In Memoria di Federico Sanguineti

di Erminia Passannanti *

FEDERICO SANGUINETI – (Torino 1955-Torino 2025)

Sonetto

Ciao, dottoressa, se ti guardo fiso,
sei sorella di Shakespeare con tua arte,
di Shakespeare la sorella, in tutto e in parte,
tu sorella di Shakespeare mi hai conquiso.
Insieme a te la vita è un paradiso,
canone che dal canone si parte,
sconvolgendo così tutte le carte
come luce che abbaglia in pieno viso.
Questo è un cielo che è più cielo del cielo,
maschile e femminile come noi,
avendo gli occhi aperti senza velo.
Stanza tutta per te io sono, poi,
con calore disciolto ogni suo gelo,
incantato ascoltando i versi tuoi.

Salerno, 2011

(Questo sonetto fu composto da Federico Sanguineti e mandato a me tramite FB Messanger)

In Memoria di Federico Sanguineti
(Torino 1955-Torino 2025)
Professore universitario, filologo, italianista, e dantista


Io e Federico ci incontrammo all’Università di Salerno nel 1985, ma non in un rapporto docente-discente. Io ero allieva di Ugo Dotti, mentre lui, all’epoca, era ricercatore. Mi apprezzava perché una volta mandai a quel paese Dotti. Divenni un’eroina agli occhi di Federico il quale, mentre la scena si svolgeva, rideva sotto i baffi.1
Per un certo periodo ci limitammo a salutarci quando ci incontravamo per strada, riconoscendoci a vicenda: aveva occhi neri, dal taglio obliquo, uno sguardo penetrante e conservava anche d’estate un certo cereo pallore che brillava dietro la montatura d’oro dei suoi occhiali tondi alla Gramsci. Non so dire di che colore avesse i capelli perché li rasava a zero. In seguito, iniziammo a frequentare lo stesso gruppo di amici, piuttosto ampio, composto da studenti, giovani lettori e docenti.
Con questo gruppo di coetanei, andavamo spesso a Le Botteghelle, un luogo d’incontro con musica ed eventi artistici, situato nell’omonimo vicolo del centro storico di Salerno. Con Federico, siamo poi stati amici al di fuori dell’accademia. Ci davamo appuntamento per telefono per andare alla piscina comunale, situata proprio di fronte al mare. Mentre eravamo sdraiati nel sole, parlavamo delle nostre passioni letterarie; da filologo qual era, le sue considerazioni si spostavano sulla letteratura di sua competenza e cadevano anche su questioni teoriche dei suoi studi rigorosi e delle sue letture approfondite dell’opera di Dante sulle cui edizioni lavorava alacremente. Allo stesso tempo, aveva curiosità interdisciplinari e allargava spesso il discorso alla letteratura anglofona che stavo studiando. Il titolare della cattedra di Inglese, all’interno della Facoltà di Lettere e Filosofia, era Pino Massara, che teneva seminari dalla lunga durata sui Sonetti di Shakespeare.
Consolidata la conoscenza, alle volte lo andavo a trovare nel suo piccolo appartamento con balconcino di fronte al Duomo di Salerno, sia d’inverno sia d’estate, come facevano anche altri amici. D’inverno vi si gelava, d’estate vi si soffocava. Lui sopportava stoicamente tutti i climi, circondato dai suoi schedari. Non eri costretto a parlargli mentre compilava le sue schede dantesche, fumando… Era semplicemente una situazione alla Beckett. Dato che all’università avevo seguito un appassionante corso sul Teatro dell’Assurdo, con il Professore Achille Mango, mi ci trovavo perfettamente a mio agio.
Non c’era nessuno come Federico nella città di Salerno. Era di un’originalità unica, insieme disarmante e accattivante: era un giovane uomo profondo, che alternava l’alta intellettualità ad atteggiamenti spesso sornioni, scanzonati, ammiccanti ed allusivi. Fumava, fumava nella sua stanza angusta con un tavolo sommerso da libri e, naturalmente, dalle sue schede, che compilava instancabilmente. Stava realizzando un’edizione critica della Divina Commedia di Dante Alighieri (2001). La scrivania era al centro e tutto intorno pareti interamente coperte da volumi, tra cui Il Capitale e decine di studi su Karl Marx. Mi guardava da sopra gli occhialini solo per lanciare qualche battuta provocatoria alla quale non c’era risposta possibile. Eravamo nella seconda metà dei nostri venti anni, una età in cui l’amico e l’amica che incontri diventa un modello che introietti, ti forma e, in parte, influenza la tua visione del mondo. So cosa in me sia stato effettivamente modificato dalla conoscenza di Federico. Ogni incontro si stratifica nella coscienza: ma Federico lo avverto in modo ineffabile, una sorta di orlo fremente e vaporoso intorno ai miei pensieri originali.
