di Antonio Sagredo con un’analisi critica di Ennio Abate
Teatro
mia cecità
mancanza o mia rovina:
rombo di mani:
Tamerlano!
—————Tamerlano!
——————————Tamerlano!
Sgrànati dalle dita
gli occhi
e ti berrò a visioni
a imbuti,
e una corazza muta
perfori la scena
e il sangue!
(Roma, 31 maggio 1989)
eredità
Mai conoscerò gli spazi che mi sono dati,
solo le latitudini del tuo cordoglio.
L’idioma e gli eventi che mi guidano ai misfatti
sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi.
Non offrirò più istanze a un Dio estremo,
il ferrigno secolo è già morto sulla soglia.
È una fede che sopporto prima della mia rovina,
per te decreti il futuro e i rintocchi.
Come il grido genera silenzi clamorosi
quando il governo della castità è carne corazzata!
La lingua del feto succhia latte di giumenta.
I meridiani del tuo orgoglio segnano un passo d’oca.
I sudari sono sazi di canti salomonici,
la notte è un classico che rifiuta i nostri occhi.
Il tempo che m’è dato non accetto:
getta il sale sulla mia ipocondria!
Il trono genera Poteri e antiche Madri
e nega al sangue una sorgente demoniaca.
L’immortalità è alla deriva come le bandiere,
non sposo il grano che nutre la tua falce!
Tutto nel futuro è un viola egemonico,
di gelatina è la traccia della tua semenza.
Ha una ferita viola il tuo fondo schiena,
di madreperla è il mio furore libertino!
(Roma-Vermicino, 06/27 settembre 1999)
L’Ospizio delle Libertà in San Giovanni
Quando il Fato giunge di soppiatto a conteggiare noi
e gioca a nascondino come un cieco delatore,
celebrare il tradimento è un dono razionale.
Le falene non s’addicono alla luce di fari già dimessi,
quando i morituri non prestano alle maschere le ossa.
Mirava dei patiboli i decubiti stellari, esangui,
e di una tortura i rigurgiti di traiettorie senza fine.
Gli insensati strofinìi delle comete su muraglie inesistenti
e dei ratti la peluria di sfolgoranti squittinìi – mirava…
e su di te, davvero, non sai se sfacelo o rovina!
Quando giungerà il terribile Natale di scintille e di tragedie
assetate i commensali con fiumare di acque feniche!
Gli zoccoli s’appestano in un silenzio di galoppo,
i sentieri hanno un volto equino come i quattro candelabri.
Leviteranno tumuli di anatemi in tumulti di calunnie,
ma noi brinderemo ai miti che hanno scavato un vuoto oblio!
(Vermicino, 6/11 dicembre 2006)
Nota critica di Ennio Abate
Questi tre componimenti di Antonio Sagredo appaiono sotto un titolo solenne accentuato dalla maiuscola dei due termini. È spontaneo chiedersi quale sia questa Rovina, che sarebbe propria del Poeta («sua») e gli apparterrebbe per una sorta di destino. Ho cercato una possibile risposta analizzando gli stessi testi proposti.
1. Leggendo il primo, la Rovina sembrerebbe riguardare il teatro. Con un’implicazione
immediatamente autobiografica. Perché dalle scarne note sul percorso degli studi e della formazione di Sagredo consultabili sul Web, sappiamo che, da giovane, ha recitato sia pur per diletto ma in un contesto studentesco effervescente e affettuosamente dominato, tra l’altro, dalla figura del suo maestro A. M. Ripellino. Inoltre Sagredo ha incontrato più volte Carmelo Bene, il discusso ma potente innovatore avanguardista di quest’arte secolare; e, tra l’altro, suo conterraneo salentino. (Sul rapporto con il suo “paese dell’anima” Sagredo – nato a Brindisi, vissuto per molti anni a Lecce, borsista universitario a Praga e che ora vive a Roma – ha pubblicato – qui, qui , e qui – Il Poeta e la sua Città ; si noti il rapporto sempre duale dei titoli ). Si potrebbe perciò pensare (dai primi versi) che sia stata la passione per il teatro ad accecare chi oggi scrive poesia e s’incarica di assumersi la funzione di poeta in un modo così assoluto da idealizzarsi ( e lo dico senza ironia) in Poeta. Quanto alla «mancanza» (del teatro), in termini di autobiografia si potrebbe intendere: il teatro mi è mancato (= non ho potuto più continuare a praticarlo, a lavorare come attore). E magari, cogliere un certo sentimento di colpa. Come a dire: io ho mancato l’appuntamento con il Teatro, non sono stato in grado di insistere in quella mia “vocazione” (a caratura religiosa…); e ciò è stato l’inizio della mia (personale) rovina. Ma, nella visione assoluta sia della poesia che del teatro che Sagredo continuamente ribadisce anche nei suoi commenti e scritti pubblicati su «L’Ombra delle parole», è possibile pensare che tale mancato incontro non sia stato vissuto solo come vicenda biografica di un rapporto storico, vagheggiato e poi spezzatosi, tra l’io concreto (il giovane Sagredo) e il teatro (i teatri d’avanguardia romani e non da lui frequentati negli anni Settanta), ma tra il Poeta (l’ideale assoluto di Poesia che il giovane Sagredo inseguiva) e il Teatro (l’idea altrettanto assoluta di teatro perseguita da lui, da altri suoi amici letterati e attori e dallo stesso Carmelo Bene, che poi più di altri l’ha “incarnato”). E allora la Rovina del Teatro potrebbe alludere sia al depauperamento personale per il blocco di quella passione giovanile sia al risultato cui miravano quelle esperienze di teatro d’avanguardia e, in particolare, l’opera dissacrante di Carmelo Bene. Quel «rombo di mani» plaudenti (che è una risposta alla “sferragliante corazza” indossata da Carmelo Bene, (dapprima in Fortebraccio in uno dei tanti suoi Amleto) e poi in Lorenzaccio) – ), una volta esaltante, ha finito poi per nascondere altro a Sagredo, a Carmelo Bene, ai protagonisti di quelle esperienze artistiche di rottura? Se sì, cosa? Non è chiaro. Si potrebbe pensare ai drammi interiori e ai sentimenti contorti che sempre si provano quando una grande passione deve essere bloccata o dirottata altrove. O quando la Rovina del Teatro appare portata a termine dall’avanguardia stessa. Ed è come se la poesia s’interrogasse su quanto avvenuto e si spingesse all’ indietro, quasi per affrontare di nuovo (nell’immaginario però e forse invano) i dilemmi di allora.
