di Michele Nigro
Questo dotto e partecipe saggio ripercorre l’intera produzione in versi e in prosa di Arnaldo Ederle dal 1963 al 2014. Non è solo un omaggio affettuoso ad un poeta vivente, che su questo blog è ospite gradito da alcuni anni, ma una puntuale messa a fuoco dei temi fondamentali della sua poesia, delle sue scelte stilistiche e del suo spessore esistenziale e letterario. Nigro accenna velocemente agli inizi surrealistici come poeta «civile» e un po’ evangelico, ancora legato allo sperimentalismo (sanguinetiano). A suo parere si tratta di «un Ederle, comunque, “non-Ederle”», perché la maturità la raggiunge, in poesia, col ritorno alla lirica, alla «grande lezione della classicità»; e, in prosa, con la ripresa di un «rondismo mitigato» sulla scia dei «suoi virgiliani maestri e autori, Eliot e Pound per la poesia e Raboni per la prosa». Solo così Ederle inizia una sua personalissima «recherche […] diversa da quella proustiana – ma non meno intensa» e trova i suoi temi fondamentali: l’esperienza coniugale e paterna, la rievocazione dei propri morti (e soprattutto del padre), la «conciliazione col femminile», l’amicizia (in particolare con il compianto poeta veronese Giuseppe Piccoli), l’incomunicabilità. Due di tali temi appaiono particolarmente vivi e carichi di risonanze “generazionali”: – quello del rapporto con una complessa figura femminile, che si presenta ora come «maliosa Papagena», ora come Ofelia, ora come «Negrura («una donnina d’ebano», ma anche esotica «brasileira» o «afro-sudamericana o « Negrura-Lolita») e – nell’ultima raccolta «Le magnifiche donne di Glencourt» – con la corporeità inquietante di «nordiche amazzoni» che sconfiggono fiacchi maschi-gnomi; – quello della figura paterna “indebolita” («questo padre, così tenero e benevolente da somigliare a una madre che, un poco apprensiva, “controlli il pericolo”»). Temi che rileggerei alla luce di quelle «contese nelle quali potrebbe essere necessario “spolverare la selce”: l’amigdala paleolitica», che – non so se traviso le parole di Nigro – forse potrebbero essere indicate con due termini storici e politici precisi della fine del Novecento: movimento del ’68-’69 e femminismo. [E. A.]
Se si parte dal 1963, anno di pubblicazione de La camera degli sposi, (poemetto riproposto, nel 2009, in Stravagante è il tempo), è possibile cogliere in Arnaldo Ederle, letterato veronese e italiano dei più insigni, la nostalgia per una classicità irrimediabilmente deleta, insieme alla percezione di un conformismo proletario che aspira a farsi borghese. Sono le premonizioni dell’Italia di oggi, che le antenne del Nostro già allora registrano con ironia, a tratti con sarcasmo. L’Ederle civile non è, peraltro, solo e tutto qui: accenti critici, mitigati da un sentire pacato, comunque partecipe delle sofferenze dei ”piccoli” evangelici, si ritrovano quasi in ogni raccolta: dalla rievocazione dei soldati morti in guerra e sepolti sotto la neve di Russia, alla denuncia del padrone manipolatore e sfruttatore (in Frammento, da Inediti anni ’70), allo strazio per la fine tragica di “quei bambini / nella scuoletta cinese. Spingi spingi / che andiamo a giocare, spingi spingi! / No, qua è chiuso, di là di là… […] maciullati / da mille piedini infuriati / come bisonti” (in Paradiso), che prefigura il threnos di Evtushenko sulla strage degli angeli di Beslan, ai discorsi dall’aldilà dei protagonisti del dialogo sul problema israelo-palestinese, al “marocchino / [che] con la merce […] cammina cammina cammina [“cento paia di scarpe ho consumato…”, delle ballate popolari, N.d.R…] / ti mostra accendini, subito radioline e fazzoletti. / Il tappeto se vuoi te lo fa avere”, mentre sogna un paradiso islamico in cui fresche bevande sono servite in “bicchieri sottili e trasparenti / [che] vibrano, mandano un suono azzurro”, ai “cari amici naufraghi”, destinatari di un appassionato “we’ll save your souls“ (ivi)
Del 1964 è La calzamaglia, che si apre con una citazione tratta dall’Evangelo, cui fa seguito un caleidoscopico apparato linguistico, arduo da ricondurre ad agevole comunicazione e tipico di quella stagione letteraria, poco feconda a giudizio di chi scrive, in quanto gravata da ipoteche, in tutto o in parte, riconducibili al surrealismo. Si registra comunque, nel poemetto, una decisa presa di distanza da una processione di chierici salmodianti che hanno ormai perso, grottescamente e tragicamente, ogni contatto col reale: “per ora limitiamoci all’anestesia”, “encore une fois nauséabonde” “un’esecrabile condizione la mia”, “credono di rimediare / alla incapacità dei loro stivali / accorciandosi i piedi”, “sono molte le chiacchiere e / non si può escludere in assoluto, no / di certo / che siano curative”. Quando sembra affiorare un che di più leggero, non si tratta, però, di souplesse ironica, bensì di compresso, impotente, feroce sarcasmo: la guerra è finita da soli venti anni e un oscuro domani di torvo degrado s’annuncia. Un Ederle, comunque, “non-Ederle”, quanto meno rispetto ai caratteri stilistici e poetici della produzione posteriore.