In quella strana abitazione, sita in un antico palazzo del Seicento, una volta riuscì ad organizzare perfino una cenetta. Cucinammo la mia consolidata ricetta esotica di riso indiano con le arachidi —la conoscevo grazie ai miei viaggi a Londra, prima di trasferirmi stabilmente a Oxford nel 1995. Me l’aveva insegnata una signora dello Sri Lanka. Qualche anno dopo, Federico mi disse che quella ricetta era stata la sua pietanza quotidiana.
Nei primi anni ’90 si teneva a Salerno al Castello di Arechi una conferenza annuale, chiamata “Poesia, ’90”, organizzata dal Dipartimento di Lettere. Lì conobbi Amelia Rosselli, Romano Luperini, Robert Dombroski, Gregory Lucente, Piero Cataldi, con cui feci amicizia durante le varie cene sociali al Vicolo della Neve nella parte vecchia della città, occasioni conviviali a cui partecipava anche Federico. Dopo di allora, prima che io mi trasferissi in Inghilterra, andavamo spesso al ristorante cinese in Piazza della Concordia a Salerno. Quando la proprietaria cinese portava al tavolo il conto, offriva sempre lui. Lo controllava e metteva mano al portafogli con un’espressione come a dire che il conto era irrisorio. In effetti, erano scarabocchi scritti a penna con dei geroglifici cinesi incomprensibili.
Da un certo anno in poi, lo incontravo sempre più spesso, ma per caso, perché il ristorante cinese che lui tanto amava, aveva spostato la sede proprio sotto casa mia. Lo vedevo ogni volta mentre entrava o usciva dal locale. Vi pranzò e cenò per anni. Ogni tanto, imbattendomi in lui, gli chiedevo: “Ma Federico, ti farà bene mangiare tutta questa roba cinese?” E lui rispondeva, con la sua solita ironia, che per un marxista-maoista era l’unica consolazione in una città come Salerno. Ad un certo punto andò a vivere a Fisciano.
Durante i miei brevi ritorni a Salerno da Oxford, dopo il 1996, lo chiamavo e ci incontravamo sul Lungomare, per passeggiare o per andare in qualche bar. Le nostre conversazioni, mentre fumava il sigaro, continuarono a essere condotte in stile assurdista e anche un poco dadaista per il reciproco piacere. Mi sorprendeva il suo non avere assunto l’accento salernitano ed avere conservato quello torinese, pur avendo vissuto qui quasi tutta la sua vita. Ogni tanto, per affettazione, diceva qualche frase in napoletano, ma era raro.
Ci legava anche l’ambiente degli amici accademici senesi: Romano Luperini e i compagni del Dipartimento di Critica e Filologia Letteraria. Quando nel 1993, vinsi il primo premio in un’edizione del concorso di poesia “Laura Nobile” conobbi per la prima volta suo padre, che era in giuria inaspettatamente perché stava sostituendo Franco Fortini (se ricordo bene). Di Edoardo Sanguineti conoscevo la poesia, ma non lui di persona. Lo conoscevo inoltre trasversalmente attraverso i lunghi commenti che ne faceva Federico. Tra questi, uno fu; “Mio padre è il più grande poeta lirico italiano del secondo Novecento”. Dai suoi resoconti nascevano altre osservazioni e considerazioni psicoanalitiche. Io sempre in difesa della famiglia, lui sempre contro. Per me è diventata aneddotica una frase che mi disse presso la cassa di un supermercato: “Il tuo problema, Erminia, è essere stata troppo amata da tuo padre.” Federico considerava l’iperprotezione una condizione svantaggiosa. Io evidentemente no.
Quando iniziammo ad usare dei profili su FB, gli mandavo per messaggistica le mie traduzioni dei sonetti di Shakespeare. Ci scambiammo anche dei sonetti personalizzati: ne scrissi due dedicati a lui perché era il solo ad ispirarmi il ricorso ad un sonetto come contenitore di un messaggio; lui ne scrisse uno per me. L’ho incluso nell’antologia Il Sentiero delle More.
Ho (ri)trovato anche questi altri versi di Federico in un file Word doc salvato appunto come “Chat FB con Federico”, datato luglio 2011. Il linguaggio è denso di riferimenti alle mie poesie, e alla sfera intellettuale e psichica:

“Fraintesa psiche, che paghi il tuo salario
di statale a dottoressa borghese,
ricorda, in versi non dai sfogo
elementare a tue infantili
complicate offese, ma con certa
perizia intellettuale, a lei
non gia’ gli indizi, bensì
senso e ragione di diagnosi dai.”

