma so anche il vizio
continuo e la tromba delle scale.

Il cielo sepolto
sopra Torino.

Senza candela
la bugia è rimasta
sepolta da rime
che non servono a niente.

Undici versi irregolari, distribuiti in tre strofe irregolari di cinque, due, e quattro versi.
Escursione metrica da 5 a 11 sillabe. In particolare: tre quinari (vv. 1, 7, 8), tre senari (vv. 4, 6, 10), due settenari (vv. 9, 11), un ottonario (v. 3), un decasillabo (v. 5) e un endecasillabo (v. 2).
Figure d’iterazione: paronomasia di “sepolto” / “sepolta”
Musicalità assicurata quasi esclusivamente da allitterazioni (esempi: cREDo, REDenzione; pROMesse, tROMba, RIMasta, RIMe, ecc.), assonanze e consonanze.
La sintassi della prima strofa è composta da tre proposizioni coordinate. La prima si limita ad affermare che l’Io poetante spera (in cosa, non è detto); la seconda, coordinata alla prima per polisindeto, è la negazione di una credenza: l’Io non crede «nella redenzione delle promesse / e nella pace dei morti». Sperare, credere o non credere, redenzione, promesse sono termini appartenenti al lessico filosofico-religioso. L’Io poetante non si sottrae alla speranza; si sottrae invece alla credenza sulla “redenzione delle promesse”.
Di quali promesse si tratta? Figli della promessa, si legge nel Dizionario Treccani, è «espressione che ricorre più volte nell’Antico Testamento con riferimento agli Ebrei, discendenti di Abramo, per le promesse a lui fatte da Yahweh circa la sua discendenza; ripresa poi e reinterpretata da s. Paolo in vari passi delle sue lettere (ai Galati, 4,28, ai Romani, 9, 6-9 e 9, 8, ecc.), riferita ai cristiani destinati alla salvezza secondo le promesse di Cristo.» L’Io poetante non crede a queste promesse di salvezza pronunciate da Yahweh e da Cristo?… Non crede neanche “nella pace dei morti” perché forse i loro fantasmi continuano ad essere presenti e ad agitarsi nella mente dei vivi. Celato richiamo, forse alla foscoliana «corrispondenza d’amorosi sensi», alla nostra «celeste dote».
Dopo la forte antitesi, inframmezzata dall’avverbio di negazione non, del primo verso («Spero e non credo»), la terza proposizione si coordina con la prima e la seconda grazie alla congiunzione avversativa ma, quasi a limitare la non credenza, perché l’Io poetante sostiene di sapere anche “il vizio continuo” che caratterizza gli esseri umani, ossia l’abitudine e la pratica del male; e conosce pure “la tromba delle scale”, cioè lo spazio vuoto intorno a cui si avvolgono le scale. Fuor di metafora, l’Io sa il male e il vuoto verso cui spesso inclina la specie umana. C’è speranza, non c’è salvezza, ci sono i nostri morti che agitano le nostre menti e c’è l’abitudine al male e il vuoto. Insomma, siamo messi abbastanza male.
La strofa successiva è un distico in stile nominale, con ellissi di verbo: «Il cielo sepolto / sopra Torino». Un evidente ossimoro: il cielo, che di per sé sta sopra ed è ampio, è sepolto, cioè si trova in una situazione che rinvia a qualcosa di occluso. Oltre al fatto che “sepolto” rimanda comunque alla morte.
Non provo neanche ad avventurami sull’ampiezza dello spettro semantico di una parola come “cielo”. L’immensa cupola atmosferica, che attira verso l’alto il nostro sguardo e che quotidianamente racconta le sue scene variabili, per un poeta come Dante è la sede del Paradiso e di Dio. Non so cosa rappresenti per l’Io poetante, ma anche per un non credente come me un “cielo sepolto” è la personificazione di un luogo non più visibile, di una cupola morta, seppellita. Sotto cosa? Sotto un cumulo di nuvole di piombo? Se può esserci di consolazione, il manto celeste della nostra atmosfera è sepolto “sopra Torino”. Quindi, forse, a Milano, a Firenze o a Roma, il cielo è ancora vivo. E se, però, quel “sopra Torino” fosse una sineddoche? Se rappresentasse la parte per il tutto?… Beh, anche in questo caso continuiamo ad essere messi male.
Racchiusa in quattro versi, l’ultima strofa presenta una proposizione principale («Senza candela / la bugia è rimasta / sepolta da rime») e una subordinata relativa («che non servono a niente»). Infatti, coerentemente, in questa poesia non c’è neanche una rima a cercarla con la candela. Ma la candela non c’è più. È rimasta “la bugia”, cioè il piattello con il manico e il bocciolo metallico o ceramico in cui si infila la candela. È questo piattello che è stato seppellito sotto rime inutili. La domanda che farei è questa: le rime servirebbero a qualcosa se nella bugia ci fosse ancora la candela? E poi ne farei un’altra: ma perché questa bugia è rimasta senza candela? Perché si è consumata? Perché il padrone della bugia non ha altre candele a disposizione?… Un fatto è certo che “candela” e relativa “bugia” hanno una relazione con le “rime” inutili o utili che siano. Sono quindi parole ruotanti nel campo semantico della poesia. Se una poesia è priva di luce non saranno le rime che riempiono il foglio di carta a renderla tale. O, più radicalmente, senza una candela che la illumini, ha senso ancora scrivere poesie?
Problema: che rapporto c’è tra la prima, la seconda e la terza strofa? Come si legano tra di loro? Come si relazionano?… Sperare, ma non credere nella luce della salvezza è come seppellire il cielo. È ritrovarsi senza candela. Forse è non avere più strumenti per combattere l’abitudine al male ed il vuoto, è ritrovarsi in una condizione di oscurità.
Il “giudice incapace” del titolo condivide questa lettura?