Le pietre pelose ben osservate, riproposto in Stravagante è il tempo, del 2009, sono del 1965, Qui, il poeta s’industria a conciliare la grande lezione della classicità con gli umori dello sperimentalismo: se ai personaggi del poemetto, che viene presentato in forma di dialogo teatrale – l’Homunculus, il Corifeo, il Coro dei Vergini e il Seppellito – corrisponde il gusto, tutto sanguinetiano, di una rievocazione straniata della romanità, la sostanza conoscitiva (Brandi) della trama poetica s’impianta su un insieme di motivi eterogenei: dalla splancnomantica, di ascendenza etrusca, alla reiterata allusione al Golgota e al Cristo. Anche qui, per le considerazioni stilistiche ed espressive già svolte in precedenza, un “Ederle non-Ederle” eppure, già da qui, un Ederle in via di affrancamento da modi creativi in fondo mai avvertiti, sino in fondo, come propri.
Trascorse non più di tre stagioni, ecco la rapida – si può dire definitiva – maturazione stilistica: in Inediti anni ’70 il verso si fa piano, fluido, meditativo, più umano, insomma; sia quando nei versi vanno ad innicchiarsi umori fanciullescamente scherzosi e si fa il verso a Palazzeschi sia quando il tono si fa premuroso, affabile, quando il tepore, cioè, del sentimento verso una “lei” con la quale un certo “discorso” è stato “prima lasciato / a metà mentre fuori dai vetri il gocciolare […] di pioggia familiare”, si trasfonde in gesti delicati e un calor tenue, da stagione di mezzo, nasce da un giardino che, “ormai gonfio / di gocce di sera di pioggia “esala / esala esala esala esala esala”: mirabile endecasillabo finale (in Familiare), ad attingere un risultato poetico fra i più compiuti. Mestizia dilaniante: “si sarebbe tutto risolto” e “una notte avvilita / come tante altre”, che ha rivelato “un viso rassegnato / alla borghese solitudine dell’amore”, non sarebbe irrimediabilmente trascorsa in un tormentoso “letto di Procuste” coniugale. Ma l’amore, confinato in un’avvilente clausura dialogica, è, per fortuna, redimibile attraverso una conciliazione col femminile ove l’attitudine proiettiva tipica del sentire maschile si realizzi (magari in modo infantile – ma quanto felicemente infantile!) in un bagliore emotivo che trasformi gli amanti in allodole, astronauti, ragazzi stesi sull’erba in faccia al sole.
In Vocativi e querele, del 1981, inserito, con trascurabilissime varianti, anch’esso in Stravagante è il tempo, i temi della condivisione, con l’elemento femminile, del sorriso, della gratitudine reciproca e della lontananza si alternano a un più intimo Leitmotiv che canta, con accenti d’una sincerità dolorosa degna di una supplica, la relazione “contromano” del poeta con suo figlio, la difficoltà di un “dialogo” spesso unidirezionale fra i due, il tempo che, trascorrendo, non concede recuperi e la commossa rievocazione, per compenso psicologico e sentimentale, dei propri morti. In una “brutta commedia” messa in scena da un dio minore; tutto fra le crepe di un palcoscenico squallido, desolato, che non può far vagheggiare una fuga dall’“impercorribile matassa” della vita, non fosse che è ormai posato per sempre l’orario ferroviario e si vorrebbe tanto “dipanare il presente”…
Ne Il fiore d’Ofelia e altre tenerezze, del 1984, che riprende e ripropone, come ricordato da Giovanni Raboni nella presentazione, l’antecedente Partitura, i luoghi delle tenerezze (cf. “Il posto delle fragole” di I. Bergman) evocano memorie familiari mai sopite: nei nomi e nei tempi. E si assiste, con sgomento, alle tormentose, infinite apnee notturne, intercalate da rumorosi respiri, del veneratissimo papà: “la mattina / della domenica, quand’era tiepida primavera, mio padre / si vestiva con le finestre a luce spalancate. / Aveva il tempo per cantare le sue furtive lacrime / e lucean le stelle e torna. Io l’ammiravo / perché era un signore sorridente, / elegante, aveva gli occhi chiari era stempiato / e quando usciva per la strada portava un cappello / grigio con la fascia alta e un bastone di legno / chiaro, con la testa di un bellissimo cane” (chi di noi non ha sognato di onorare il proprio genitore evocandolo con l’affetto sollecito e, insieme, pudico, che Ederle riserva al suo?), anticipando uno dei temi più ricorrenti nell’opera del Nostro: quello del rapporto – intensissimo – con la figura