(All’epoca ero rimpatriata per assumere il mio ruolo di docente di Inglese a seguito di un concorso nazionale del Ministero della Pubblica Istruzione). Questi versi, che affrontavano questioni di metodo, erano addizionati di una certa vena provocatoria nello stile della “singolar tenzone” sul ruolo dell’intelletto nella scrittura lirica. In questi frangenti, Federico all’improvviso tirava fuori la forza del suo acume critico anche da uno scambio frammentario e parzialmente frivolo. Per presentare il quadro completo della motivazione di “Fraintesa psiche, che paghi il tuo salario”, il suo testo era una risposta a due miei sonetti, con struttura shakespeariana (tre quartine e un distico finale), dedicati a lui, di cui ne pubblico solo uno:

1.
La vita, Federico, è incongruenza
se da morbo rinviene forza e vita,
la vita, che la sorte avea svilita,
e amore deluso in sua parvenza.

Se il vivere è faina che ravvisa
nera di fine la sua landa bianca,
tanto, penando, la figuri uccisa,
cibo ricerca, invece, e comunanza.

Poca cosa il penar d’oggi t’è segno
della fame dinanzi, e del bisogno,
se senso e vita affidi alla fallanza
a dispetto di cieca irrilevanza.

Per cui, tenero amico, vai sicuro,
vivi faina, non preda appesa al muro.

(7 luglio 2011, Oxford 2.03 am)

Con questo primo sonetto, “La vita, Federico, è incongruenza”, affrontavo il tema della contraddizione e dell’ambiguità della esistenza, che si manifesta nel rapporto tra sofferenza e rinascita, inganno e autenticità, istinto di sopravvivenza e fatalismo. L’immagine della faina sulla neve era, senza che al momento me ne rendessi conto, un prestito retorico da una poesia di Franco Fortini, “Neve e Faine”, che avevo analizzato nell’ambito del mio Ph.D. in Letteratura Italiana a University College London, completato nel 2004 (da cui l’uso reiterato di Federico del termine “dottoressa”).
Mi continuò a vedere come una “dottoressa borghese” e sapevo inutile qualsiasi tentativo di dimostrare il contrario, avendo appreso da lui la snella lezione marxista, secondo cui la classe sociale non è il risultato di un desiderio o di una scelta. Le parole “La classe sociale non è un dato psicologico: è un dato di fatto!” divennero per me un’affermazione da citare, insieme all’altro suo motto da agent provocateur: “Per me le donne sono tutte uguali. Non sono io che scelgo loro, sono loro che scelgono me.” Chi lo conosceva, ricorda certamente quante di queste semiserie perle di saggezza uscissero fuori dalla sua bocca, con un solo angolo atteggiato al sorriso.
Dal 2016 in poi curò con entusiasmo, dunque, il suo profilo Facebook dove poteva comunicare simultaneamente con i suoi lettori. L’outfit che indossava un giorno che ci incontrammo al Bar Canasta è lo stesso che da quell’anno in poi si vede in molte sue foto. Quando gli feci dei complimenti per quella giacca di cotone blu grezzo, precisò: “Ne ho acquistate 10 identiche e indosserò in futuro solo queste e null’altro.” Ed io “Tipo una divisa di ferrotranviere?”. E lui “Esatto!”
Un commovente autoritratto in versi è in questo sonetto del 20 dicembre del 2018 pubblicato da Federico su FB.

Tema. Scrivi un sonetto. Svolgimento.

Ieri ho compiuto gli anni e son felice
di ciò che il social network mi ha donato
ad amiche ed amici essendo grato
e grato ancora alla mia beatrice.
Oh il bene che le voglio non si dice
tanta è la gioia di cui mi ha gravato
perché amandola son da lei amato
e il fato bene assai mi benedice.
Dirlo in sonetto è cosa troppo breve
che un po’ sarei tentato di tacere
lasciare il verso e invece un goccio bere.
Temendo per parola essere greve
pur son sincero ed è cosa sincera
così godendo vita viver vera.