Subito dopo viene invocato (o teatralmente declamato?) il nome di un potente condottiero, Tamerlano (1336 – 1405), sovrano turco dell’Asia centrale, conquistatore di un impero che si estendeva dalla Cina fino al cuore dell’Asia Minore, giudicato dagli storici come uno dei più sanguinari di tutti i tempi. Il nome di Tamerlano, che a me evoca una storia lontanissima e poco esplorata, è enfatizzato sia dal punto esclamativo che dalla ripetizione del nome stesso in tre versi “a gradoni”. (Potremmo pensare all’ingresso sul palcoscenico dell’attore che lo im-personifica e riceve gli applausi…). Incuriosito, sono risalito al dramma Tamerlano il grande del drammaturgo e poeta inglese Christopher Marlowe (1564-1593), figura mitizzata dai romantici per la dissolutezza e l’aura di mistero che circondò la sua breve vita. Scritto tra il 1587 e il 1588, il dramma esalta Tamerlano come un eroe, un grande individuo, in preda a una brama sfrenata di potere, che lo spinge a soverchiare gli altri e lo porta a una tragica e fatale fine. Ma l’indagine mi ha fatto incrociare ancora il nome di Carmelo Bene che, per l’edizione ’89 della Biennale Teatro di cui era direttore, scelse di rappresentare proprio il Tamerlano di Marlowe, presentandolo da «artista dissacratore-massacratore» qual’era, come un mistico eroe, il quale a differenza di quelli greci, è votato all’annientamento e all’auto-annientamento. Come si vede anche questi riferimenti rientrano in pieno nel clima “rovinoso” del Teatro. In chiusura e quasi a commento (non si sa se rivolto al Poeta o a Tamerlano o ad entrambi) una sorta di invito o comando sadico e truculento espresso da un ammasso di immagini apparentemente “illogiche” ma allusive della crudeltà del personaggio (e del Potere in generale). Quello ‘sgrànati’, infatti, può far pensare allo sgranare tra le dita delle palline dei rosari. Ma qui le palline sono «occhi»! Di nemici uccisi? O occhi che hanno visto, che contengono delle visioni di mondi lontani? Per cui quel «ti berrò a visioni» – le singole visioni contenute nei singoli occhi-grani di rosario e versate negli «imbuti» come si fa col vino? – potrebbe forse essere inteso come un “t’indurrò a visioni” (inebrianti?) o, più probabilmente e in coerenza con la predilezione per il barocco di Sagredo, come un assorbire o trangugiare o ingozzarsi di visioni. A «imbuti» è associato «berrò», verbo però stravolto dalla forma regolare attiva in cui di solito viene usato e che così rende l’atto più espressionisticamente efficace. Leggendo i versi successivi a me è venuto da chiedermi: può una corazza non essere «muta»? E come fa a perforare la scena teatrale. Si resta spiazzati e un po’ irritati di fronte a questa immagine. Uno s’aspetterebbe l’atto del perforare da una spada, da una lancia. E poi quel «sangue» è anch’esso perforato? O viene dalla scena? È degli attori? È del Poeta? È, ritornando ai versi precedenti, quello delle vittime di Tamerlano? C’è una voluta oscurità? O il senso appare oscuro a chi legge per la difficoltà di contestualizzare queste immagini? Di evidente, per me, c’è una sorta di convulsione delle immagini e dei significati/-anti. Mi ha aiutato ad uscire dalla confusione e dall’irritazione un amico. Egli, che meglio di me conosce Sagredo, ha avuto la sua stessa passione per il teatro e ben conosce le opere di Carmelo Bene, mi ha fornito un indizio: Carmelo Bene aveva messo in scena due volte (nel 1974 e nel 1989)) il «Lorenzaccio», una versione teatrale del romanzo omonimo di Sem Benelli. Qui il protagonista indossa una «corazza sferragliante», come già si ritrova in «Fortebraccio» (vedi foto) ed è accompagnato sulla scena da rumori, a detta degli spettatori insopportabili. Puoi ben immaginarti, mi ha suggerito, che sia facile sentirsi trafitti da immagini e rumori del genere. Com’è facile sovrapporre Tamerlano e Lorenzaccio, entrambe figure bramose di potere. O, se tieni presente le competenze del Sagredo slavista, spiegarti come dalla «sferragliante corazza» si possa passare alla «corazza muta», tramite alcuni dei suoi poeti prediletti. E, raccomandandomi di tenere presenti certi eventi storici singolari che preannunciano tragedie, mi ha messo sotto il naso una dichiarazione del 1935 del poeta ceco František Halas, contenuta nella raccolta «Hlad» (Fame): «La cosa più alta che un poeta possa raggiungere è il silenzio».E come contraltare un distico della poetessa russa Marina Cvetaeva:«Io sono una creatura scorticata a nudo/ e tutti voi portate una corazza».
2. Il secondo componimento, «eredità», sembra svolgere una riflessione, non si sa se pacata o carica di nostalgia dolente. Chi la compie si rivolge a se stesso o a qualcuno o al fantasma di Qualcuno – anche lui Poeta o il Poeta per eccellenza? – che gli è ancora presente e con la cui grandezza si misura. Sembra confessare il proprio limite, una sua ignoranza o un senso d’in-appartenenza. Ma perché: «Mai conoscerò gli spazi che mi sono dati»? E perché sembra dire che soltanto da morto sentirà quanto grande sarà il tuo (di chi?) «cordoglio»? Perché questo sentimento d’impotenza e di lutto (= «cordoglio»)? Ad altri prima di lui gli spazi non erano «dati», cioè non venivano delimitati al linguaggio, anzi all’«idioma», cioè ad una lingua di partenza – quella detta spesso “materna” o della comunità in cui capita di nascere o quella personalissima che il Poeta si costruisce? E con la quale compirebbe «misfatti». Ma quali sono questi gravi delitti che egli compirebbe attraverso l’idioma? Come fa l’idioma a uccidere? Chi o cosa uccide? Forse la memoria del Tutto o di quegli spazi non delimitati che i suoi Antenati potevano conoscere (o invece, per un divieto, non dovevano conoscere)? E perché il Poeta non può vivere senza i misfatti che compie attraverso l’idioma? Il solito amico mi suggerisce che l’ idioma, cui si riferisce Sagredo, non apparterrebbe a nessuno, anticiperebbe i delitti (nel momento in cui s’esprime e “si dice”; o addirittura li detterebbe, per cui il Poeta o l’Attore non sarebbero che tramiti, attivi e consenzienti (e dunque complici di questi “misfatti”). Questa lingua particolare (tutta sua? poetica e dunque incomunicabile?) e gli eventi (indeterminati, ripeto) sveleranno (il verbo al futuro è qui importante) o indurranno solo alla resa, al silenzio?