paterna, ritratta con accenti non meno commossi di quelli dello Sbarbaro di Padre, se anche tu non fossi. Nella sezione del volumetto dal titolo Intermittenze viene proposta una recherche che, diversa da quella proustiana – ma non meno intensa rispetto ad essa – procede (per dirla in termini matematici) non già per le vie del continuo, bensì per quelle del discreto, come fatto rilevare per primo dal Raboni, allorché si riferisce all’“alterno alzarsi e smorzarsi del dettato”. E comincia ad affiorare un altro dei temi ai quali il poeta si abbandona con disposizione fiduciosa: quello dell’amicizia, come “ancora”, perfino se gettata da quello squallido vascello urbano che chiamiamo “condominio” e che val bene, nonostante tutta la miseria morale dei possibili interlocutori, un invito sommesso quanto sincero: “se passa di qui…[venga] magari a prendere un caffè”. C’è tutta la nobilissima anima dell’Arnaldo. In Via Palermo penetranti sinestesie si accentrano intorno a un tiglio, percepito come profumo che “rimanda a lontane lontananze”, dove la reiterazione lessicale, ben più che semplice allitterazione, accentua il riferimento al modello proustiano (quello della madeleine inzuppata nel thè), conferendogli un’ulteriore valenza musicale in modo minore. Quando, però, il lirismo dell’autore per un poco si apparta e le pulsioni del sesso, raccese, fanno premito sul corso ordinario degli eventi, non si possono dare che due esiti: saziamento o frustrazione. Questa e non quella spetta, ahimé, al fauno “dal forte addome” (immagine tratta dal Giulio Romano a Palazzo Tè di Mantova o dal Mallarmé dell’Après midi d’un faune); da cui rimandi a quel mal sottile che è l’incomunicabilità; acquattata, ove più ove meno, dietro ogni messaggio poetico, per chiaro e distinto che intenda o pretenda di essere. In Impressioni su marmi e frati (“quelli del Cimitero monumentale di Verona” – revival modernissimo d’un attenuato sentire protoromantico alla Gray o alla Young ovvero consentaneo, a suo modo, con il Masters dell’Antologia di Spoon River) Ederle sembra aggirarsi fra le tombe di coloro che dormono e, dormendo, danno “da imparare (già / imparato! / si va avanti)”, mentre le ragioni dell’eros reclamano, incalzate dal thanatos, una ragion d’essere fra “belle morone accosciate / sul marmo familiare”. Nella terza partizione della raccolta (Nel verde e nell’ocra: i colori delle Cinque Terre) si colgono umori contrastanti che si palesano, d’emblée, come torve “parole infilate / nella setola”, irsute, che minacciano, “già offensive”, di menare a contese nelle quali potrebbe essere necessario “spolverare la selce”: l’amigdala paleolitica.
Contre chant, del 1983-1987, convoca, per farceli incontrare, poeti di tempi e luoghi diversi: provenzali e italiani (del medioevo), inglesi, francesi e Leopardi; insieme a loro e a noi meditando sui temi del vivere e morire, dell’amare e tremare, del pensare e interpellare, del separarsi e desiderarsi, dell’ignorare e ricercare.
Apparizioni, del 1987 (ristampato nel 2001, insieme a Chant, Contre chant, Poesie di Grado e Aquileia, Il sentiero di Rilke e Colloqui dal cassetto, in Cognizioni affettive), include struggenti viaggi nel tempo (quello del padre, della madre e del figlio bambino), attraverso fotografie ingiallite, conservate in un sacchetto, in un cassetto: volti d’antan, abbigliamenti démodé, espressioni attonite o perplesse (quelle facce “un po’ così”), dediche vergate con sincerità naïve, e, ancora, personaggi chiamati per nome e, tuttavia, anonimi, pose improbabili.
Chant (1988-1989) propone un itinerario ideale tra Veneto, Roma, Trento, Palestrina (e Pellestrina), sospeso fra atmosfere “fiamminghe e veneziane” (alla Vittore Carpaccio) e l‘”amato adagetto” (dalla Quinta di Mahler), con la consapevolezza di essere talora (come noi tutti, talora siamo) “bugiardo / inconsistente consolatore” a fronte dell’altrui sofferenza, mentre, dannunzianamente, “piove sui salmastri…”
In Poesie di Grado e Aquileia (1990) le “case della vita e della morte” rievocano, in una natura rarefatta e percorsa da spiriti antichi, Roma e l’ungarettiano, alessandrino “porto sepolto” (i legami tra il clero di Aquileia e quello egiziano nel paleocristianesimo!), il sepolcreto antico e i prati e, poco più in là, le acque lagunari, distese di Biagio Marin.