(Federico Sanguineti, 20 dicembre 2018)

A Federico si concedeva ogni indulgenza, perché era un vero gentiluomo, persino quando osava qualche piccola impudenza. Quanto a lui, era sempre molto clemente nei giudizi sugli altri e parlava del rapporto ideale verso i figli, ad esempio, come effusione d’amore, ricordandomi un poco la filosofia di Bergson dell’’élan vital o anche lo Spinoza dell’ “amor Dei intellectualis”, che contemplava un amore universale e di una visione del mondo improntata alla comprensione più che al giudizio. C’erano momenti in cui Federico sembrava al di sopra delle cose umane, pur comprendendole dall’interno.
Nel 2011, collaborai ad una pubblicazione in memoria di suo padre, dal titolo Temperamento Sanguineti, a cura di Tania Lorandi e Sandro Montalto. Io vi partecipai con una poesia, intitolata “Nell’intimo” (p. 63), dietro invito di Francesco Muzzioli o Nadia Cavalera, forse. All’epoca ero ormai una poetessa edita e autrice di poesie caratterizzate appunto da quel “temperamento”: poesia sperimentale.
Federico divenne pubblico poeta più tardi. Mi inteneriva l’ossimoro della sfrontata timidezza delle sue prime poesie postate online su Facebook. Ha avuto una destrezza sorprendente nel genere sonetti a sfondo satirico, erotico-sentimentale, polemico. Alcuni erano parodie del canone che lui si dilettava a destreggiare con modalità solo apparentemente nonsensical che avevano invece una salda logica interna a superarne i confini artistici convenzionali, con il suo forte senso dell’umorismo, che però non era mai dissacratorio. Ne ha scritti a centinaia, tutti contenenti suggerimenti di metapoesia. Ma ha impiegato anche altre forme. Questi sono suoi versi pubblicati su Facebook, caratterizzati dal titolo comune “Tema […] Svolgo” su variazioni dada:

“Tema. Il dovere d’esser cauto. Svolgo.”

A scuola mi si dice d’esser cauto
e pur essendolo ancora mi dicono
che endecasillabi non dovrei scrivere.
Come se fosse facile per me
esser diverso da come era Ovidio
a cui venivan fuori solo versi.
Poi prudenza vorrebbero da me
che senza mia cautela rischio pure
di fare di me stesso un monumento.
Ma ciò si suggerisca invece a Orazio
vantante di aver fatto per se stesso
quel “monumentum” dice “aere perennius”.
Ahimè che sono post post-Sanguineti
e l’abc avendo semplicissimo
padre fuggo e padrone e padreterno.
Poiché una storia letteraria in RAI
sapendo mio Lorenzo che già c’è
non penserei neppure a riproporla.
Nessuno infine tocchi il Regazzoni
il cui coraggio è stato contagioso
nel regalarmi un poco di autostima.
E se non troppo ancora il Paradiso
con l’anno nuovo sono certo invece
veder finire a ruba fin l’Inferno
e ‘Storia letteraria in poche righe’.

(Federico Sanguineti, Salerno, 26 dicembre 2018)

Quando si trasferì a Torino per curare la sua patologia ematologica, le nostre comunicazioni divennero sempre più rare. Vorrei citare una sua testimonianza in versi di quella traumatica esperienza:

“Tema. La leucemia. Svolgimento.”

La leucemia l’ho avuta e la capisco.
Parlo per me ma credo di sapere
che sia patologia psicosomatica.
Almeno nel mio caso mia sorella
mi ha regalato una vita nuova.
A me che avevo il sangue avvelenato.