SECONDA POESIA

È arrivato autunno
piove e la verità
è in ritardo.
Scompaiono in ordine alfabetico
i libri dagli scaffali.
Qualcosa urlano
dalle scale lavate
le badanti ucraine.
Adagio scompongono
i marciapiedi
le folate di vento.

Undici versi irregolari. Escursione metrica da quattro («è in ritardo») a undici sillabe («Scompaiono in ordine alfabetico»). Prevalenza di settenari e senari. Presenza di un verso tronco («piove e la verità») e di alcuni sdruccioli («qualcosa urlano», «adagio scompongono») Incertezza sul verso «le badanti ucraine», che potrebbe essere piano (“le badanti ucraìne”) o sdrucciolo (“le badanti ucràine”).
Rime: scompaiono / scompongono; lavate / folate
Diverse allitterazioni, assonanze e consonanze
Sul piano sintattico il testo si distribuisce su quattro periodi.
Il primo è caratterizzato da tre proposizioni coordinate: 1) È arrivato autunno, 2) piove, 3) e la verità è in ritardo. Coordinate per asindeto e polisindeto; soprattutto espresse in terza persona, quasi da bollettino meteo. La prima proposizione ha il tenore di un annuncio o di una constatazione. Tra la prima e la seconda proposizione esiste un rapporto di plausibilità. Con la terza, chi verseggia, si pone su un registro totalmente altro rispetto alla prima e seconda proposizione. Da un lessico quotidiano, legato all’andamento stagionale e alla sua piovosità, si salta ad un piano genericamente gnoseologico, morale, religioso. Lo spettro semantico di una parola come “verità” si trascina dietro un libro o più libri. Quale verità è in ritardo? Verità su cosa, su chi, su quali situazioni ed eventi?… ”La verità”, così personificata, rimanda al tema del “giudice incapace” del titolo. Il giudice cosa fa se non cercare di attestare dei fatti nella verità di come sono accaduti? Inoltre la personificazione fa venire in mente le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: «Io sono la via, la verità, la vita». Il Giudice, essendo incapace, non è ancora arrivato all’accertamento della verità? O la verità di Gesù è in ritardo sull’autunno? Vive ancora una sua estate o una sua primavera?
Il secondo periodo (quarto e quinto verso) coincide con una proposizione e ci informa che i libri “scompaiono in ordine alfabetico” dagli scaffali. La scomparsa dei libri potrebbe contenere un rimando a due episodi: 1) Il momento storico, buio del rogo dei libri in Germania nel 1933. 2) Un riferimento letterario a «Fahrenheit 451» in cui i pompieri bruciano libri e gli studiosi li memorizzano per salvarli e invitano i più giovani a impararli a memoria affinché non siano dimenticati.
La verità è in ritardo e, intanto, i libri scompaiono. Forse per questo “la verità è in ritardo”. Ma quale verità e quali libri?
Dai libri alla realtà sociale o, almeno, ad alcuni aspetti di essa. Il terzo periodo è come il secondo. Coincide con una proposizione.