Pure del 1990 è il “Sentiero di Rilke”, che ci riconduce all’elegiaca Venezia Giulia, e, ancora, ad Aquileia, con i suoi cipressi, e a San Giusto e a Miramare.
E’ del 1993 Paradiso: brevi composizioni, lampeggiamenti luminati da un timbro lirico contrastato. Si apre (Viaggio dall’acqua alla casa) con una visione placida, vaporosa, ma, intanto, “s’arrestano alla soglia i camminanti” e “le mani / della terra […] sbucano dai margini”, “dalla spietata deità della terra”, facendo presagire istanti d’angoscia, per nulla mitigati dalla ”luminosità pura puro chiarore, le pareti / ombreggiate da lisce intermittenze” d’una casa magrittiana che rivela, alfine, “gli dèi / che affacciati alle mensole pronunciano / la loro indifferente eternità”. E’ questo il paradiso? Perduto fin dall’esordio? In Fervida brace, sezione dedicata all’illustre poeta veronese Giuseppe Piccoli, prematuramente scomparso (on oi theoi phylousin apothneskei néos [muor giovane colui ch’al cielo è caro]), dalla cui opera Ederle ha tratto la titolazione, suggestiva più che esplicativa, ch’egli sovrascrive alle sue composizioni, ordinate secondo numerazione latina, viene evocata, ancora una volta, Ofelia, morta vivente che, pur miniata in tratti preraffaelliti, lascia presagire le ferali enfiagioni dell’amante risucchiato da un ineluttabile destino di morte. Poi attimi di sgomento, in dissolvenza (“il volto sfuma”). L’eterna, ineludibile contesa con il femminino: “maliziosa abilità” è quella di farsi “debole come colomba nera […] come l’oscurità” e un bisticcio, dall’allure quasi medievale, fra il poeta e un “tu” che contrappone morte a vita, sorrisi a violenze, accoglienza a ripulsa. Nella sezione Paradiso, che dà il titolo all’intera raccolta, si accede come a un luogo familiare, dove “spiriti magni”: un vivo, il poeta, e due morti: Duilio (suo padre) e Chiereghino (un lontano parente acquisito) e le presenze evocate di Corradi e del pittore Boselli convengono a un dialogo da “Lessico” ginzburghiano, riportato alla vita, ma a una vita senza cronologia, di morti, in cui il raccordo esistenziale si fa motivo conduttore: con il poeta che diviene più vecchio di Chiereghino (ma è artificio letterario, a significare uno hiatus culturale) e che discetta di onomastica e dialettologia germanica a proposito del cognome Ederle/Ederlein. Quindi lo strazio per la fine tragica di “quei bambini / nella scuoletta cinese” di cui si è già detto. I dialoghi sono come do’ ciacole mese lì, di domenica mattina, come Ederle stesso tiene, antiretoricamente, a rimarcare. E qui, a sorpresa, s’apre uno squarcio di raro lirismo, quello stesso che a chi scrive fece amare, la prima volta che ne incontrava l’opera, Ederle poeta. A una domanda di Chiereghino, il decoratore Duilio, padre del poeta, si dispone a parlare, con attitudine rievocativa quasi dantesca: “Si prendevano foglie d’oro puro / quadrate, sottilissime. Bisognava soffiare / debolmente come sulla bua del bambini. / E la foglia si staccava e volava brevemente / dall’album alla spazzola piatta e si stendeva sopra tremando come presa ancora / da una brezza”. Si può dire meglio? E chiude – non poteva essere altrimenti – Duilio: “Dicono che dal profondo d’un sospiro / sia risalito come un desiderio, / e sulle labbra sia affiorato / Himàlaia”: un anelito al superno, un accordo in punto coronato, in crescendo e sulla tonica: un goethiano mehr Licht. E quella “bambina moribonda, madre”, cui il Poeta inumidisce “la bocca come / mi avevano insegnato strizzando appena / l’angolo bagnato d’uno straccetto / bianco”: quella medesima madre malata, da assistere come figlia. Ma che gioia accogliere una lei che rincasa, mentre lì fuori “un quieto umidore” si muta in un “gocciolare […] di pioggia familiare e lei familiare / che sfila le scarpe dai piedi con calze / familiarmente concessi / di giacere in grembo / seduti dopo cena sulle due poltrone / […] le dita che impalmano [felicissimo rimando etimologico all’atto di un premuroso, delicato massaggiare, N.d.R] / le