(Federico Sanguineti, Salerno, 2 dicembre 2018)

Dopo il trapianto e la lunga remissione, le telefonate divennero sporadiche. Ma lo seguivo lo stesso quotidianamente su Facebook, ammirando i suoi testi e tutte le iniziative che lo coinvolgevano come autore, oltre che come studioso. Ho letto con piacere Le parolacce di Dante del 2021 e, prima di questo, La Storia Letteraria in poche righe (2018). Non ho avuto l’occasione di parlare con lui di questa sua ultima pubblicazione, La storia letteraria del futuro. Canone di scrittrici e di scrittori (2024) che immagino respirare uno spirito innovatore nel rispetto della tradizione. Mi riprometto di leggerla.
Per me Federico è stato un caro amico, affascinante e unico. Aveva delle asperità, ma erano solo di natura ideologica. Per il resto, era un femminista con una voce dolce come il miele e un’ironia sottile, a volte imprevedibilmente caustica, che si accettava sorridendo, per affetto. In qualche senso, ho visto in Federico delle affinità caratteriali e spirituali con Tomáš, il personaggio principale dell’opera di Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, la cui mente è in bilico tra intelletto e anima, in una dicotomia che lo porta in situazioni dipendenti da una parte da affinità elettive e dall’altra, da relazioni in cui predomina l’intensità dell’affetto, in una continua tensione tra questi due mondi: quello razionale e quello emotivo. Spero sinceramente che abbia vissuto la sua vita pienamente. Voglio dedicargli nella sua dipartita dal mondo questa poesia di suo padre, Edoardo Sanguineti, rivolta a sua moglie nel momento in cui era incinta di Federico, un testo che trovai e lessi come una rivelazione di stile e contenuto, ben prima di conoscere Federico:
in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno;
ora pesta la ghiaia, ora scuote la propria ombra; ora stride,
deglutisce, orina, avendo atteso da sempre il gusto
della camomilla, la temperatura della lepre, il rumore della grandine,
la forma del tetto, il colore della paglia:
. senza rimedio il tempo
si è rivolto verso i suoi giorni; la terra offre immagini confuse,
saprà riconoscere la capra, il contadino, il cannone?
non queste forbici veramente sperava, non questa pera,
quando tremava in quel tuo sacco di membrane opache
(Edoardo Sanguineti, da Erotopaegnia, in Opus metricum, Rusconi e Paolazzi, 1960)
La poesia fu scritta dopo la nascita di Federico, ma il poeta, suo padre, si rivolge alla moglie amata ricordandole il momento in cui il figlio viveva nel suo grembo, sperimentando la vita prenatale nel suo essere ancora un’ombra indistinta nel liquido amniotico. Il feto è inizialmente descritto come un’entità in formazione, sconosciuta, parzialmente estranea: non è ancora un individuo, ma il sogno (di lei) in attesa di materializzarsi. L’uso di termini biologici suggerisce una visione interrogativa, con metafore attinte dalla scienza per descrivere il figlio che sta per nascere. Una volta venuto alla luce, il bambino inizia ad interagire con il mondo, prendendone coscienza attraverso l’immersione totale, sensoriale e mentale, che prima era solo attesa atavica, come se il mondo gli fosse già familiare pur non avendolo mai vissuto. Il linguaggio si addolcisce e si fa più poetico: l’uscita dall’utero materno è quasi una disillusione e, tuttavia, il bambino (Federico) aveva atteso il “gusto della camomilla”, la “temperatura della lepre”, il “rumore della grandine”, l’esperienza di essere percettivo e partecipe. Sanguineti padre concludeva la poesia con una riflessione sull’ineluttabilità del Tempo e sul destino di nascita e morte che attende ogni essere vivente. Il bambino è stato gettato nella vita (“senza rimedio il tempo si è rivolto verso i suoi giorni”), e ora deve affrontare un mondo che gli appare disordinato e complesso fatto di immagini confuse. La domanda retorica sulla sua futura capacità di riconoscere elementi essenziali (“la capra”, “il contadino”, “il cannone”) lascia intuire un’incertezza più ampia del genitore preoccupato che si chiede se suo figlio saprà orientarsi in una realtà fatta di natura, lavoro e cultura, ma anche di violenza e guerra. Con ironica malinconia, il poeta suggerisce che il feto aveva forse immaginato qualcosa di diverso dalla realtà che lo attendeva. L’immagine delle “forbici” rimanda simbolicamente al taglio del cordone ombelicale, all’atto stesso della nascita, che qui appare come un evento traumatico: la banalità della vita reale sembra essere in agguato rispetto a un’attesa idealizzata, più indefinita e misteriosa. Rispettando in lui tutto questo poetico percorso del ciclo della sua vita, spero (per Federico, per me e per tutti) che esista una dimensione ulteriore a cui lo spirito possa essere restituito, una condizione pre-esistenza privata dell’assillo del Tempo.
“Tema. “Chi sono e chi non sono”. Svolgo.”