Qualcosa urlano
dalle scale lavate
le badanti ucraine

Che cosa urlano? Non si sa. Ma se gridano in modo così acuto e prolungato qualche motivo ce l’avranno. Perché i loro uomini sono impegnati in una guerra? O perché sono costrette a lavare le scale o a badare ad anziani o a malati? Queste ucraine esprimono dolori, emozioni forti. Forse proteste, rimproveri, incitazioni a ribellarsi contro chi le opprime.
Nell’ultimo periodo si torna, in maniera quasi circolare, agli elementi stagionali e atmosferici: le folate di vento sconvolgono (scompongono) lentamente i marciapiedi.

Adagio scompongono
i marciapiedi
le folate di vento.

I periodi di questa poesia sono di senso compiuto. Ma le immagini dei singoli periodi sembrano giustapporsi tra di loro, si collocano una dopo l’altra, senza che si possa cogliere con facilità un nesso logico. Il che provoca un senso di straniamento, di freddezza. Ogni periodo con le sue immagini sembra “estraneo” all’altro. È come se suggerissero una frantumazione del mondo in immagini irrelate, una frammentazione insensata. L’autore pratica una “poetica dell’assurdo”?


TERZA POESIA

In un lago sott’acqua
un quatrass luganese
marcisce sereno.

Gli hanno detto
che non può stare
senza fare niente.
E che i pesci
e le alghe, le onde…

Ma non ha sentito
e marcisce serena
la barca da pesca
sott’acqua, nel lago.

Dodici versi irregolari (escursione metrica da quattro a sette sillabe, con prevalenza di senari e settenari) distribuiti in tre strofe irregolari: la prima di tre versi, la seconda di cinque, la terza di quattro.
Ripetizioni di parole: «lago sott’acqua» nel primo verso, ripetuto a chiasmo nell’ultimo «sott’acqua, nel lago»; l’ossimoro «marcisce sereno» nel terzo verso ripetuto al femminile «marcisce serena» nel decimo. Si nota una certa circolarità della struttura.
Rime: “stare / fare”. Varie allitterazioni, assonanze e consonanze.
La prima e la terza strofa presentano un’evidente musicalità per la netta prevalenza di settenari nella prima e di senari nella terza. Nella seconda il ritmo è più tormentato e prosaico.
La sintassi della prima strofa si riduce a una proposizione: un quatrass (letteralmente: un quattro assi di legno) luganese marcisce sereno sott’acqua in un lago. Parafrasando: una piccola imbarcazione a remi diventa fradicia e si sta disgregando tranquillamente sott’acqua, nel lago di Lugano. Ci troviamo chiaramente di fronte ad una personificazione. Infatti, nella seconda strofa dei soggetti sottintesi, hanno detto all’imbarcazione «che non può stare / senza fare niente». Hanno aggiunto «che i pesci / e le alghe e le onde…». I puntini sospensivi finali lasciano sottinteso il contributo che pesci, alghe ed onde danno all’infradiciamento della barca.
La seconda strofa è quella sintatticamente più complessa con una principale e una subordinata oggettiva. La terza è aperta da una congiunzione avversativa e presenta una proposizione principale («ma non ha sentito») con una coordinata per polisindeto («e marcisce serena»). In sostanza, la barca da pesca non ha dato ascolto a ciò che i soggetti della strofa precedente gli hanno detto e continua tranquillamente a infradiciare sott’acqua nel lago.
Il significato morale di questa allegoria è abbastanza chiaro: il non fare niente rende marce barche e persone.