tepide piante dei piedi di lei”! E si chiude con un altro – mai fiacco, mai convenzionale – ricordo di questo padre, così tenero e benevolente da somigliare a una madre che, un poco apprensiva, “controlli il pericolo”, su e giù per la scala che mena alla mansarda di una casa da acquistare, quella scaletta che, “ultima”, allude, a distanza, forse a un viaggio senza ritorno, forse a un acquisto rassegnato (“scendevi più piano […] / le tue spalle chiudevano la visita / come un sia quel che sia). Nell’opera il gusto della variazione su tema – il tema è quello del folgorante dettaglio, cioè, cui il Nostro affida schizzi d’impressione: “gabbiani, / quando gridano sembra / che qualcuno chiami”; “è sulla pagina che nasce / il mio nero / […] il mio futuro nascituro nero”, laddove la metafora trascorre, prefigurandola, in quella Negrura che costituirà uno dei momenti più alti e intensi dell’opera del Nostro; quindi “osservo una donna vegetale / […] in verdi graduati”: dal nero al verde: una maliosa Papagena; “la luce che riposa: / pallido trasognato rosa”; “Ofelia”, ritrovata presenza, ignara “della ninfea bianca / che […] imbianca / il [suo] letto di sposa”; “compare una stella a due fuochi, / ma tu abbassi il vetro, scompare”, metafora dell’illusione e dell’inganno; e, ancora, Negrura: “una donnina d’ebano è seduta / in un gomitolo di tenerezza, / ha gli occhi della capra” (ricordo, forse, del volto di “capra semita” della moglie di Saba); una Negrura talora brasileira (“amo-te, meu querido a loucura”).
E siamo all’Ederle critico, non meno importante (anzi!), quanto ad esiti cognitivi e formali, dell’Ederle poeta. La prosa del quale – ci riferiamo a Luce dei cristalli, del 1994 al 2004 – ch’egli vuole ispirata a quella di Raboni, si rivela di chiara derivazione rondista – di un rondismo mitigato, però, dall’asciuttezza dei ragguagli anglosassoni dell’autore, mirante a un approccio, quasi scientifico, si direbbe, all’opera dei letterati che popolano le pagine del volume. Che sono tanti e tutti di rilevante importanza nel panorama italiano e internazionale. Procedere ad esemplificazioni sarebbe, oltre che ingiusto, arduo in questa sede. Meglio soffermarsi sulle qualità saggistiche del Nostro, dispiegate nel corso di alcuni decenni di attività giornalistica – e qui vale mettere subito in chiaro che il valente conio poetico ederliano esalta lo scavo critico, l’acribia, l’onestà, e, soprattutto, la mancanza totale d’invidia (tratto raro fra chi affida le proprie sorti alla creatività) che risultano e risaltano da quelle pagine, proponendosi come magistrali esempi di una critica letteraria totalmente scevra di servi arbitri e di codardi oltraggi (ci siamo capiti). A fronte della troppa trippa (il faut manger, anche solo metaforicamente) che permea di sé e affligge tanta critica routinaria, Ederle sfoggia una rara nobiltà nell’approssimarsi alle opere che vaglia, arricchendole di lampi ermeneutici sorprendenti. Le qualità saggistiche dello scrittore risultano poi ampliate da un’attitudine a registrare accuratissima e felicemente sintetica (come si conviene a chi scrive sulla stampa quotidiana), mirante a chiarire le qualità creative degli Autori affrontati; in riferimento non solo all’opera recensita, ma al continuum evolutivo (produzione letteraria come interminato work in progress) e alla fortuna critica degli stessi autori nel tempo. Ederle, lo si nota immediatamente, si affida, nel suo far critica letteraria, sempre ai testi (anche quando non ne ritaglia estratti), diffidando da etichettature “-ismiche” e da corrive, generiche formulazioni.
Colloqui dal cassetto è dell’anno 1997. Si viene portati, tra vagabondaggi eichendorffiani, sigarette e psicanalisi (Svevo) e morte e vita, ancora al compianto per l’amico Piccoli e, in risonanza, al muto, incolpevole, silenzioso dolore dei passeri e degli agnelli. Poi, Machado e Bach e i “campi di Castiglia”, emblema di quell’”altrove” che, sempre, chiama a sé il poeta, pur vago di ritornare sempre alla casa degli avi.
Sostanze è del 2004. L’esordio si apre con Modulazioni, in cui il trapasso tonale, per dirla in termini musicali, si attua a volte per alterazione a volte per repentina transizione: dal respiro irregolare, metafora dello stare al mondo, coi suoi aneliti e i suoi affanni, al faticoso parto della creazione, al tragitto fra malattia e guarigione, alle scaramucce tra il maschile e il femminile, alle tensioni e le distensioni, alle sistoli e alle diastoli, giocate nell’interiorità sofferta degl’investimenti affettivi, tra speranze e delusioni. Nella sezione Arcipelaghi una reductio ad unum tende ad attuarsi per giustapposizione di elementi contigui, come in un domino in cui i dispersi frammenti di un caleidoscopio vanno a comporre un mosaico coerente di temi e stilemi. In Sequenza fuori tono viene proposta una riflessione etica sul fare letteratura, al riparo da sollecitazioni estranee all’animo del poeta, e da slogature e dislocazioni di senso, con la conseguenza che, forse, sarebbe meglio, a volte, zittirsi, assolvendo il molesto latrato del cane: mala tempora currunt e non sarebbe, forse, il caso di non erogare castighi a vanvera se ne risulta disturbato il sonno? “Tapparsi gli orecchi basterebbe, / e risparmiare il cane / che, forse, ci protegge”. Il vocalizzo dei crepuscoli propone un itinerario della memoria attraverso, una volta ancora, l’evocazione accorata della figura paterna, la cui presenza, continua nelle opere di Arnaldo – mi permetto di dirlo per esperienza personale –, nasconde sempre il rimpianto per non essere stati, a nostra volta, trattati con tale discreto, intenso affetto dai figli nostri: esperti, forse, in transeunti emozioni ma, spesso, diseducati al perdurare del sentimento, onde si cela, dietro quei versi, un inesigito credito d’amore; così che, per ottenere un qualche risarcimento per ciò che non ci viene dai figli, ci facciamo perenni debitori verso chi ci generò. Ma anche la madre è sempre presente; soltanto in forma un poco più discreta di quella paterna, nel canto, amorevolmente filiale, di Arnaldo. E può giovare rifugiarsi tra le memorie di antichi poeti provenzali. In Oh me diviso si ripresenta quel dualismo, platonico e cristiano, che fa capolino da vari luoghi dell’opera ederliana, senza che una definitiva soluzione apporti pace – e non potrebbe essere altrimenti – al poeta. Il Deus absconditus non fa sconti e non chiarisce. Lui. Figuriamoci noi!
Varianti di una guarigione, uscito nel 2005, conferma la propensione del Nostro alla composizione strutturata in forma di poemetto, anche quando sembra che si determinino, in essa, cesure che altro non sono, tuttavia, se non sviluppi di una forma-sonata unitaria. Si parte con una presa di coscienza sintomatologica a seguito di una ricognizione autosemeiotica che si fa ossessiva a mano a mano che ci si ravvicina “al paragone” (Jacopone da Todi), invocando un aiuto dal trascendente, mentre si tenta di rievocare quel passato che ci faceva più giovani, più forti. E l’attesa, l’interminabile appostamento per non lasciarsi sfuggire gli sfumati segni del miracolo, per mischiarli con i ricordi più belli, con la visione, vitalissima, della nipote Federica… E le immagini, alienanti e denudanti, delle camerette d’ospedale: notti, letti, seggiole, l’armadio, le lenzuola, i rumori notturni, ingigantiti dal timore e dal tremore… Ci soccorrerà l’Ausiliatrice? E la rinascita: “Ho ricevuto una grazia / dall’Ausiliatrice, / la trascurata”, invocata con “una sommessa richiesta / di solidarietà”. Ancora un poco di stop and go clinico e, finalmente, il ristoro: nella visione dell’amata.
E’ del 2005-2008 la sezione Work in progress di Stravagante è il tempo. Ederle vi si esprime con maestria ancora quasi proustiana, trascorrendo, in piano-sequenza, la moltitudine degl’istanti e dei luoghi che compongono il controcanto poetico del reale. Cieli, acque, gabbiani, pipistrelli, rondini e fringuelli, fantasmi, amici, memorie, donne, bambini, bestie feroci, alberi, scrittoi, immagini divine, prati, piogge, speranze, pasticciacci, telefoni, tastiere, stagioni, dame, sparvieri, antichi cavalieri (in filigrana), computer, mobilia, finestre e caffè, silenzi e stanchezze, solitudini, biciclette volanti, citazioni musicali strutturate per motivi, frasi e periodi (alla Brahms, più che altro, direi). Quindi, brani da lingue (anche qui, allusivamente) vive, specie inglese e spagnolo, e morte, latino. Nel corso del viaggio le immagini, come in bassorilievo, sono trattate con affettuoso abbandono, dandosi, insieme, quali elementi naturali e in quanto riflessi di un sentimento che anima le cose, gli oggetti, donando loro attributi quasi umani. Eppure, a tratti, ecco prospettarsi, perturbante, lo “spettro della vita” (da intendersi, forse, nel senso newtoniano della rifrazione della luce da parte di un prisma: metafora della varietà dei casi, appunto, dell’esistenza) e lo “spettro della morte” (qui come funerea, paurosa larva), se una presenza enigmatica s’attarda lungo le rive dell’Adige, nel “buio lucente di lampioni / un poco fiochi / un po’ rifranti nell’acqua”. Siamo nel preludio a un suicidio notturno, come ne La caduta di Camus.
Tra il 2009 e il 2010, Capricci. Qui il poeta si confessa, nella cardarelliana, recubante posa dell’Etrusco, con il suo Io, mentre vagheggia: (alla Raspe, alla Verne o alla Paolo Conte) fantastici luoghi: dalla terra alla luna, sino ai tropici, per fuggire da polemiche astiose, da kafkiani, polizieschi accertamenti, per sperare, a consolazione propria e della sorella Liliana, nell’intitolazione di una via a proprio nome e, sullo sfondo e sempre, il memento mori e il cupio dissolvi che fanno da basso ostinato al trascorrere dei giorni. E la fatica della creazione letteraria. E le reminiscenze leopardiane. E le parole concatenate, al modo medievale, fra stanze successive di uno stesso componimento, in Empirìa (il nome è anche quello della casa editrice delle Cognizioni affettive). E, per non prendersi troppo sul serio, una fresca sorsata di Palazzeschi. E le parole, tenere e umanissime, rivolte a una fanciulla che si vende. E l’auspicio di un proprio funerale fracassone o il bianco lutto di un cordoglio alla giapponese: minimalista. E la melancolia che s’impossessa del poeta allorché egli constata la sua irrilevanza in termini di accesso alle altrui coscienze.
In “Negrura” (agosto 2012), l’evocazione della languida protagonista, sorta di evanescente Araba Fenice (“chi la cerca, non la trova”) afro-sudamericana, che si cela in remote dimensioni ctonie (“occluse caverne”) o equoree (“sul fondo degli oceani”) e sfugge ad ammuffiti scartafacci e ad arnesi arrugginiti (“tesori di carta e di / peltro arrugginito o ferri storti / di vecchi badili e vecchie forche / sbiaditi dall’acqua piovana”), si fa torpidamente concreta solo fra “stracci” e “sguardi lenti e incantati”. E ci s’imbatte in folgoranti similitudini a proposito di quella carta (“vecchia e unta”) che è l’elemento archetipico della creazione poetica. Negrura, proiezione di pensieri, umori e sentimenti di volta in volta positivi (”il suo coraggio, la sua grande bontà”; “fanciulla molto gentile”), ambigui (“adorabile, impietosa, aguzzina”) e negativi (“i tuoi occhi non lacrimavano mai davanti alla miseria”), mentre il Nostro, redivivo Humbert Humbert, giace, “semi [sic!] adagiato nell’insulsa calura / del meriggio, affranto e floscio”). Negrura-Lolita oppone, con la sua luce nera, forza alla stanchezza dell’autore (“… ponevo la mia mano aperta davanti / ai suoi occhi e me ne riparavo, / mi riparavo i miei, troppa luce/ troppa forza”), forte, appunto, del suo vigore d’inafferrabile uccello (“… il gabbiano di mare, regale nelle sue/ ali spalancate… volteggia tra le guglie/ nelle rocce, la grande aquila”).
Con Burlesque (2013) Ederle sembra mutare registro, ma è più apparenza che realtà: si tratta, infatti, come di una ri-creazione, di un otium, dal carattere meditativo, in cui uomini e bestie (come in tanti luoghi letterari medievali, come in Trilussa) concorrono, di volta in volta, a produrre costrutti simbolici spesso folgoranti.
Del 2014 è Le magnifiche donne di Glencourt, che è anche il titolo del poemetto epico posto in coda al volume. Riferendosi alle saghe del medioevo nordico e avendo in mente tutta una recente letteratura fantasy, Ederle si concede una piccola deviazione dal suo percorso creativo, donandoci un amaro divertissement nel quale nordiche amazzoni dal possente corpaccio, piantato, come fusto immane di quercia, su gambe taurine, si battono contro gnomi dalle esili cianche che hanno osato attaccarle, incappando in una in una sonora sconfitta – dolente constatazione, ai nostri giorni, dell’impotenza maschile, acutamente definita dalla differenza anatomica fra gli arti dei contendenti: il maschio dalle deboli gambe ha perduto il suo ubi consistam a vantaggio di stolte virago. Si è, in questa favolosa batracomiomachia fra mostri, all’interno di una caotica tregenda: tutti insieme, comunque: maschi e femmine; in quella “nave dei folli” cui l’immagine di Bosch stampata in copertina chiaramente allude e che è il nostro mondo. Ma prima, ovvero nelle sezioni precedenti, il Nostro ci regala ancora, utilizzando anche, con duttile abilità lessicale, convenzioni letterarie risalenti al medioevo, immagini di rara efficacia anche cromatica, pur all’interno della ferrea corazza formale che si è imposta: donne, falconi, gabbiani concorrono a un rendez vous insieme tenero e crudele, mentre si trapassa a sonore atmosfere caraibiche e si evoca il mondo delle fiabe, a contrasto con il poemetto di chiusura della raccolta (L’ombra della betulla). Cinema, letteratura, mito e relativi personaggi antichi e moderni, adombrati più che svelati, ma sempre trattati nella forma raffinata dello sketch, si mescolano nella sezione Poesie su personaggi instabili, nella quale vengono riproposti anche riferimenti all’ambito musicale, la tematica paterno-filiale, le relazioni amicali. E, poi, l’eros, vitalissimo, infiammato ed avvolgente (Poesie dell’eros) e, ancora, la narrazione del corpo (Poesie del corpo): itinerario delicatamente percorso attraverso mani, piedi, occhi, labbra, orecchi, nasi, capelli, cuori, sangue, cervelli, in cui il registro nobilmente patetico si accompagna, talora, alla rievocazione, cruda, della crudeltà degli uomini (viene ricordata, con accenti commossi, la fine del poeta Miguel Hernández). In Memoria di Carmencita restituisce il Nostro ai temi e ai toni, sommessi, del destino dell’anima. Sguardi rinvia infine, ancora una volta e con affetto, a immagini e segni connessi con il mondo delle relazioni personali più intense e significative.
Il deserto di Uség (curiosamente con gli accenti alla spagnola, nel titolo di copertina, anche per “Éderle”), anch’esso del 2014, è la storia di un Gesù, di un Satana e di una Maria dai nomi a lettere invertite (si rammenti l’Aznéciv, la Vicenza di Bandini, citata nella presentazione del suo Meridiano di Greenwich ne La “lauzeta” di Bandini, del 1999 – La luce dei cristalli) i quali si trovano immersi in un’allucinata, desertica ambientazione dove Uség, puro folle alla Parsifal, umanissimo e dolente, si confronta con un Átanas in postura da Farinata degli Uberti e grandioso nel suo contegno miltoniano, che si trasmuta (come nelle leggende dei santi anacoreti) in un’ammaliante Negrura, come a tentare un Sant’Antonio ante litteram. E la ripudiata tentazione del potere (citazione evangelica in castigliano) e la spoliazione finale (alla Francesco d’Assisi) di Uség fino alla totale nudità, con il reintegro del figlio nell’archetipico abbraccio della madre e la vittoria finale, di entrambi, sullo spirito del mondo.
Quel che posso anche ricordare, a conclusione del presente intervento, è che se Ederle riconosce, quali suoi virgiliani maestri e autori, Eliot e Pound per la poesia e Raboni per la prosa, la vastità delle sue letture dilata enormemente l’orizzonte degl’interessi letterari che ne hanno animato la creazione.
Confesso di non riuscire facilmente a distinguere fra poeti importanti e poeti minori. Non di rado questi ultimi finiscono per sembrarmi grandi come i primi e spesso, presumo, lo sono, non fosse per le oscillazioni del gusto e della fortuna critica che ne possano condizionare sfavorevolmente il riconoscimento. Quel che presumo, invece, di saper fare – confortato dalla mia formazione scientifica (sono medico e mi occupo di neuroestetica) – è distinguere poeti veri da poeti falsi. E Arnaldo Ederle è poeta vero e anche importante. Vero in quanto è costantemente all’opera, nel suo lavoro, quella sintesi fra elementi cognitivi, suggestioni emotive e traslati mnemonici che le più recenti ricerche nell’ambito delle neuroscienze hanno dimostrato costituire la sostanza stessa dell’esperienza artistica (la quale non va mai confusa con quella meramente linguistica – a dispetto e disdoro di tutte quante le sovversioni registrate, in questo campo, nel secolo scorso). E importante perché in lui l’elemento espressivo si connota, senza esitazioni o squilibri, in termini di rigore formale e di adaequatio rei et intellectus (intelletto proprio e altrui), secondo un filo teso che va da Isaac Israeli ben Solomon a De Sanctis; per modo che le sue modalità comunicative realizzano infallibilmente, senza esitazioni o rotture, un connubio felice con il lettore senza quelle mediazioni intellettualistiche che possono dar l’impressione fallace che un Argas o un Eumolpo qualunque siano grandi poeti. Ciò che costituisce, al fondo, l’onestà e la parresia dell’atto creativo, le quali risultano evidenti ove si sottoponga ad analisi critica tutta l’opera ederliana che va dal 1963 ai giorni nostri. Ne deriva la constatazione di un rapido affrancamento da quello sperimentalismo che aveva condizionato tanta parte della letteratura della seconda metà del ‘900 con il risultato, felicemente conseguito dal Nostro, di pervenire a una compiutezza formale cui non possono, ovviamente, dirsi estranei gli studi musicali a lungo coltivati, le intense frequentazioni delle opere di autori di grande levatura e una formazione accademica e post-accademica orientata allo studio di varie lingue europee e delle relative letterature, antiche e moderne.
Verona, 25.4.15