Ritorniamo modestamente ma attentamente al testo e leggiamo: «il cerebro intarsiato dai tuoi occhi». Ecco un’altra immagine densa e oscura. ‘Cerebro’ è voce dotta e letteraria. Sta per cervello, ma la scelta del vocabolo più antico indica distanza e distinzione dal presente e dai linguaggi comuni, comunicativi e il fervore esaltante di partecipare a un’esperienza preziosa ed eccezionale. (La Poesia per Sagredo è questa e solo questa esperienza…).
Secondo me, il verso «il cerebro intarsiato dai tuoi occhi» si potrebbe intendere così: ‘il cerebro [il cervello] lavorato o impreziosito dall’azione su di esso degli occhi del destinatario misterioso a cui si rivolge la poesia. Dice il dizionario che l’intarsio è, in ebanisteria, una «lavorazione consistente nell’inserire in una superficie lignea altri pezzetti di legno d’altro colore o scaglie di materiali rari e pregiati, quali tartaruga, madreperla e similia per ottenere particolari effetti decorativi. E ‘intarsiare’, in senso figurato, significa proprio impreziosire uno scritto con immagini rare e ricercate. Il che pare una descrizione del modo stesso di far poesia di Sagredo. Ad essere impreziosito è il cerebro (cervello) del Poeta grazie all’azione (benefica e contrapposta a quella malefica dell’idioma produttore di misfatti… e degli eventi?) di questi misteriosi occhi.
Anche in questo caso l’amico mi è venuto in soccorso: Sagredo gli aveva raccontato una volta che bambino – 8 o dieci anni circa – aveva visitato la cattedrale di Otranto, nella cui cripta sono conservate le teche contenenti le ossa e i teschi dei 400 martiri decapitati dai saraceni/turchi; e che ad un tratto, per un riflesso di luce nei vetri, aveva visto i suoi occhi di bambino nell’orbita di un teschio, restando fortemente e a lungo impressionato da tale immagine surreale. Ma l’amico ha pure aggiunto – e qui si ritorna al Teatro e all’incombente e profonda presenza nell’immaginario di Sagredo del suo “affine” o “quasi gemello”, Carmelo Bene – che nel film «Nostra Signora dei Turchi» del 1968 c’è una scena che pare quasi coincidere o sovrapporsi per vie insondabili (sarà un sentire comune legato al Salento, terra sia di Sagredo che di Bene?) all’episodio riferitogli da Sagredo. Ne trovo conferma leggendo la scheda di Wikipedia dedicata al film di Bene:
«La scena si sposta adesso indietro di 500 anni circa, basandosi Carmelo Bene sull’anno 1968. Una donna con un bambino attraversa il pavimento a mosaico della Cattedrale di Otranto, giungendo alla grande teca dei martiri. Improvvisamente la donna ha una visione: il teschio di uno dei martiri si anima e compare il volto di Carmelo Bene che invita la donna a seppellirlo al più presto. La donna accetta, anche senza comprendere il significato di quelle parole, e se ne va.»
(http://it.wikipedia.org/wiki/Nostra_Signora_dei_Turchi)
Nella strofa successiva viene espressa una decisione da attribuire sempre al Poeta: egli non prega più (non offre più…) Dio. Non gli presenta più le sue «istanze». Quel Dio è o gli appare estremo, cioè lontanissimo, forse agli estremi confini della coscienza. Poi un’allusione al «ferrigno secolo», che è già morto sul nascere («sulla soglia») e sembra non possa realizzare nessuna delle sue promesse. Avevo pensato al Novecento e alla Prima Mondiale, ma sempre l’amico, di cui ho detto, mi ha domandato con un ghigno sarcastico: “E se fosse questo appena cominciato? Non vedi quante guerre e catastrofi in atto lo rendono forse ben più «ferrigno» del Novecento a cui tu ancora sei ancorato? Di difficile decifrazione sono i due versi successivi: di quale fede si parla? E perché viene “sopportata” prima della propria rovina (morte?)? E chi è il soggetto dell’imperativo «decreti»? E i «rintocchi»? Poi un’esclamazione che innalza il tono finora cauto e meditativo. Parafrasiamo con una certa libertà: il grido (di disperazione? per cosa? Si potrebbe dire, ricordando il titolo, per la perdita di un’eredità (da intendersi spirituale, ma non è certo). E quei silenzi ossimoricamente «clamorosi»? Sono falsi? O eloquenti, come si suol spesso dire di certi silenzi? (Si rilegga la precedente citazione di Halas…). E in quale situazione ci troviamo? Sembra sia indicata dalla proposizione temporale (sempre però indeterminata): «quando il governo della castità è carne corazzata!». È un’allusione abbastanza esplicita, credo, ad un tempo di puritanesimo di gestione repressiva dei corpi. (E gioverebbe a questi versi l’accostamento al Foucault de «La volontà di sapere» (1970)). Si potrebbe intendere quindi: quando il governo (clericale) del corpo imponeva la castità, una «corazza» alla espressione delle passioni (incontaminate? autentiche?) che dai corpi provengono. Poi altre due affermazioni apodittiche. Fanno pensare a un bimbo nutrito dalla madre a «latte di giumenta». (Espressione questa ricorrente nella Bibbia, credo; ed è documentato che tale latte fosse dato abitualmente ai bimbi nelle antiche società orientali e, in particolare, fosse il nutrimento principe riservato agli eroi o alle Amazzoni). Mentre l’espressione «la lingua del feto» potrebbe essere interpretata in modo figurato. Indicherebbe che, ancora quando è nel grembo materno, un bimbo (il bimbo in generale) succhia (si nutre di…) l’idioma materno come succhia il latte. (E qui si potrebbe risalire a Dante e alla sua visione naturalistica dell’apprendimento della lingua). Mentre «I meridiani del tuo orgoglio segnano un passo d’oca» spostano il lettore nel/dal tempo e nello/dallo spazio. E mi rimandano a un inquietante rapporto tra orgoglio e passo d’oca nazista (o tra misura interiore – «i meridiani del tuo orgoglio» – e simbologia di collettività militarizzate, vere e proprie negazione della dolcezza lattea e materna prima evocata. Nelle tre strofe successive prosegue l’esposizione di immagini d’epoche passate e bibliche: sudari, canti salomonici; e torna l’immagine degli occhi (consueta nella poesia di Sagredo).
A colpire (e non sempre favorevolmente) è l’accumulo imponente di immagini “morte”. Verrebbe da usare il termine ‘panoplia’, quasi per suggestione e per segnalare questo spostamento affascinato di Sagredo verso le “rovine di parole”, appartenute a strati linguistici perduti, a lingue che diamo facilmente per morte, ma che forse non lo sono affatto e la cui capacità di farci accedere a dimensioni date per perse è occultata solo dal nostro appiattimento sul linguaggio “presente” (oggi soprattutto mediatico). L’effetto (almeno su di me) resta però opprimente come di fronte a qualcosa che sento irrecuperabile. Più avanti si ha una contrapposizione tra «Poteri» e «antiche Madri» e pare di capire che, in alleanza, contrastino «una sorgente demoniaca» (e poetica?). C’è una sorta di rammarico/disperazione. Perché «l’immortalità è alla deriva come le bandiere». (Ogni tipo di bandiere, credo, tanto Sagredo è indifferente alla storia e alle ideologie che l’attraversano). L’elemento funebre è dato dal colore viola, che nella simbologia dei colori è apparentato all’inconscio e spesso all’arcano, all’altro, al doppio, ecc. Qui pare estendersi al futuro, a tutto il futuro. È esso che «ha una ferita viola» (funebre) nel suo «fondo schiena»? Ed è per questo che la possibilità del Poeta di fecondarlo col suo «furore libertino» è destinata a fallire?
3. Nel terzo componimento Sagredo allude – è sempre l’amico che me lo suggerisce e io mai ci sarei arrivato, essendomi messo a caccia di riferimenti dotti (ho pensato a Firenze, ad un antico ospizio di monaci e «i quattro candelabri» nominati nella poesia mi avevano fatto pensare alla tomba di Giulio II di Michelangelo) – a un comizio tenuto in Piazza San Giovanni a Roma dal “ciarlatano milanese” (rappresentante per lui non della «Casa delle libertà» ma dell’«Ospizio delle Libertà»). La poesia nel suo insieme è molto tetra e convulsa (ancora!) nell’accostamento di immagini eterogenee (cosmiche, storiche e anche di memoria personale). La «rovina» qui ha atmosfere drammatiche e teatrali da cultura ossessivamente seicentesca, che – l’ho già scritto in passato – Sagredo contesta, ma subendone il fascino. Sono le atmosfere delle sue città salentine e di quella Praga, che egli sente come «gemella in barocco» (Cfr. ancora Il Poeta e la sua città). «Il terribile Natale di scintille», i riferimenti ai «ratti», che era facile vedere nelle strade delle città meridionali nel dopoguerra, alle «acque feniche», cioè al disinfettante allora utilizzato per ridurre le infezioni prodotte dalla decomposizione nelle stradine dei rifiuti animali e delle urine anche umane, agli «zoccoli» dei cavalli che tiravano i carri che trasportavano le uve dalle campagne alle aziende vinicole ( e «i sentieri hanno un volto equino» allude proprio alla frequente presenza di questi animali), ai«candelabri» dei carri funebri barocchi in legno trainati sempre da cavalli bardatissimi.
Se bisogna tentare di cogliere un senso d’insieme in questi componimenti, a me pare proprio questo: il fascino del Poeta per quelle Rovine, come si dice nell’ultimo verso: «ma noi brinderemo ai miti che hanno scavato un vuoto oblio». Il ‘noi’ sono i Poeti interessati per Sagredo soltanto a certi miti: «quelli che hanno scavato un vuoto oblio».
P.s.
Questa mia analisi di tre poesie di Antonio Sagredo è anche – devo dichiararlo onestamente – una sfida alla sua concezione della poesia, che si rifà con coerenza eroica alle esperienze assolute dell’arte d’avanguardia (come accade nello stesso teatro di Carmelo Bene e in tante ricerche avanguardistiche cui si è accennato) e, dunque, a un Linguaggio poetico di derivazione platonica (e con risonanze più recentemente lacaniane), che considero una delle pratiche (o delle tentazioni) più affascinanti e insidiose. Di fronte agli enigmatici versi di Sagredo ho teso fin dall’inizio ad una affannosa ma caparbia interrogazione. Pur sapendo di muovermi da altra poetica e altra visione delle cose. Non ho certamente la pretesa di venire a capo o di spiegare questa poesia. Ma non sopporto gli atteggiamenti che si limitano o al servo encomio o al plauso stupefatto e accondiscendente o al rifiuto e alla svalutazione a priori di tale enigmaticità. Interrogarla invece senza tregua (certo, nei limiti di tempo che mi riconosco) mi pare indispensabile. Anche per mostrare dove essa rischia la retorica della oscurità (come altra poesia rischia quella della chiarezza, della comunicazione e della banalità).
Queste tre poesie hanno tutte un interlocutore, nella prima intendo che l’autore si rivolga a se stesso, nella seconda all’interlocutore di un rapporto appassionato, nella terza a dei compagni di comuni visioni. La “retorica dell’oscurità” si trasferisce nel dialogo, interiore e grandioso insieme, grandioso perché coinvolge un intero teatro della mente, “il cerebro intarsiato dai tuoi occhi”.
Avanzo per ora solo questo ‘spostamento di punto di vista’.
…mi sembra, ma chiedo conferma a Antonio Sagredo, se la parola rovina, che è presente nel titolo “Teatro mia rovina”, come in ognuna delle tre composizioni, un filo rosso che lega, possa avere una doppia valenza di significato a sottolineare l’influenza del teatro sul poeta e il suo stato attuale di cose: negativa, in quanto ha procurato cecità, mancanza, cioè perdita e distruzione alla persona, come all’arte…positiva in quanto vestigia di una civiltà tramontata, ormai in rovina “…ma noi brinderemo ai miti che hanno scavato un vuoto oblio”. L’irruzione in scena del più spietato imperatore, Tamerlano, tre gradoni di discesa verso l’inferno…forse a significare la distruzione di un’idea di Teatro? Come di ogni civiltà?
cara Annamaria, hai centrato entrambi i significati/nti, ma ve ne sono altri ben più terrifici! E quindi la questione resta apertissima! Questi sono soltanto tre esempi di “rovina” (in progress!), poi che nei miei versi il termine ricorre spesso in altri componimenti, perciò parzialmente (per mia colpa) Ennio Abate si è avvicinato – e tanto!- , dando comunque una lettura talvolta profonda e centrata, cosa non facile per mie ritrosie varie… quindi un elogio mio al critico che non è il primo e non sarà l’ultimo. – un grazie anche alla Fischer che ho già in altre occasioni apprezzato… se poi volete approfondire la mia Rovina sono bel lieto di inviarVi ulteriori componimenti
Io leggo questi tre componimenti (pur datati diversamente) come facenti parte di uno stesso discorso, un iter ‘storico’ condensato già nel titolo (*Il Poeta e la sua Rovina*), anche se Ennio sostiene di no (*tanto Sagredo è indifferente alla storia e alle ideologie che l’attraversano*). Direi tutt’altro, dopo la lettura di questi versi. Almeno per me.
Il passare da una data ad un altra fa parte della struttura onirica della poesia che, pur essendo agganciata ad un qui ed ora, tocca momenti e tempi diversi e li mette tra loro in relazione.
Molte potrebbero essere le linee di lettura di questo ‘drama’ rappresentato in tre momenti scenici (non dimentichiamoci che stiamo parlando anche di Teatro): un prologo, un passato e un presente.
La mia recezione è quella che utilizza come ‘dramatis personae’ la figura del Tamerlano – pastore sciita di sfrenata ambizione il quale, messosi a capo di una banda di predoni, incomincia la scalata verso il potere e un dominio che sarà immenso e costellato da distruzioni ed eccidi. E – se vogliamo anche attingere al dramma di G. Marlowe, come suggerisce Ennio -, un condottiero ammantato da una fama ambigua, come anche riferisce Piero Citati parlando di “quel feroce guerriero [che] cercava dovunque miniaturisti, cesellatori orafi, decoratori, gioiellieri, falegnami, che strappava dalle loro città distrutte e portava nella sua capitale, Samarcanda”. Ambiguo perché accanto alla sanguinarietà perseguiva la creazione dell’Eden (P. Citati).
Se la lettura di Ennio si appoggia più alla ‘concretezza’ delle cose nominate (*può una corazza non essere «muta»? E come fa a perforare la scena teatrale. Si resta spiazzati e un po’ irritati di fronte a questa immagine*), io mi appoggio più ad una lettura fantasmatica in onore di quella cecità che ci dovrebbe fare andare oltre la mera apparenza delle cose (la cecità di Omero, la cecità di Tiresia, ma anche la cecità del Re Lear che inizialmente si fa forte appoggiandosi di più di a ciò che i suoi sensi gli dicono che non a qualche cosa di più profondo).
*Sgrànati dalle dita/gli occhi/e ti berrò a visioni*, dice il poeta, cioè togli (sgrana) gli occhi dalla concretezza materiale e sgranali nello stupore della visione!
Con il personaggio chiamato più volte in scena viene rappresentata la chiamata in scena del Poeta nel Teatro della Vita, sulle cui tavole egli pensava di portare con piglio di grande condottiero le istanze legate alla ‘mancanza’, al desiderio, ma il cui esito è stato rovinoso, segnato da illusioni scarnificate e martirizzate non nella mente ma nella carne stessa: il peggior sfregio, infatti, è gettare sale sulle ferite!
Che ci rimane del passato una volta che *L’idioma e gli eventi che mi guidano ai misfatti/sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi*, cioè paleseranno per quella che è questa massa cerebrale informe, inutilmente cesellata e istoriata dallo sguardo? Samarcanda, la bellissima Samarcanda, con quanta distruzione si è fatta bella?
Guardare all’indietro ci porta ad un seme non fecondo – Sara si voltò e divenne sale -*di gelatina è la traccia della tua semenza*? Ci siamo masturbati e basta?
Oppure spargere il biblico sale perché nulla ricresca?
Il *viola egemonico* (anziché il ‘rosso’?) ha esteso il suo dominio su tutto, sulla carne marcita e livida dove ogni libido si frange (*di madreperla è il mio furore libertino!*).
La percezione di Rovina nasce forse da lì? Ma si tratta di Macerie o di Rovine (per dirla con M. Augé): *e su di te, davvero, non sai se sfacelo o rovina!*.
L’eredità di cui ci parla è una eredità ambigua, ossimorica, direi, così come quando il grido si fa silenzio.
*Il tempo che m’è dato non accetto*, portatore di una immortalità illusoria (la Rivoluzione come *Dio estremo*) che ha attraversato il secolo combattente (*ferrigno*) e che oggi si trova *alla deriva come le bandiere*.
Ma a che serve lamentarsi oggi?
* celebrare il tradimento è un dono razionale.
Le falene non s’addicono alla luce di fari già dimessi,
quando i morituri non prestano alle maschere le ossa.* (anche per illudersi e bruciarsi ancora le ali occorre un minimo di luce!).
Che cosa rimane al poeta? L’arte poetica è il suo mezzo eroico, la sua corazza, il suo pugnale per ferire (e ferirsi) al cuore. E’ la sua gloria ma anche la sua perdizione.
Perchè il poeta non è solo colui che infligge le ferite alla società che critica, ma è anche colui che le subisce, le patisce; è sì nel mito ma anche fuori dal mito: *ma noi brinderemo ai miti che hanno scavato un vuoto oblio!*.
Quale sarà allora, se ci sarà, il mito futuro?
Perché anche il Teatro, ormai, non è più luogo di ‘svelamento’ (e qui torniamo all’incipit), la poesia, inutile strumento di battaglia, è diventata corazza muta e insanguinata.
R.S.
vado piano piano e espongo, senza pretese, la mia lettura immediata della * prima* poesia, in concreto farò una parafrasi
la funzione teatrale, il rappresentare al pubblico, è forse in realtà mancanza di reale rapporto, quindi rovina interiore, nonostante gli applausi, clap clap clap (rombo di mani, Tamerlano, rataplan);
sgrànati dalle dita: togli gli occhi dalle mani che applaudono, e comunque la platea me la bevo a canna (a imbuto) e la corazza (credo opportune le osservazioni di EA sulle corazze indossate da Carmelo Bene), è muta perché non “rappresenta” (intransitivo) forse davvero per il pubblico (stesso tema della “rovina”), riesce solo a stupire-perforare la scena per cui, alla fine: il sangue! quello evocato sì, ma soprattutto quello sgorgante dentro gli attori
le altre due poesie… ci devo “pensare” meglio (che pensiero mai è questo?)
@ Simonitto
D’accordo: i tre testi di Sagredo pubblicati formano un tutto unitario. Ma si potrebbe aggiungere che *tutti* i suoi testi convergono verso un senso unitario. E per me sarebbe da capire meglio se esso è soprattutto nichilista – tanto da implicare la stessa poesia: « la poesia, inutile strumento di battaglia, è diventata corazza muta e insanguinata», come scrivi tu; o alluda, con disperazione a volte lugubre, ad altro.
Non credo però ad un «iter ‘storico’». Sì, davvero sarei contento di veder smentita la mia convinzione: *tanto Sagredo è indifferente alla storia e alle ideologie che l’attraversano*.
Non è che la storia (tra l’altro di lunghissima durata e che, come noti, « tocca momenti e tempi diversi e li mette tra loro in relazione») non sia presente nella sua ricerca poetica. Anzi. Ma il fatto è che il suo “sguardo poetico nichilista” la incenerisce tutta. La sua è *esclusivamente* una meditazione sulle ceneri o sulle rovine della storia, mi pare. E perciò somiglia ad un drappo violaceo, penitenziale, ripetitivo. E’ *senza futuro* («Tutto nel futuro è un viola egemonico»).
Un bel problema che egli pone e al quale non è facile contrapporre alcunché di *positivo*. ( Tra l’altro in consonanza con il senso del racconto di Franco Nova…!).
Altro punto. C’è in effetti differenza tra la tua «lettura fantasmatica» e la mia, diciamo più *letterale*. O che interroga le parole usate nei versi partendo dai significati che esse hanno comunemente. Ma la differenza non è poi così netta. Perché non escludo la ricerca della *profondità* nei testi “oscuri” di Sagredo ( come non l’avevo esclusa per quelli di Marina Pizzi…). Vorrei arrivarci * attraverso l’analisi del testo* . Mi fido forse meno di te di quella « cecità che ci dovrebbe fare andare oltre la mera apparenza delle cose». E, come ho detto, non vorrei cedere alla «retorica della oscurità (come altra poesia rischia quella della chiarezza, della comunicazione e della banalità)».
a Cristiana, Annamaria, Rita…..
dono questi ultimi miei versi, che spero ultimi davvero! poi che non ne posso più di loro, della Poesia, e tutto i residui di figure* che mi danzano intorno!
antonio sagredo
* dalla metafora all’iperbole, ecc.
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Prove mostruose
(3)
Adolf Hasse… miserere, Farinelli e viola d’amore… una corda
La tenuta dei fiati intonava una nota tenebrosa per voce bianca,
dai timbri raffiche di carne danzavano su un patetico registro.
Il trillo di una scala leggero come la grazia di un miserere
giocava d’agilità e tenerezza come l’epifania della metafora.
Ma quale estensione e dolcezza non sapevamo dei tasti ?
Se dalle corde d’amore di una viola d’amore dettata era
la sua voce, mentre i codici in rovina i misteri sulle dita
invano battevano in fuga gli occhi musicali fra le lacrime!
Lei era tutto quello che nei miei versi è scritto e non dettato.
Perché dovrei dividere col mondo la mia nascita dalle parole?
Cosa nasconde il mio cervello che io non debba mai sapere?
E perché quella materia che mi oscura si tiene all’ombra?
Ed io che avevo scritto di Eleusina senza sapere di Emilio… e lui che
mi urlava: Guarda che siamo di Eleusi. Torniamo a Eleusi: sotto, sotto, sotto…
E lei, Marina, col rosario di una corda intorno al collo: Io che non so quel che vivo, io non so quel che muoio, quel deperire lento che è l’essere svegli dormendo!
Celebravo questo mondo coi versi miei, ma non è eguale a me! – mi dicevo.
La tua voce, Farinelli, che sapeva l’inchino e il pianto delle stelle mi confortava
sui gradini come un accattone, e con un miserere ti hanno scannato come
un angelo recidivo, proprio Tu che giocavi ai miracoli – sui patiboli!
Antonio Sagredo
Roma, 28 marzo 2015
Caro Antonio Sagredo, direi che questa va dritto a infilarsi nella mia futura (forse) lettura della seconda poesia.
p. s. ma perchè non dedicarla anche a Ennio?
perché Ennio ha già avuto…
@ Sagredo
SCHERZETTO
Chi ha avuto, sta già dint’o tavuto…
chi ha dato, nun sa che à regalato…
a Poesie è malandate
e a Ruvine assicurate!
[*sul ritmo della tarantella che fa:
Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto…
chi ha dato, ha dato, ha dato…
scurdámmoce ‘o ppassato,
simmo ‘e Napule paisá!…]
Eh no, troppo semplice. Un po’ di tempo e decritto anche la seconda poesia insieme all’ultima su Farinelli. (Ma metto le mani avanti, potrei autodistruggermi nei fraintendimenti…)
…ringrazio Antonio Sagredo per questa poesia dedicata, penso, a tutti noi…molto accorata, come una poesia d’amore che celebra una perdita, ma anche un addio…Il poeta insegue dolorosamente una sua trasformazione, perché prova ancora forte la nostalgia per le forme e le perone del suo passato, ma non vi si riconosce più del tutto “Celebravo questo mondo coi versi miei,ma non è uguale a me!…” Una ricerca di sé che passa attraverso lo smarrimento ” E perché quella materia che mi oscura si tiene nell’ombra?” e nel contempo il desiderio di raggiungere una patria perduta, Eleusi, ma mai davvero dimenticata…Qui A. S. per rovina forse intende quasi una separazione nel corpo, una difficoltà ad esprimere ciò che prova con i codici del passato, che pur ancora lo prendono…Solo le note di un canto gli danno conforto… Mi scuso già
per i fraintendimenti…
@ Ennio Abate e a Sagredo
Ennio hai fatto un lavoro eccellente. L’ho letto ed il mio stupore è stato grande.
Il critico è riuscito a capire e ad aprirci alcune porte direi segrete. Ma c’è un ma, sarà Sagredo soddisfatto , Lui con le sue superbe metafore, gestibili solo dal suo volere, complesse nell’animo e nella storia. Speriamo.
Sig. Sagredo a Lei dico:
Nascosto nell’angolo più buio,
dietro una porta, il candelabro
trattiene luci di lugubri vittorie
ma sarà la luce fuori, a rinnovare
la storia di un vicolo tortuoso,
dove la gente mangia ancora
con le mani.
Sì, mi pare vero che in “Adolf Hasse… miserere” venga dato un addio ai residui di figure. La costruzione della poesia è, non so se si può dire, paratattica, metonimica, ci sono accostamenti e non trasfigurazioni, procede sull’asse orizzontale, non verticale.
Sagredo scrive anche che questi sono gli ultimi versi, o almeno spera che lo siano davvero, si stacca dalla poesia fatta in precedenza: “Celebravo questo mondo coi versi miei, ma non è eguale a me! – mi dicevo.” Allora si confor(fron)tava con la voce di Farinelli, una complessa situazione di inchino e poesia, di atroce mutilazione e di gratificazione.
Eredità, la poesia di “prima”, è una catena incessante di interpretanti di significati in costruzione iperbolica. Ed è anche poesia appassionata, si affatica intorno a taglio e rottura e giustamente, secondo questa mia lettura, si conclude fisicamente, corporalmente, opponendo al luttuoso viola-ombra del fondoschiena il madreperla (non gelatina!) del furore libertino.
Un grazie a Sagredo per tutto il suo lavoro di ricerca e quindi non solo per questa sua ultima poesia. Poesia valorizzata, almeno per me, dalla lettura di Cristiana quando segnala: *La costruzione della poesia è, non so se si può dire, paratattica, metonimica, ci sono accostamenti e non trasfigurazioni, procede sull’asse orizzontale, non verticale.
Sagredo scrive anche che questi sono gli ultimi versi, o almeno spera che lo siano davvero, si stacca dalla poesia fatta in precedenza*.
R.S.
La seconda quartina di “Eredità” è spia dell’intero discorso sulla decadenza in Antonio Sagredo, spia della sua poesia della rovina, perché la rovina è del poeta, del poeta in quanto natura. Con la prima essa fa discorso a sé. Ciò che segue, a suo tempo.
Mai conoscerò gli spazi che mi sono dati,
solo le latitudini del tuo cordoglio.
L’idioma e gli eventi che mi guidano ai misfatti
sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi.
Non offrirò più istanze a un Dio estremo,
il ferrigno secolo è già morto sulla soglia.
È una fede che sopporto prima della mia rovina,
per te decreti il futuro e i rintocchi.
Come intendere, in Sagredo, questa ‘natura’ del poeta?
Leggo dalla nota critica di Ennio Abate: «Poi un’allusione al «ferrigno secolo», che è già morto sul nascere («sulla soglia») e sembra non possa realizzare nessuna delle sue promesse. Avevo pensato al Novecento e alla Prima Mondiale, ma…“E se fosse questo appena cominciato? Non vedi quante guerre e catastrofi in atto lo rendono forse ben più «ferrigno» del Novecento a cui tu ancora sei ancorato? Di difficile decifrazione sono i due versi successivi: di quale fede si parla? E perché viene “sopportata” prima della propria rovina (morte?)?»
Ogni rovina, nel moderno, se ne sta all’ombra della malinconia, come il poeta a se stesso ma – questo è il punto – pensato come natura, non come pensiero, non come sforzo di composizione, di costruzione o ricostruzione, non come instaurazione o restauro, non come volontà dello spirito bensì come natura. Contro il Dio estremo del nulla leopardiano Sagredo pone la necessità della natura, non però come un organico dipanarsi della bobina del destino, bensì come il luogo dove il poeta ha potuto riconsegnare la sua libertà, e così anche ogni ombra d’un capriccio, o di un meccanismo. Qui la natura si svela artificio, o poesia, non meccanismo, o necessità. La morte naturale è vinta; quindi non è della propria morte che parla il poeta, e la poesia non può più patire alcuna Anxiety of Influence. L’eredità, qui, è senza angoscia, e si produce, grazie alla poesia, un alleggerimento del peccato dei precursori che non ha da ricadere sull’allievo, sul poeta efebo, l’erede, la terra dell’impatto presunto («conoscerò […] solo le latitudini del tuo cordoglio. L’idioma e gli eventi che mi guidano ai misfatti sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi»). La teoria immaginaria di un superpoeta nascosto negli anfratti della coscienza poetica è completata da una logica dell’alleggerimento di questa influenza e dalla scoperta di un ritorno solaristico dopo un viaggio attraverso la poesia come una lunga agonia di vita. Tanto che il titolo del trittico potrebbe contenere, nascosta, questa parola, “efebo”. Completiamolo: Il Poeta efebo e la sua Rovina. La sua Rovina non è dunque causata dal poeta precursore – come terrore per la vendetta sul misfatto principale: essere Poeta -, né da un organico dispiegarsi della natura, ma è rovina d’artificio, rovina voluta ovvero libertà rispedita al mittente a braccia aperte. Le stesse braccia ritrovate aperte, senza neanche più l’ombra della sorpresa, al ritorno dal viaggio della poesia in se stessa, dove la parola si esaurisce lungo i solchi della terra bruciata del Salento, felicemente. Non si era mai mossa da quella terra, inchiodata sotto il sole, e ora ha i tuoi occhi (soli i delitti, come bussole, lungo il viaggio della misericordia, «sveleranno il cerebro intarsiato dai tuoi occhi»). Viene abbandonata così la logica dell’interpretazione del testo precursore e la poesia vola verso la riscrittura critica del passato come epistemologia del dolore e arte del tempo, prima del suo ritorno a casa, nella “sua Rovina”.
Rovina, se da un lato appari al poeta non ancora esausto come la vendetta della natura per la costrizione che lo spirito le ha inflitto formandola a propria immagine, da un altro lato Rovina, e in quanto la propria, sta in ciò, che qui – contro ogni epifania dell’essere per la morte o dell’essere per la rovina – una poesia del poeta, così come un’opera dell’uomo, venga percepita in ultima istanza come un prodotto della natura: «Non offrirò più istanze a un Dio estremo». Nessun rovinare nel nulla di un Dio estremo. Nessun decadere nel Dio di un’ultima parola. L’ultimo a parlare sarà questo poeta in rovina – che Rovina – fin dal suo albeggiare: «il ferrigno secolo è già morto sulla soglia». E nondimeno, proprio come intuì Leopardi (il quale non coincide col nulla che pure presentifica), la soglia (il moderno: ciò che scorre e passa, ciò che nasce per svanire e che come tale è gia passato), è il termine temporale che giunge a definirsi con le insegne stesse del suo polo antagonistico, il morto (l’antico: il passato, il già trascorso di cui si sentirebbero i rintocchi di batacchi di campane). Questa fede è fede nella nuova logica, nella logica scoperta nel moderno, la logica del secolo nuovo (“E se fosse questo appena cominciato?” si chiede l’interlocutore di Abate), dove il passato non è tanto ciò che è trascorso, ovvero un aspetto tempo passato, quanto piuttosto la stessa struttura del nuovo che s’inabissa dentro di sé, la stessa logica del soggetto che si impana su se stesso in modo inarrestabilmente grottesco, contro ogni retorica del buio o della luce: «per te decreti il futuro e i rintocchi». Che nella modernità il nuovo sia per definizione ciò che cade e va in rovina, non significa infatti che l’esperienza sia quella di una decadere naturale della luce. Ecco il Poeta, col suo lanternino a forma di Rovina consumarsi tutto in questo compito efebico. Il nuovo è infatti – e invece – la persuasione che un organico dispiegarsi di un tempo naturale sia vinto, e proprio ogni volta dalla poesia – dal Poeta che viene giovinetto per destino («gli spazi che mi sono dati»), ma invecchiato d’artificio – vinto dalla fabbricazione anticipata e d’invenzione geniale del nuovo, attraverso l’astrazione poetica, attraverso l’immaginazione a inchiostro del Poeta adolescente in esercizio di Rovina, anche laddove si anticipasse esausto («È una fede che sopporto prima della mia rovina, per te decreti il futuro e i rintocchi»).
@ Michele Bianchi
Mi fa piacere incontrare un lettore capace di penetrare più di me nell’ “oscurità” della poesia di Sagredo. Vedo però due rischi nella sua analisi: – quello di duplicare in prosa l’“oscurità” che alla poesia di Sagredo sembra indispensabile; – quello di parteggiare troppo per la sua (di Sagredo) poetica. La mia preferenza invece va ad un lettore-critico-mediatore. Che sia cioè partecipe e distanziato quel tanto che è necessario (non troppo, se no abbiamo il lettore-critico che fa l’autopsia del testo-cadavere) ma anche capace di rispondere al bisogno di capire, sì, del “lettore comune”.
Se lei condividesse questa mia impostazione, approfitterei della sua competenza per porle alcune meticolose domande tratte dalla lettura del suo commento (libero ovviamente di non rispondere):
1. « la rovina è del poeta, del poeta in quanto natura». Intende dire – uso un linguaggio terra terra – che il poeta è *tutto natura*? (Questo pare di capire quando dice: il poeta va « pensato come natura, non come pensiero, non come sforzo di composizione, di costruzione o ricostruzione, non come instaurazione o restauro, non come volontà dello spirito bensì come natura». Affermazioni che negano, credo, varie poetiche tuttora diffuse. Ad es. quella del «pensiero poetante» (Antonio Prete a proposito di Leopardi) o quella della poesia come “costruzione” o ancora quella della poesia come “incarnazione” nelle parole o nella Parola dello spirito o Spirito).
2. « Contro il Dio estremo del nulla leopardiano». Intende dire che il Nulla di Leopardi sarebbe ancora una maschera di Dio? Che Leopardi non sarebbe davvero uscito da un modo di pensare metafisico-teologico?
3. «Qui la natura si svela artificio, o poesia, non meccanismo, o necessità». Intende liquidare o prendere le distanze dalle scienze, che avrebbero finora pensato la natura solo come «meccanismo» ( il Grande Orologio) o come sottoposta a ferree leggi (il positivismo ottocentesco)?
4. Non si capisce perché in questa nuova ottica – una natura-poesia? – la «morte naturale» sarebbe vinta e superata pure ogni « Anxiety of Influence» (Bloom) o rapporto con la Tradizione e quindi con il mondo storico e “adulto”. Da dove spunterebbe il «poeta efebo», incontaminato giovinetto, «allievo», sì, ma alleggerito dal «peccato dei precursori» e capace di «un ritorno solaristico dopo un viaggio attraverso la poesia come una lunga agonia di vita» che appare davvero miracolistico? E quale sarebbe questo «peccato dei precursori» (degli antenati)? Forse il tener conto della natura “matrigna” (alla Leopardi) o della Tradizione (storia sedimentatasi in cultura) o del«morto (l’antico: il passato, il già trascorso di cui si sentirebbero i rintocchi di batacchi di campane)»?
5. Questo «viaggio della poesia in se stessa», questa sorta di ritorno alla « terra bruciata del Salento» (quasi una Madre Terra o no?) o «ritorno a casa», che è poi la «“sua Rovina”» (tale «fin dal suo albeggiare», cioè dalla nascita?) ma ormai liberata dalla « costrizione che lo spirito le ha inflitto formandola a propria immagine», se va considerato «come un prodotto della natura» (Cfr. punto 1), non annulla ogni volontà umana (razionale), ogni possibile “modernità” costruttiva? (Sento echi di Nietzsche…).
6. «Nella modernità il nuovo [è] per definizione ciò che cade e va in rovina». Ma in proposito cosa intende Sagredo quando dice che l’esperienza non è «quella di una decadere naturale della luce». Lei riesce a spiegarmelo?
7. Non è contraddittorio che il poeta-efebo « col suo lanternino a forma di Rovina», « giovinetto per destino» che sembra figura eterna (simile al “puer aeternus” di Jung?), risulti non si sa come «invecchiato d’artificio – vinto dalla fabbricazione anticipata e d’invenzione geniale del nuovo, attraverso l’astrazione poetica»?