QUARTA POESIA

C’è un padre triste al compleanno
della figlia e una figlia triste
al proprio compleanno.
Sono vestiti come imbianchini
senza saper dipingere una parete.
Aspettano che piova per loro
almeno dalle nubi in cielo.

Sette versi irregolari, di cui tre novenari, un settenario, due decasillabi e un dodecasillabo., distribuiti sintatticamente in tre periodi.
Il primo ha una proposizione principale con una coordinata caratterizzata da ellissi di verbo.
Una struttura parallela «padre triste» / «figlia triste» rispettivamente apre il primo e chiude il secondo verso, all’interno del quale, però, «figlia» si trova in posizione chiastica. Il primo e il terzo verso, inoltre, si apre e si chiude in modo circolare con il vocabolo «compleanno», in epifora
La situazione è quello di un padre triste al compleanno di una figlia altrettanto triste. Perché questa tristezza che accomuna ambedue? A cosa è dovuta? Alla separazione del padre dalla madre? Alla mancanza di lavoro di tutti e due, che, pur essendo vestiti da imbianchini, non hanno un’occupazione?
Il secondo periodo è costituito da una principale con una similitudine al suo interno («sono vestiti come imbianchini») e da una proposizione coordinata negativa («senza saper dipingere una parete»). Padre e figlia sono vestiti come imbianchini. Probabilmente con pantaloni bianchi e pettorina. Ma l’abito non fa il monaco. Nel senso che l’una e l’altro non sanno esercitare questo mestiere. Perciò, meglio diffidare delle apparenze. Ma la tristezza che accomuna i due è però reale. È una tristezza che nasce dal fatto che sono pronti a fare qualcosa (hanno un vestito da lavoro), ma nessuno gli propone niente?
L’ultimo periodo ha una principale («Aspettano») e una subordinata («che piova per loro / almeno dalle nubi in cielo»). Perché potrebbe piovere da qualche altro agente atmosferico? Padre e figlia vorrebbero che su di loro piova un lavoro. Ma, dal momento che non piove niente, piovesse almeno dalle nubi del cielo, così la loro tristezza interiore troverebbe un “correlativo oggettivo” nella pioggia dal cielo. Un po’ come nella bella canzone di De André «C’è chi aspetta la pioggia / per non piangere da solo» (Il bombarolo). Le lacrime che non riescono a versare dai loro occhi in un giorno memorabile come quello del compleanno della figlia, le versa il cielo per loro.
La parafrasi di questa poesia sembra facile. In realtà, non è così. Il significato rimane oscuro. Non si comprende il perché della loro tristezza, il perché dei loro vestiti-maschere, il senso della loro attesa di una pioggia che non si sa se dovrebbe alleviare o meno la loro tristezza. A meno che non sia una pioggia-manna.
Questa poesia è un po’ simile alla seconda: anche qui c’è la pioggia, e se lì c’è il lavoro bistrattato delle badanti ucraine, qui non c’è proprio.


QUINTA POESIA

Non avere mani
rosse, gelate sul ghiaccio
oppure non avere mani
nere che raspano sottobosco
oppure non avere mani
del tutto e da terra beccare
in fretta, saltando.

E tornare
e finire il lavoro.

Nove versi irregolari distribuite in due strofe: la prima di sette, la seconda è un distico. Escursione metrica da quattro sillabe a dieci, con prevalenza di novenari (vv. 3, 5, 6) e senari (vv. 1,7).
Ripetizioni: non avere mani (vv. 1,3, 5); i versi tre e cinque sono ripetuti per intero.
Credo che sia importante sottolineare come in questo componimento il lessico si leghi alla struttura. La parola «mani» è in posizione finale di rilievo in ben tre versi della prima strofa (vv. 1, 3, 5), quasi da costituire un’epifora a versi alterni. Allo stesso modo gli aggettivi immediatamente visivi del colore «rosse», «nere» sono in posizione rilevante di incipit (vv. 2, 4), quasi a costituire un’anafora a versi alterni.
Rime: avere / nere; beccare / tornare. Varie allitterazioni (“soTTObosco, tuTTO, freTTa, TOrnare”), assonanze e consonanze.
La prima strofa è un unico periodo composto da tre proposizioni coordinate. Le prime due sono legate dalla congiunzione disgiuntiva “oppure”. La prima è semplice: «Non avere mani / rosse, gelate sul ghiaccio». Si invita a non subire una condizione, quella di vedersi le mani rosse e gelate sul ghiaccio. 2. La seconda coordinata presenta anche una subordinata relativa «Oppure non avere mani / nere che raspano sottobosco.» Anche questa volta si invita a non subire la condizione di avere le mani nere che raschiano, grattano la terra nel sottobosco. 3. La terza proposizione coordinata ripete l’invito questa volta in forma più radicale: «o ancora non avere mani / del tutto». Pare di intendere che per il lavoro, si possa subire la condizione dell’avere mani rosse, gelate dal ghiaccio oppure dall’avere mani nere di terra per il dover raschiare nel sottobosco oppure trovarsi nella condizione di essere privo del tutto dalle mani. Alla terza proposizione si aggiunge una coordinata della coordinata: «e da terra beccare / in fretta, saltando.» Nel momento in cui si è del tutto privi delle mani, ci si riduce alla condizione di chi si nutre col becco (gallina, merlo, passero…), saltando da un luogo all’altro.
A questo punto il distico finale: «E tornare / e finire il lavoro». Senza mani? Con la bocca diventata becco? Queste due coordinate per polisindeto sembrano sigillare con un assurdo le congetture contenute nella strofa precedente. La parola “lavoro” ci aiuta a capire che, nelle situazioni congetturali precedenti, si tratta di lavori in qualche modo da rifiutare per come riducono le mani degli esseri umani: rosse per il gelo del ghiaccio, nere per il lavoro della terra. Del resto senza mani, si può afferrare solo con la bocca, usandola come becco. La condizione umana diventa simile a quella animale. Il distico finale vuole forse suggerirci che il lavoro trasforma sempre più gli esseri umani in animali?
Anche in questo caso, l’andamento sintattico, le proposizioni non oppongono resistenza alla parafrasi, ma il contesto complessivo, il senso generale del testo non è chiaro. La poesia ha un suo nucleo oscuro, un suo straniarsi dalla comunicazione discorsiva.

6 pensieri su “Ezio Partesana: «Un giudice incapace» (1)

  1. Anch’io avrei affrontato quei testi con il metodo di analisi adottato da te, Donato. Ma in un tipo di poesia volutamente scarnificata e alienata come mi appare quella di Partesana (giustamente usi il termine straniamento) non aiutano molto gli strumenti consueti di analisi. Neanch’io saprei con quali altri filtrare questi componimenti, né mi sento capace di farlo. Posso solo ricavare delle impressioni che mi arrivano dagli ‘oggetti’ usati dall’autore come pietre disseminate qua e là per esprimere uno stato di cose (fisico, mentale…) di palpabile sofferenza. Sono oggetti (e anche nessi, relazioni) che rinviano ad esperienze non tutte estranee al lettore (che comunque resta spiazzato dalla natura ermetica del messaggio). Solo qualche esempio, ma senza alcuna pretesa di trovare le spiegazioni (resto dell’idea che non sia produttivo ridurre un testo poetico, per sua natura sintetico ed ellittico, ad una parafrasi esplicativa). La prima strofa della prima poesia mi evoca una preghiera al contrario, una specie di Credo a rovescio, una non-professione di fede (“aspetto la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”), insomma rende il brancolare di uno scettico o nichilista nella compulsività di qualche azione autodistruttiva che può finire nel precipizio (la tromba delle scale di Primo Levi?). Il cielo sopra Torino mi sembra risuonare come il cielo sopra Berlino di Wim Wenders dove degli angeli assai malinconici rinunciano alla loro missione salvifica (e anche di giudici?), nonché all’immortalità, accettando l’esperienza terrena della morte e del dolore. Anche la candela, che in certa letteratura romantica accompagna il lavoro notturno e febbrile del poeta appassionato, qui mi sembra simbolo mortifero, anziché strumento di luce e di resistenza alla fatica. E la poesia, anziché dare fama e gloria futura, è un insieme di rime esauste. Siamo, mi sembra, nell’area semantica della morte e della mancanza di senso, in una visione cinica e disillusa della nostra mortalità totale (non so se anche tu ci abbia visto questo). Nella seconda domina l’acqua che lava, porta via, così come il vento. I libri delle biblioteche (il linguaggio fissato nella scrittura), che pure dovrebbero reggere al tempo e alla rovina, scompaiono in ordine alfabetico come oggetti altrettanto labili. Questa immagine mi richiama per contrasto l’autodidatta della Nausea di Sartre che assume la cultura in ordine alfabetico. Forse c’è una debole speranza nella quinta: perdere la propria misera forma umana per tornare come passeri a finire un lavoro che non ha bisogno di mani (metempsicosi?) o forse a vivere una vita innocente e finalmente libera dalla fatica. Mi fermo qui dicendo che certe immagini mi convincono e mi parlano, che gli oggetti fanno sempre scaturire pensieri e associazioni, non so quanto giustificate. E’ bene che la poesia riacquisti concretezza dopo essersi abbandonata a tanti cascami pseudoromantici. Ringrazio Donato per avere tentato di decodificare e anche per avere stimolato risposte e reazioni.

  2. Ringrazio Enrica Dallari e Donato Salzarulo per gli interventi.
    A tempo debito cercherò di fornire ragioni a alcune scelte lessicali, sintattiche e ritmiche.
    Un saluto.

  3. La quinta poesia ha un forte accento di lotta/speranza: dopo l’imbestiamento delle mani rosse e nere, e dopo il nutrirsi rarefatto, quasi passeriforme per timore di essere impallinati, tornare (dopo la Resistenza?) e finire il lavoro allora iniziato.

  4. Qualche ringraziamento in forma di risposta devo al gran lavoro di Donato Salzarulo, a Enrica Dallari, Cristiana Fischer, e a quanti altri abbiamo letto “Un giudice incapace”.
    Le scelte fatte sono, naturalmente, personali, ma forse (spero) discutibili oggettivamente e dunque non prive di un qualche interesse comune.

    Regole di composizione:

    1) Le metafore implicite sono una forma di fuga, meglio allora una schietta allegoria, seppure ripeta sempre quel che dovremmo ben sapere.
    2) Una metrica limpida è sempre possibile, ma se non è in tensione con il contenuto rimane un virtuosismo artificiale.
    3) Gli aggettivi sono fatti per i nomi, e viceversa. Quando un aggettivo sostituisce un concetto lo impoverisce sostituendosi a esso.
    4) Avere una forma e dare una forma non sono la stessa cosa; la prima è una condizione ineliminabile, la seconda una azione volontaria.
    5) Nessun pensiero è immune dalla sua espressione.
    6) Le parole in fila devono poter reggere alla lettura a alta voce, il che equivale a dire che il ritmo è essenziale a qualunque discorso.
    7) L’aspirazione alla vendetta che anima la lirica deve mostrare la contraddizione, non esibire il personale rancore.
    8) Discostamenti dalla lingua ordinaria, ereditata e comune, sono permessi solo là dove i contesto politico lo richieda.
    9) Le buone invenzioni si distinguono dai giochi di società per quello che possono produrre, non per quanto siano insolite.
    10) Meglio non emettere sentenze, il giudice è incapace.

    A voi le parole e il tempo.

    1. Ho difficoltà a maneggiare le «Regole di composizione» che Ezio ha proposto, perché non mi sembrano molto in dialogo con i commenti che precedono questo mio. E, tuttavia, ho voluto interrogare la loro “oscurità” – a volte superabile con una rilettura più attenta, a volte impenetrabile (almeno per me) – ed espongo le mie telegrafiche osservazioni/obiezioni:

      1) Le metafore implicite non sono in automatico «una forma di fuga». Sondano zone inesplorate del linguaggio (poetico) e – si spera- della “realtà”. Quanto alla allegoria a volte – concordo – è schietta e rimanda a un sapere consolidato e tuttora valido al di là o contro le mode del “nuovo” ad ogni costo o preferito in assoluto. E, però, non è detto che sempre abbia sufficiente risonanza tra la gente comune o i lettori che vorrebbe o dovrebbe raggiungere. Soprattutto oggi, nel caos del “rumore di fondo” (Fortini) o delle bufere di parole e immagini che ci assediano e ci travolgono. Per cui l’allegoria a volte può essere sapere cristallizato e inerte o insufficiente a rendero conto delle trasformazioni della “realtà” caoticamente in movimento (sempre d’oggi). (Luperini decenni fa parlava di “allegoria vuota”. Sarebbe da rivedere quel suo disCorso per capire se chiarisce meglio cose che qui non so dire meglio).

      2) «Una metrica limpida è sempre possibile, ma se non è in tensione con il contenuto rimane un virtuosismo artificiale».
      Qui mi pare di poter concordare. È la dialettica forma /contenuto (“realtà” oggettiva, soggettiva, pensieri, passioni, etc.). La forma “vecchia” (mettiamo: il sonetto) può in una certa misura “riempirsi” e trattenere ancora positivamente (da un punto di vista estetico ed etico-politico) un contenuto “nuovo”. Ma in altre situazioni è d’ostacolo, va “rotta”, rimodellata, forse sostituita; posibilmente con un’altra forma che verrà costruita nello scontro vecchio/nuovo. E vanno inseguiti e pensati – cosa non facile – sia gli elementi segnati da forte o massima discontinuità sia quelli che restano in continuità col passato, la storia, il sapere consolidato e comune. (Qui andrebbero riletti gli studi di Fortini sulla metrica. Cercai di farlo in passato. Ad es. qui: https://www.poliscritture.it/2015/06/12/cose-la-poesia-se-volessimo-andare-piu-a-fondo/).

      3) «Gli aggettivi sono fatti per i nomi, e viceversa. Quando un aggettivo sostituisce un concetto lo impoverisce sostituendosi a esso».
      Campanello d’allarme. Cosa capisco? Che gli aggettivi svelano la soggettività di chi li sceglie. Che i nomi, invece, segnalano il rapporto di chi li usa con cose, persone, modo o mondi. Cosa non capisco? Come fa un aggettivo a “sostituire” un concetto. E perché lo impoverirebbe (sempre?). Tra aggettivi e nomi io vedrei una relazione (problematica) e non una “necessaria” combinazione, come quel «sono fatti» parrebbe suggerire.

      4) «Avere una forma e dare una forma non sono la stessa cosa; la prima è una condizione ineliminabile, la seconda una azione volontaria.»
      Tenderei qui a sbrigarmi o a scantonare. Non afferro l’importanza della distinzione. Mi prende di più un’altra questione, che non vedo affrontata: Quale forma? ( E rimando al link indicato sopra).

      5) «Nessun pensiero è immune dalla sua espressione».
      Credo di poter concordare. Ma, per eserne sicuro, avrei bisogno di ragionare su esempi (esercizio che Ezio o molti filosofi – mi pare – in genere evitano).

      6) «Le parole in fila devono poter reggere alla lettura a alta voce, il che equivale a dire che il ritmo è essenziale a qualunque discorso.»
      Tentenno. Nella mia esperienza ho più pratica della scrittura (silenziosa) che dell’oralità (in presenza di altri, di ascoltatori più che di lettori). La lettura ad alta voce mi mette ansia. La ritengo necessaria, ma in conflitto con il ritmo interno alla scrittura. Problema da approfondire (sempre per me).

      7) «L’aspirazione alla vendetta che anima la lirica deve mostrare la contraddizione, non esibire il personale rancore».
      Domande. Perché solo la vendetta animerebbe la lirica? Quale contraddizione dovrebbe mostrare? Chi definisce (e come) che il rancore sia – sempre e davvero – personale? (Richiesta di esempi…).

      8) «Discostamenti dalla lingua ordinaria, ereditata e comune, sono permessi solo là dove il contesto politico lo richieda.»
      Ancora domande. Chi stabilisce il contesto politico e quando (o in che misura e chi fa bene ad accettarlo? Non mi pare che la lingua ordinaria, ereditata e comune sia qualcosa di stabile. Né sempre garantisce la presa sulla “realtà” (in movimento).

      9) «Le buone invenzioni si distinguono dai giochi di società per quello che possono produrre, non per quanto siano insolite».

      10) «Meglio non emettere sentenze, il giudice è incapace.»
      In disaccordo parziale. I giudizi (una volta si diceva «di valore») servono al confronto, al dialogo, a smuovere pigrizie e consensi passivi. E li diamo di continuo su noi stesi e gli altri e su atti o opere nostre o altrui. E non hanno a che fare con le sentenze. Quelle vengono emesse dai tribunali.

  5. Caro Ennio,
    non c’è gruppo che non usi oggi la locuzione “silenzio assordante”; si intende dire che quel che sta loro a cuore, qualunque cosa sia, non viene adeguatamente preso in considerazione dalla società e dai suoi funzionari principali. È un ossimoro che esprime sdegno per la cecità dei nostri simili, e lo fa accostando un aggettivo, “assordante” a un sostantivo, “silenzio”, che secondo il loro significato non dovrebbero stare insieme. È la discordanza, insomma, che dovrebbe dare forza di convincimento alla frase, all’ideale. Però l’ossimoro non spiega la ragione di quel silenzio che lamenta, né mostra perché sia “assordante”; un artificio retorico al posto di un concetto.
    Tutto ha una forma, anche un raffreddore o un autobus di linea, ma chi scrive vuole, ne sia conscio o meno, dare una altra forma che mostri o faccia capire quel che a prima vista non si vede. E per questo ha due responsabilità ben distinte: deve sapere quel che vuol dire e al contempo conoscere cosa, in lui e negli altri, acceca dal riconoscimento.
    Scriveva Adorno sessant’anni fa: “Una forma che non dimostri in se stessa il suo diritto alla vita grazie alla sua funzione trasparente, ma viene solo posta perché sia forma, è non vera, e quindi insufficiente anche come forma”, la situazione non è cambiata. I settenari di “Pianto antico” sono cantabili, o di ritmo potente se preferisci, eppure Carducci scrive di morte e vita inutile, e non si capisce il senso di una accoppiata così irrispettosa (e blasfema, aggiungerei) se non ricorda che i canti funebri furono da sempre collettivi e vuoti, non una risposta alla morte che non si può dare, bensì un lamento, nel tempo giusto per i lamenti.
    Se il termine “vendetta” suona troppo crudo possiamo ben cambiarlo con altro: “negazione”, “protesta” o magari “sogno” persino, resta il fatto che le parole (Sei ne la terra fredda/Sei ne la terra negra) di Giosuè Carducci per il figlio Dante non sono solo un “protocollo”, e l’avvenuta morte è messa in versi come una chiamata in colpa, a un giudice, però, che non fa nulla, è letteralmente incapace. Se fossi un esperto di Pasolini, noterei che alcune sue liriche non sono tanto lontane dalle invettive dell’anarchico Carducci, ma non lo sono.

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