Essendo una mancanza la più forte
presenza che si avverta si comprende
perché non sia che assenza di me essenza.

(Federico Sanguineti, Salerno, 30 dicembre 2018)

(A parte, a Federico)



“Tema. Il tuo testamento. Svolgimento.”

In tutta la mia vita ho fatto solo
dei versi più o meno animaleschi
lasciando forse qualche verso umano.

(Federico Sanguineti, Salerno, 3 dicembre 2018)


Quando da giovani avevamo, tutta davanti a noi, vaga, la vita non potevamo ancora sapere che, da vecchi, avremmo avuto, tutta alle nostre spalle, ancora vaga, la vita. Potevamo solo vagamente capire che la vita era coniugabile nel tempo del participio presente.
Temevo questo momento, ed è arrivato.
Federico, accade a tutti noi ciò che oggi è accaduto a te.
Ma tu hai fatto della tua arte una dote comunicativa che lascerà il giusto segno.

Erminia Passannanti (Salerno, 26 marzo 2025)

Napoli, Piazza Plebiscito. Libreria Treves. 2008 approx.
Da sinistra il poeta Gianmario Lucini, Erminia Passannanti, Federico Sanguineti, Viola Amarelli.


Ecco una bibliografia sintetica di Federico Sanguineti:

Opere principali

Gramsci e Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 1982.
La storia letteraria in poche righe, Il Nuovo Melangolo, 2018.
Le parolacce di Dante Alighieri, Tempesta Editore, 2021.
Paradiso con Dante e Beatrice, con S. Alzetta, M. Ovadia e H.F. Cipriani, Tempesta Editore,
2021.
Temi svolti di storia letteraria. A uso di docenti e di discenti, Tempesta Editore, 2022.
Per una nuova storia letteraria, Argolibri, 2022.
Edizioni critiche della Commedia di Dante
Dantis Alagherii Comoedia, Edizioni del Galluzzo, 2001.
Dantis Alagherii Comedia. Appendice bibliografica 1988-2000, Edizioni del Galluzzo, 2005.
La Commedia di Dante alla luce del codice Laur. Plut. XL 12, 2021.
Dante Alighieri, Commedia. Paradiso (I-XVII), a cura di E. Mandola, Il Melangolo, 2018.
Dante Alighieri, Commedia. Paradiso (XVIII-XXXIII), a cura di E. Mandola, Il Melangolo, 2019.
Dante Alighieri, Commedia. Inferno, a cura di F. Sanguineti, Il Melangolo, 2020.
Edizioni critiche di altri testi
A. Manzoni, La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859, a cura di F.
Sanguineti, Costa & Nolan, 1985.
L. de’ Medici, Poesie, introduzione e note di F. Sanguineti, BUR Rizzoli, 1992.

Note

[1] Lascio una memoria, non un epitaffio, nello stile di una “Diary entry” per raccontare di Federico attraverso me, per come l’ho vissuto io. La situazione di esordio era la seguente: nel corso di una seduta di esame pomeridiana, mentre esponevo, inascoltata, le mie conoscenze sul V Inferno, episodio di “Francesca da Rimini” di fronte alla commissione con Dottti, Gatto, Federico e qualche non bene identificato assistente, Dotti, in umore post-prandiale, si rivolse a me, distraendosi dalle sue chiacchiere laterali, e mi disse, pensando di fare una simpatica battuta: “Signorina, io non ho capito niente di quello che sta dicendo. Lei si esprime come Achille Bonito Oliva! Può ripetere tutto parlando a ‘pane e acqua’?”. Io lo guardai dritto negli occhi, occhi celesti, e risposi: “Significa che non posso continuare questo esame con lei,
professore Dotti!” Mi alzai e spostai la sedia dinanzi a Gatto, chiedendo di concludere il mio esame con lui.
Alla fine, accettato il mio trenta, mentre guadagnavo l’uscita tra la folla di miei colleghi in attesa di sostenere a loro volta l’esame, Dotti si alzò in piedi sulla scricchiolante pedana di legno sotto la fila di tre cattedre unite e, sventolando il braccio come un capo ferroviere che dia l’addio ad un treno in partenza, mi disse in tono plateale: “Signorina, non la dimenticherò mai. Nessuno mi ha trattato così male in precedenza!”



* L’articolo è ripreso da QUI

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *