(I pensieri di un uomo di fronte al futuro….se c’è ancora)
di Franco Nova
Rimase sorpreso a trovarselo di fronte all’improvviso. E si chiese che cosa potesse essere. Infatti, non vedeva assolutamente nulla, salvo un debole lucore grigiastro che nulla conteneva di delineato e nemmeno di sfumato. Nulla di nulla; era un vero e proprio vuoto. Eppure lo lasciava esterrefatto ed anche un po’ timoroso. Il motivo era piuttosto evidente: poteva avvolgerlo e farlo sparire in quel chiarore così poco luminoso, anzi così smorto e livido.
Da tempo ormai si era convinto che sarebbe morto presto e andato in qualche luogo bellissimo, pieno di luce e gioia; un premio per una vita castigata, morigerata, senza curare appetiti di un qualsiasi genere. Adesso si sentiva più vivo che mai e finiva in un luogo dove nulla era visibile: nulla di nulla. Gli piaceva molto continuare a ripetersi: nulla di nulla. Gli sembrava di raddoppiare la desolazione di quel luogo davanti ai suoi occhi ormai abbacinati dalla carenza di luce. Provò piacere a triplicarlo: nulla di nulla di nulla. Non cambiava nulla nella sua visione, eppure sentiva accrescersi una strana quiete interiore. Era proprio piacevole nuotare in questo nulla triplicato. Tuttavia, in realtà non nuotava affatto perché nel nulla, nulla nuota. Allora volteggiava senza più peso? Ma nemmeno per sogno, non c’era nulla nel nulla; e anche lui se ne stava ben solido fuori di questo nulla.
Cominciò a scalpitare inquieto; voleva entrare nel nulla, bearsene nella più assoluta assenza di qualsiasi cosa. Il nulla gli rise in faccia e gli chiuse la porta. Si ripigliò da questa strana sensazione: come faceva il nulla a ridergli in faccia e a chiudergli addirittura una porta se non c’era in esso nulla di nulla (e anche di nulla ancora)? Era proprio diventato sciocco, si immaginava chissà che cosa. Eh no, non poteva immaginare nulla se davanti a lui stava il nulla. Provò a pensare a cosa potesse essere ciò a cui pensava. Ma pensava il nulla, e allora se lo si pensa si è già nel nulla e non si può proprio pensare a nulla. Gli girava la testa, un’enorme confusione ronzava imperterrita, non ci capiva appunto un bel nulla.
Finalmente però c’era qualcosa, gli girava la testa, la sensazione non era in fondo nulla; no, no, questa volta sentiva veramente di trovarsi “in situazione”. Accidenti, esisteva ancora. Sì, è vero, aveva un’enorme confusione in testa, non distingueva nulla di preciso, però almeno un qualcosa, sia pure di pasticciato, c’era. Fu subito più quieto. Non sarebbe morto ancora. Prima di questa esperienza, voleva morire per andare in quel luogo bellissimo dove vanno tutte le persone integerrime, che hanno in vita loro praticato la retta morale. Adesso aveva visto che l’unico luogo veramente praticabile e visibile era la confusione, l’indistinguibilità del tutto. Sorrise, si era salvato dal Nulla, aveva ritrovato il Tutto. Non ci si capiva un bel…..eh no!, basta con il nulla, diciamo un bel niente; tuttavia, c’era adesso il Tutto, bello, pieno, grassottello e paffuto, proprio ben nutrito di mille e mille cose mischiate in modo da non saperle vedere separate e ben distinte fra loro.
E chi se ne frega! Prima era davanti al Nulla, adesso aveva una sana confusione e non capiva di che cosa si trattasse; intanto però qualcosa c’era. Bisognava rassegnarsi a vivere nel caos e andare avanti alla carlona? E i costumi morigerati? E la retta morale? E la vita compunta, intessuta di sane privazioni? Al diavolo! Diamoci dentro, si disse, stavolta mi sbraco e faccio di tutta un’erba un fascio. Non distinguerò più …… niente, farò del buio la luce, della luce il buio…. Qui si arrestò di botto come folgorato: luce e buio si possono anche mischiare, appunto, nel lucore grigiastro, ma restano buio e luce. E si ritrovò allora, mogio mogio, davanti a quella vaga e incerta luminosità (e pure oscurità), in cui comunque nulla si stagliava.
Tuttavia, si riebbe. Non era vero che si trovava soltanto nella più completa confusione; aveva di fronte il Tutto. Era partito dal Nulla ed era arrivato, quasi di botto e comunque solo per via di pensiero, al Tutto. Ed inoltre aveva cominciato a pensare a quest’ambaradan perché si era trovato all’improvviso di fronte quel lucore vago, incerto, che aveva i toni del grigiastro. E anche qui, sempre pensando, era riuscito ad afferrare, ma proprio con la vista e non solo con il cervello, che si trattava di una mescolanza di buio e luce. Stava facendo di nuovo confusione; se si fosse trattato di una mescolanza tra i due, l’avrebbe prima vista concretamente, empiricamente, e poi pensata. Non era così; il pensiero vi era arrivato prima e poi aveva visto questa presunta mescolanza tra luce e buio. La conseguenza era ovvia: non era mescolanza ma più semplicemente una via di mezzo. Fu affascinato dall’esperienza di quell’ora che era ormai passata da quando aveva cominciato a pensare stimolato dal lucore smorto, poco vivido, non abbagliante e nebbioso, che si era trovato di fronte; non empiricamente, però, ma solo perché il suo pensiero – stimolato dall’idea di una morte facile e piacevole, con la sistemazione nel luogo bellissimo, premio per la sua buona vita (cioè la vita di un buono) – aveva percorso un certo sentiero.
Infatti, l’idea della morte lo aveva invitato a pensare il Nulla e poi, dopo un breve tragitto, era arrivata al Tutto. Ma la morte è anche il buio e da qui ci si incammina verso la luce. E tuttavia, era arrivato con estrema facilità al Tutto dal Nulla, ma non alla Luce dal Buio; si era fermato a mezza via. Perché? Abbastanza facile capirlo. Dire Nulla o Tutto è esattamente la stessa cosa. Pensare un Tutto indivisibile, indistinguibile al suo interno, non è possibile poiché non ha interno se è un Tutto. E se non ha interno, non è possibile distinguere una qualsiasi sua parte, poiché non ha neppure parti. C’è allora forse differenza tra Tutto e Nulla? No, in ogni caso nulla si distingue né nell’uno né nell’altro. Il Tutto non contiene un bel nulla di visibile; perché vedere significa distinguere. E se non vedo nulla, che importanza ha sapere che si tratta del Tutto? Tanto è come se fosse Nulla. E il Nulla si può ben pensare pieno di Tutto; nulla si distingue in quest’ultimo e dunque….
Non è così con la luce e il buio, almeno non sembra così. Nella luce, se non è accecante, le cose si vedono, cioè si distinguono fra loro. Mentre nel buio la loro vista è preclusa, ma non è affatto detto che non ci siano. In genere anzi ci sono, se ci si muove al buio la loro presenza si rende pur sempre manifesta. Quindi esistono anche al buio, solo non si vedono e dunque non si capisce che cosa siano; ma certamente non sono il Nulla. Ma nemmeno sono il Tutto poiché si tratta di cose, dunque di parti distinte pur se non visibili né quindi conosciute. Buio e luce non possono mescolarsi tra loro, non possono compenetrarsi, confondersi ed essere in pratica la stessa entità, così come sono il Nulla e il Tutto. Esiste solo la mezza via, con gradazioni diverse man mano che si procede lungo il percorso tra l’uno e l’altra. Il buio arretra e avanza la luce; oppure avviene il contrario.
Quando si pensa ad una qualsiasi cosa, ma anche alla vita in generale, è indispensabile distinguere i diversi avvenimenti già vissuti o che si stanno vivendo. C’è bisogno di luce, si deve distinguere il terreno laddove si sta avanzando. E così pure quando il cervello pensa le idee più disparate, anche quando tenta di pensare il mondo nel suo complesso farsi, è necessario afferrare distinzioni e quindi occorre la luce. Quando questa viene a mancare, e tutto diventa buio, non si distingue più nulla, si resta spaesati, privi di appigli, ci si sente avvolti nelle tenebre ma anche coinvolti in un marasma generale. E tuttavia, la piena luce rende troppo completa ogni visione; e il sentire si affievolisce. Si vede tutto distintamente, dunque il sentimento di ciò che fu, di ciò che si sta vivendo, delle aspettative future, si attutisce, si smorza. Tutto è troppo palese, nessun angolo presenta una pur minima zona d’ombra, non sussiste più la piacevole sensazione di qualcosa che ancora esista oltre ciò che vediamo; l’emozione del nuovo che potrebbe presentarsi svanisce, non ha più alcuna ragion d’essere un qualsiasi sforzo teso alla nuova scoperta.
Allora è meglio essere nella via di mezzo, tra la luce e il buio; non mescolati fra loro, no. Dietro abbiamo la luce, e via via più intensa; e avanti c’è il buio, oscuro e occultante ogni cosa, che tuttavia pian piano s’attenua perché inizia a manifestarsi un barlume di luce, e questo andrà rafforzandosi. Appena sarà però sufficientemente forte, illuminerà troppo bene quel che si deve vedere e lo getterà indietro, fra i ricordi del passato; e davanti si presenterà ancora l’oscurità che cela qualcosa di ignoto. Questa la situazione divina, quella che emoziona, che apre alla speranza, ma anche alla paura che si torni indietro alla piena luce senza la benché minima novità da scoprire o che si avanzi verso un buio cui la vista non si abitua più minimamente rendendoci permanentemente ciechi. Speranza e paura: speranza di qualcosa che si sta aprendo alla vista, che sta per essere illuminato; paura dell’ignoto che sempre possa rimanere tale, frustrando ogni nostra avanzata verso un futuro che si faccia meno oscuro.
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Di tutte queste considerazioni che si andavano accavallando, ma anche in un certo senso chiarendo nel suo pensiero per così tanto tempo pigro nell’aver presente solo una vita “buona” e pregna di “timor di Dio”, egli era sorpreso. Che cosa lo aveva illuminato e spinto a quella raffica di ragionamenti? Proprio quel lucore strano che, adesso gli si era chiarito, era la via di mezzo tra luce e buio: la vita “buona”, pensata prima, era solo l’aridità del sentimento, lo spegnimento delle fiamme vive dell’anima. Altro che via al Paradiso! Quello non era il futuro sperato nell’altra vita come premio per il comportamento tenuto in questa. La vita “buona e santa” era solo l’assenza di ogni desiderio di avanzare verso l’ignoto, di vincere il buio che ancora avvolge il nostro futuro; era un rimanere alla luce del già noto, del già vissuto, della pigra consuetudine. La vita “buona e santa” era insomma il passato, tutto ciò che ormai non vive più, ma cui ci aggrappiamo per paura dell’oscurità, dell’ignoto, del futuro sconosciuto. Eppure quest’ultimo è la vita, poiché in esso può esserci apertura a qualcosa di nuovo; ma solo se c’è la speranza, il desiderio di sconvolgere l’abitudinario, di abbandonare il solco già scavato e di squarciare la terra incolta rovesciando le zolle, estirpando le erbacce, bruciando gli arbusti, abbattendo gli alberi. Tutto ciò, insomma, che ingombra il cammino.
Adesso capiva che cos’era quel lucore cui si era trovato di fronte, sia pure nel pensiero, ma con una tale nettezza che gli sembrava esistere nella sua più vivida concretezza. Era appunto la via di mezzo: era il suo presente, laddove la luce è ancora smorta in attesa di ravvivarsi gettandosi nel passato nel mentre l’oscurità del futuro si attenua appena appena, lasciando intravedere alcuni eventi dai contorni poco nitidi, quasi ombre ondeggianti, ma che si vanno stagliando via via con più ferma evidenza. E quel lucore, visibile nella sua mente, si squarciò. Era stato sempre convinto che, la sua vita scorrendo con molta moderazione nei piaceri e compiendo “buone azioni”, si sarebbe spinto al limitar della soglia del Paradiso, dove ovviamente avrebbe avuto libera entrata solo dopo la morte.
La sua vita, così pensava, aveva costantemente proceduto in direzione di quel bagliore supremo che si dice sia la “vista di Dio”. Sapeva che alcuni sono convinti di poterne godere già nel mentre sono ancora vivi, se vivono secondo santità. Lui non pretendeva tanto. Procedeva lungo sentieri segnati dall’insegnamento divino (o almeno quello che a lui appariva tale) e aveva sempre creduto che la “Grande Luce” lo avrebbe inondato dopo la morte. Tuttavia, già in vita il “paesaggio” gli era sembrato ben illuminato, almeno come appare nelle prime ore del mattino quando finalmente il Sole si stacca dall’orizzonte e si dirige in alto. Improvvisamente si era trovato davanti quel lucore incerto, di colore indefinito, che sfumava i contorni degli “oggetti visibili”.
Ci aveva pensato, ripensato e ora gli sembrava di aver capito che la Luce più vivida viene lasciata indietro. Per quanto ci si attacchi con nostalgia ai ricordi, la spinta vitale procede oltre, ti getta nelle braccia del futuro; e, man mano che vi ti addentri, gli “oggetti in vista” assumono contorni fluidi e poi sempre più netti, e infine ne afferri la reale forma. A questo punto i margini di incertezza sembrano sparire, gli “oggetti”, gli “eventi”, diventano presenti là davanti a te e pian piano la luce li illumina sempre più. E tuttavia per un lasso di tempo non lungo restano ancora in quel lucore che te li presenta ricchi di possibilità. Santo cielo, pensò, ma questo è appunto il mio presente, che non dura affatto un attimo, ma è pur sempre troppo breve. E poi, mentre tento di trattenerli, i maledetti smottano nel passato e a quel punto me li vedo con una vividezza che quasi mi acceca; ogni incerta luminescenza, proprio quella che li rendeva gradevoli e accettabili ai miei occhi, sparisce e sono lì in piena luce ma sempre più piccoli e lontani. E subito, senza lasciarmi mai un solo attimo di respiro, altri “oggetti” ed “eventi” mi si gettano in mezzo ai piedi, emergendo dall’ombra. E bisogna vedere con quanta arroganza richiamano la mia attenzione, l’esigono, diventano perfino minacciosi se mi azzardo a tenere la testa girata all’indietro per non perdere la più lucente visibilità di ciò che si sta allontanando alle mie spalle e magari sollecita la mia tenerezza.
E’ allora irragionevole la ragione, convinta com’è di illuminare il futuro? Sì, lo fa senz’altro o almeno lo tenta. Solo che, non appena lo ha veramente illuminato, tutto quel paesaggio ormai visibile mi è già alle spalle e accelera il moto di fuga da me. E davanti cosa resta? Appunto il futuro, di nuovo il buio che qualche volta mi schernisce pure, dicendomi: vieni avanti, prova ad illuminarmi se ci riesci, così io ti sfuggo di nuovo ponendomi alle tue spalle e lì mi diverto assieme agli altri tuoi ricordi. E questa la chiamiamo ragione? La ragione deve ragionare, trarre conclusioni da determinate premesse attraverso una serie di passaggi logici. E questi passaggi logici mi indicano un percorso di vita che non deve mai chiudersi all’oscurità del futuro, nemmeno quando quest’ultimo sembra vicino a terminare la sua funzione stimolante. Il futuro può anche essere alla fine, ma non si chiude quell’apertura da cui pian piano filtra quella luce che subito dopo inizia a gettarsi nel passato mentre davanti resta il buio e….. quell’apertura da cui poi filtra nuova luce e nuovamente se ne va alle spalle; e così in continuazione fino alla cessazione del futuro. E’ proprio un bel divertimento, un bel “gioco dei bussolotti”!
Cosa invece mi era stato insegnato, prima che finalmente questo lucore, spuntato misteriosamente dal nulla, mi rimettesse in carreggiata? Che la ragione fuga il buio del passato e apre il futuro alla luce (ai ben noti “Lumi”). Ma è proprio il contrario, “bufali” del pensiero. Meno male che mi sono deciso ad uscire di casa oggi; se rimanevo in salotto steso sul divano e con gli scuri chiusi per il gran caldo, sarei rimasto a pensare come la scimunita maggioranza odierna. Qui si arrestò di nuovo di botto: no, non devo pensare così altrimenti casco anch’io nell’arroganza del ragionare. Quello che oggi ho imparato è qualcosa di diverso. La ragione può discutere di vari argomenti e arrivare per ognuno a conclusioni opposte a seconda del punto di vista da cui ci mettiamo. E’ come quando si fa la frittata; quando è cotta da una parte, alè, la si rivolta e si frigge l’altro lato. Ma non è detto che riesca bene, che sia saporita e la si possa servire così. Eh sì, si disse l’improvvisato ragionatore, non c’è nulla che possa assicurare la riuscita della frittata.
Si ricordò di un vecchio detto: “la prova del budino si fa mangiandolo”. Altra fesseria. Ci sono gli ingordi che ingoiano tutto senza quasi masticare; cosa vuoi che provino questi bestioni! Diciamocelo francamente, sono almeno il 90%, non sanno cosa significhi assaporare. Era un po’ sconsolato, le conclusioni di quel ragionare (si fa per dire) non concludevano in nessuna direzione definita. Tuttavia, egli pensò che in fondo era del tutto normale, perché la ragione, carattere tipico dell’animale uomo, ri-flette. Quando giunge ad una conclusione, si flette nuovamente sul risultato raggiunto, lo sottopone a nuova ri-flessione. E per una discreta serie di passaggi successivi. O, per meglio dire, era stato così fino all’ultima o penultima generazione. Adesso, con i vari “strepitosi” strumenti a disposizione, non è che si riflettesse molto, almeno così gli sembrava. Pensò che in fondo si stava tornando alle precedenti specie animali, in cui allo stimolo vi è pronta risposta; ed è morta là.
Pensò soprattutto a quelle bestie dei genitori, tutti soddisfatti: alla loro età ero così imbranato, così lento, adesso sono velocissimi! Appunto a non ri-flettere. E un altro ricordo gli sovvenne; quando aveva visto per la prima volta “Il rinoceronte” di Ionesco. L’aveva trovato strepitoso, ma pensava che si fosse lontani da una situazione simile. Errore madornale, si erano moltiplicati con accelerazione esponenziale. E i rinoceronti padri e madri erano forse più responsabili dei rinocerontini.
Era da due ore, anzi anche più, che si era infilato in quella serie di ragionamenti tutto sommato un po’ bislacchi. E ne aveva incontrati di rinoceronti! Temeva però di avere anche un po’ gesticolato ragionando con se stesso. Chissà cosa avevano pensato i passanti. Beh, meglio definire subito la sua posizione di un po’ matto. Si rivolse al primo incontrato dopo questa sua decisione: “scusi permette una domanda? Ha mica incontrato per caso un rinoceronte?”. L’altro sgranò gli occhi, ma non osò rispondere con un’alzata di spalle o una mandata al diavolo, forse era timido o educato o semplicemente terrorizzato: “Non so, sono appena uscito di casa”. “Ah, be’, è nella mia stessa situazione, in fondo queste due ore mi sono passate come due-tre minuti”. Quello sorrise a disagio e si volse rimettendosi in cammino con passo accelerato. E il “nostro” scoppiò in una risata liberatoria: in definitiva, era valso la pena uscire di casa pur con quel caldo insopportabile.
Qualcosa aveva pur sempre imparato; e doveva ringraziarne lo strano lucore in cui s’era imbattuto. Già, se n’era scordato da un bel po’. Dov’era finito adesso quell’intrigante che l’aveva messo in così grande agitazione? Non c’era più, dileguato. E chi l’aveva inviato a disturbarlo così pesantemente? Come non ci fosse già il disagio del caldo! Non importava rispondere, forse si era immaginato tutto, il caldo gli aveva appunto dato alla testa. Tuttavia, lo aveva spinto ad una considerazione che non riteneva inutile. Si deve ragionare, il che significa ri-flettere. Mai rispondere subito ad uno stimolo come un animale; come i “rinoceronti” umani dilagati nella nuova epoca. Tuttavia, mai prendere la ragione come giudice inappellabile del vissuto. E’ poca cosa questa ragione. Non se ne deve fare a meno, non si devono affatto avere soltanto “pronti riflessi”, salvo che in specifiche contingenze di vita. Si deve però smettere di idolatrarla, di credere che giunga a chissà quali verità. Eh, la verità è altra cosa, chissà dove si trova. Non certo nella ragione! Magari non c’è e basta. In ogni caso, non la troviamo nel ragionare, nemmeno “complesso”, nemmeno dei grandi cervelloni del filosofare. Via, via, semplifichiamo le cose!
Convincente *rappresentazione* di due millenni filosofici, se non fosse… quella trascurabile domanda distrattamente inserita in razionale contesto: “E chi l’aveva inviato (lo strano lucore) a disturbarlo così pesantemente?”
Abile e catturante in ogni caso la messa in scena della fil occidentale.
…un racconto molto potente, anche se parla de dubbio, una dimensione che l’intelligenza umana non dovrebbe mai perdere, ridimensionando le pretese assolute della ragione…ma a colpirmi sono i fasci giganteschi di luce ( secondo me, il racconto piu’ bello di Franco Nova) che arrivano dalle direzioni piu’ disparate ad illuminare (vedi anche accecare) tratti di realtà e di tempo, ma continuamente in movimento, per cui gli stessi tratti finiscono poi nell’ombra…benvenuto il” debole lucore grigiastro” che permette al protagonista di abbandonare le sue ferree convinzioni per entrare in quel nulla che è ancora il tutto, da cui partire per un percorso di riflessione ( il principio della meditazione)…La luce e le tenebre mi hanno ricordato un faro illuminato e rotante di notte sulla distesa del mare…può illuminare tutto il mistero o solo brevi tratti? E gli abissi del mare? Certo può orientare i naviganti alla ricerca di un porto…
È un racconto questo? – mi sono chiesto a una prima lettura. Ma ho presto messo da parte gli scrupoli letterari, perché lo scritto di Nova, pur non presentando dei personaggi, un contesto esterno facile da cogliere, uno svolgimento – i caratteri tipi della narrazione a cui siamo più abituati – ha dei ragionamenti e direi dei drammi (complessi) di pensiero in cui ci si riconosce e che equivalgono in qualche modo a dei personaggi.
Il lettore viene a sapere che parla uno (indefinito) che è vivo ma in un luogo indefinito anch’esso. («in un luogo dove nulla era visibile»). Questo nulla sembra anche antropomorfizzarsi («Il nulla gli rise in faccia e gli chiuse la porta»), ma solo per un attimo.
L’andamento dei pensieri del narratore sembra poi scaturire dalle stesse parole che usa per pensare o dalla memoria di detti comuni che gli tornano in mente. Sembra che non riesca ad uscire dal linguaggio e da un’analisi logica dei paradossi del linguaggio. (Verrebbe da dire che “è parlato dal linguaggio”, come sosteneva Lacan).
L’unico punto solido, esterno al pensiero, sembra essere quel «lucore vago»; quindi una sensazione. La vista gli fa capire che quel lucore è «una mescolanza di buio e luce». E qui sarebbe da approfondire l’interessante problematica filosofica: è la sensazione che porta al pensiero o è il pensiero, stimolato in questo caso dal pensiero di morte, a riportare l’attenzione dell’io a quel lucore.
C’è un processo (del pensiero) e un suo dramma. Schematicamente i passaggi che riesco a cogliere sarebbero i seguenti: credenza in un luogo bellissimo immaginato dopo la morte> nulla>confusione> aggiramento del Nulla per finire attorno al Tutto> equivalenza (sempre linguistica!) tra Nulla e Tutto (« Dire Nulla o Tutto è esattamente la stessa cosa»).
Sempre interessante trovo il passaggio (che però mi pare brusco) dal problema del Nulla e del Tutto che non si distinguono tra loro a quello del buio e della luce, che invece non possono «mescolarsi tra loro». E la successiva analogia tra pensare e luce. Qui mi pare di vedere un cenno alla dialettica dell’illuminismo (Adorno): troppa luce può essere dannosa, si può avere una visione completa ma il sentire (il sentimento di ciò che fu, di ciò che si sta vivendo, delle aspettative future, si attutisce, si smorza) si affievolisce.
E però viene accennata anche una soluzione del dramma (di pensiero). Perché la voce narrante (o meglio pensante) si accorge che la vita “buona e santa” che faceva ( o credeva di fare) era un velo che impediva di capire: era assenza di ogni desiderio e rifiuto (inconscio?) «di avanzare verso l’ignoto, di vincere il buio che ancora avvolge il nostro futuro». Anche se non ho capito perché questa “vita buona” (ma immaginaria) coinciderebbe in pieno col passato, che non credo in nessuno sia riducibile a puro immaginario.
Ma il punto più interessante e però problematico sembra quello in cui la concezione illuministica della ragione viene ribaltata. Si arriva al ridimensionamento della funzione tradizionalmente ad essa attribuita: «La ragione può discutere di vari argomenti e arrivare per ognuno a conclusioni opposte a seconda del punto di vista da cui ci mettiamo». E all’ammissione che:« la verità è altra cosa, chissà dove si trova. Non certo nella ragione!». Da qui in poi, scesa dal piedistallo, cosa farà la povera ragione? Già vedo farsi avanti altre guide: la fede, l’intuizione. O spalancarsi le porte ad altri tipi di filosofie “non occidentali”. Il narratore non dice che bisogna disfarsene, ma certo essa è una nobile decaduta e attira meno.
Ho seguito anch’io lo stesso percorso di Ennio: tra essere e nulla e luce e buio c’è un salto
* ma è il salto tra essere e pensiero, sono io che penso,”metto sotto attenzione-luce”, ciò che è
* e proprio qui entro nella dimensione del tempo, con i giochi tra la luce del passato e/o del futuro… Benjamin
* a questo punto incontro anche i rinoceronti che del resto non mi hanno seguito fin qui…
* ma mettiamo che sono anch’io in fondo rinoceronte “si era infilato in quella serie di ragionamenti tutto sommato un po’ bislacchi. E ne aveva incontrati di rinoceronti! Temeva però di avere anche un po’ gesticolato ragionando con se stesso”…
* e ci avviamo alla conclusione
* “Qualcosa aveva pur sempre imparato” … “Si deve ragionare, il che significa ri-flettere. Mai rispondere subito ad uno stimolo come un animale; come i ‘rinoceronti’ umani dilagati nella nuova epoca. Tuttavia, mai prendere la ragione come giudice inappellabile del vissuto” la ragione è poca cosa “Si deve però smettere di idolatrarla, di credere che giunga a chissà quali verità. Eh, la verità è altra cosa, chissà dove si trova. Non certo nella ragione! Magari non c’è e basta”.
* La sostanza del testo è però, secondo me, in quello strano lucore: “E chi l’aveva inviato a disturbarlo così pesantemente?”
* Direi: posizione relativista ma non nichilista, volterriana del giardiniere, e chi non vive in fondo così, con una vita “buona e santa” ma solo se c’è la speranza…
Dura da mantenere senza aldilà celesti o del soldell’avvenire, i neurobiologi la fondano in un naturale rispecchiarsi nel prossimo, o nel vantaggio della cura dell’altro in nome della specie… Insomma qui siamo, tra religione, ottimistica scienza, contraddizioni razionalmente accertate, ecc ecc
* Eccome se questo E’ un racconto! C’è una storia, una trama, un climax, uno scioglimento, dei fantasmatici personaggi… E’ una non-fiction, come tante, sempre più, se ne scrivono.
Tutti e quattro i commenti mi sembrano ottimi anche se con diverso sviluppo e articolazione. E non trovo particolari obiezioni da fare; solo una perplessità che ha rimesso in moto il mio “arzigogolare”. La ragione verrebbe in un certo senso svalutata (una “nobile decaduta”), comunque ridimensionata e ciò potrebbe aprire la porta a fede, intuizione, ecc. E allora vediamo.
In un certo senso, non pongo la ragione (o forse la razionalità che mi sembra termine un po’ meno tronfio e arrogante) ad un posto privilegiato rispetto all’intuito o alla fede. Forse penso semplicemente che appartengano a ordini diversi ed esplichino funzioni diverse. Vedo orgoglio di primo della classe in chi privilegia la ragione (razionalità), in chi privilegia la fede, in chi privilegia l’intuito. A me sembra che siano attributi, tutti, specifici della specie umana (il nostro intuito non è proprio quello degli altri animali), ma situati in ambiti piuttosto differenti fra loro. E tutti mi sembrano ineliminabili, e credo indispensabili, per il nostro atteggiarci di fronte alla “realtà”, cioè a quel mondo che viviamo come “esterno” e nel quale dobbiamo muoverci, cercando di farlo con l’ottenimento, se possibile, di una certa qual soddisfazione e contentezza; o quanto meno riducendo al minimo la nostra tristezza, amarezza, talvolta disperazione, ecc.
Lascio perdere la fede e l’intuito; magari non sono il più indicato a scriverci. Veniamo alla ragione (o razionalità). Non credo di svalutarla, solo di non attribuirle valenze tali che poi ci lascino disillusi; e che inoltre, spesso, rasentano la ridicolaggine. Troppo facile è prendere in giro Pangloss (Leibniz), ammettendo che il mondo non è perfetto, non è il migliore dei mondi possibili, per poi giungere alla conclusione che ognuno deve “coltivare bene il proprio orto”, con massima tolleranza verso gli “orti altrui” e giungendo comunque ad un mondo migliore (meno peggiore) tramite il retto uso della ragione. E’ più stupido Pangloss o Voltaire? O lo sono entrambi? Non voglio decidere, ma restare perplesso. Vediamo.
Credo che questo mio racconto debba essere integrato con le riflessioni (messe in altro luogo) su Robinson (Crusoe) e Tarzan. Il primo è prodotto della nuova società: detta capitalistica, in altri contesti borghese, ma insomma è quella che scopre le “leggi di natura”, quelle che reggono il mondo, e sono individuate tramite la razionalità pura. Utilizzando razionalmente queste leggi si arriverebbe allo svolgimento dell’azione umana seguendo il principio del minimo sforzo o del massimo risultato. Non è certo il conseguimento della massima felicità, ma la ragione disvelerebbe come funziona il mondo, servendosi di questo risultato per facilitarsi i compiti. Qualcuno ha obiettato che non si può arrivare a scoprire perfettamente questo funzionamento tramite ragione, perché molte delle “variabili” in gioco non possono essere conosciute; o comunque lo sono a giochi fatti, non quando si imposta l’azione razionale per conseguire il principio del minimo sforzo o massimo risultato. In definitiva, le leggi invece che deterministiche diventano probabilistiche, ma il principio del minimo sforzo vige sempre. Non è sconfitta la ragione, è solo “limitata” (Simon).
Balle! La ben nota “vittoria di Pirro” è diventata sinonimo di futura sconfitta solo perché alcuni imbecilli hanno voluto leggervi questo risultato non necessitato dal quel tipo di vittoria. In certi casi, la conquista, tramite enorme dispendio di mezzi e vite umane, di una posizione sovrastante il campo di battaglia dove si affrontano eserciti nemici, può diventare decisiva per la vittoria del proprio esercito. Nella lotta “contro” la natura (i suoi “segreti”) o contro altri umani, è sovente necessario non seguire proprio per nulla il principio del minimo mezzo al fine di vincere. Occorre flessibilità, “ragionevolezza” (più che apodittica razionalità). Occorre la tattica e strategia delle mosse da compiere, che sono molte (un numero indefinito, non precisabile con nessun criterio “razionale”) e prevedono pure, anche spesso, il famoso perdere certe battaglie per (tentare di) vincere la guerra; che magari viene persa egualmente e non solo per mancanza di applicazione dei canoni della ragione.
Insomma la ragione va ritenuta importante, ma lo è tanto più quanto più è consapevole di non illuminare una qualche presunta verità “contenuta indefettibilmente” nel mondo in cui svolgiamo le nostre azioni vitali. Non c’è questa verità. E basta che allora non venga fuori adesso un altro a dire: appunto, bisogna essere relativisti. Non c’è alcuna verità né assoluta né relativa né…… “mio nonno in carriola”! Se poi, tramite fede, o magari per qualcuno anche con l’intuizione, si possa raggiungere una verità, non lo so e non mi pronuncio. Non facciamo però confusione. Qualche volta, un generale vince una battaglia perché “intuisce” la situazione in cui si trova e coglie, quasi istintivamente, la mossa “giusta” (cioè vincente) da compiere. Benissimo, bravo, bis! Questo non va tuttavia confuso con la tattica e la strategia, sequenza di mosse da compiere in base ad una serie di ragionamenti, in grado di cogliere che…… non stanno cogliendo una verità, solo una configurazione del campo di battaglia, delle forze in campo, del mutevole andamento del corso degli eventi in svolgimento durante la lotta.
In definitiva, la ragione è importante, non è una “nobile decaduta”; solo non si fa come fanno alcuni che “pagano” certe ricerche dei propri ascendenti nobili per farsi attribuire il titolo di conte, duca o altro. E’ la ragione e basta. Poi, certamente, nella nostra attività umana, ci sta anche l’intuizione, ci sta la fede. E ci sono quelli che mettono al primo posto quest’ultima o invece una delle altre due. Nel secolo XVIII, fondamentale per la lotta della nuova classe dei (prima) mercanti, e poi soprattutto manifattori e industriali che premevano per il “nuovo mondo capitalistico”, si è portata alle stelle la Ragione anche perché dall’altra parte chi si opponeva a questo trapasso storico-sociale (nobiltà e clero) stava con la fede. Adesso però basta: questo nuovo mondo ha vinto, si è ampiamente trasformato in ulteriori “nuovi mondi” fino a quest’ultimo che un po’ di paura e disgusto magari li induce. Di conseguenza, la ragione torni ad occupare il posto che le spetta. Tutto lì.
@ Nova
1.
“In un certo senso, non pongo la ragione (o forse la razionalità che mi sembra termine un po’ meno tronfio e arrogante) ad un posto privilegiato rispetto all’intuito o alla fede. Forse penso semplicemente che appartengano a ordini diversi ed esplichino funzioni diverse. Vedo orgoglio di primo della classe in chi privilegia la ragione (razionalità), in chi privilegia la fede, in chi privilegia l’intuito”
2.
“Poi, certamente, nella nostra attività umana, ci sta anche l’intuizione, ci sta la fede. E ci sono quelli che mettono al primo posto quest’ultima o invece una delle altre due.”
Difficile non concordare con queste affermazioni. In teoria. Ma appena volgiamo lo sguardo agli avvenimenti o esaminiamo le vicende dei singoli o dei raggruppamenti sociali, economici, politici, culturali questo quadro appare persino idilliaco. E non lo dico per scherno. Vediamo prevalere orgogli da primi della classe quasi dappertutto: tra i razionali ( o i ragionevoli o i razionalisti), tra gli uomin di fede, tra gli intuitivi (artisti, poeti e quant’altro). E nella nostra “attività umana”, che troppo spesso scantona verso il disumano o l’animalesco o il barbarico o l’orrore innominabile, il “dosaggio” di razionalità, intuizione e fede appare sempre insoddisfacente. al posto di una ideale convivenza tra le tre funzioni diverse, c’è scontro, esasperazione.
Dove nella storia si è riusciti a mantenere un certo equilibrio? E oggi poi?
Comunque io, pur avendo parlato della ragione come “nobile decaduta”, tendo a cercare anche nei terreni ignoti (nel cosiddetto “irrazionale”, “inconscio”) trascinadola con me.
Per un errore d’interpretazione da parte mia avevo cancellato frettolosamente questo commento. Lo pubblico scusandomi con l’autore o l’autrice che aveva usato (legittimamente) un nickname che ora non ricordo. [E.A.]
Inviato il 21/07/2015 alle 10:56
“Diceva Gesù : a colui che ha bestemmiato contro il Padre sarà perdonato. A colui che avrà bestemmiato contro il Figlio, sarà perdonato. Ma a colui che avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato, nè in cielo, nè in terra”.
Possiamo mancare di intelligenza, essere incapaci di riconoscere gli effetti diversi della creazione della “causa prima” : possiamo non riconoscere il “Padre” . Allo stesso modo, possiamo mancare di cuore, non essere meravigliati da tanto amore e bellezza in un uomo, possiamo non stupirci della sua pazienza e della sua infinita misericordia, possiamo non riconoscere il Figlio di Dio. Ma… Non riconoscere lo spirito, il soffio, la stessa Vita della nostra vita, questo è più grave poiché è negar se stessi.
Questo passaggio del Vangelo di Tommaso ci ricorda la grandezza della visione di Dio come Uni-trinità. Il padre è l’essere percepito come pura trascendenza, come alterità pura, (assenza, mancanza, nostalgia ). Il Figlio è l’essere percepito nel suo carattere immanente. Lo spirito è il legame tra trascendenza e immanenza. Dove manca lo spirito ci si chiude in religioni di pura trascendenza e Dio resta uno sconosciuto un inaccessibile. Come disse Prévert : “Dio che sei nei cieli, restaci !”
Se vi fosse solo il Figlio ci si chiuderebbe in una religione dell’immanenza e l’uomo diverrebbe idolo di se stesso. Egli si basta, si chiude in se stesso, senza aperture al trascendente.
lo spirito santo (retta ragione) preserva trascendenza di Dio e REALISMO dell’ESPERIENZA immanente. Perché non sarà perdonato a colui che nega lo spirito santo ? “Dio può fare TUTTO ci dicono i padri della Chiesa, ma non forzarci ad amarlo”. Dio non può nulla con coloro che rifiutano perdono e misericordia. Dio non può nulla contro chi brucia il PONTE che gli era stato offerto e che faceva il legame tra le due rive del fiume.
Rifiutare lo spirito santo è rifiutare questa possibilità di Unione tra Uomo e Dio. È chiudersi in se stessi. Se c’è inferno e perché Dio è Amore e l’uomo Libertà. l’uomo può dire NO, e l’Amore non può forzare una porta che si chiude : non sarebbe più Amore.
…penso anch’io che non possiamo fondare la nostra conoscenza sulla sola ragione, per quanto le sue potenzialità siano altissime c’è sempre uno spazio infinito che la trascende, un magma indistinto e incandescente dentro di noi che ci spinge oltre, spesso a smarrirci…La ragione, come questo spazio di immaginazione, di intuito, di fede, di irrazionale , di inconscio, di trascendente… (perchè farci dividere dalle parole? In fondo sono ancora strumenti, poi c’è “la scelta”…) coabitano in noi e mi sembra buono il riferimento al titolo di una incisione di Goya che Rita Simonitto riporta nella sua intervista : “Il sonno della ragione genera mostri”, spiegato così: “La fantasia priva della ragione produce impossibili mostri, unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie”…
La ragione è spesso confusa dall’uomo moderno con il discorso e con la capacità di creare connessioni “logiche” (ancora una volta siamo nel linguaggio). L’intuizione sempre per l’uomo moderno sarebbe un fatto che esce da quella che lui ritiene la ragione ed arriva a penetrare la realtà senza l’ausilio di tale connessioni. In realtà queste percezioni e confusioni semantiche sono molto recenti, hanno tutt’al più tre secoli di vita e sono frutto delle gravi deteriorazione createsi soprattutto all’altezza del XVIII secolo. Tuttavia, l’uomo preserva le sue capacità di riparazione semantica poichè sua integrità non viene meno, ma è solo occultata dalla parola : con qualche sforzo può tornare a mettere un po’ d’ordine in tutto ciò. Il racconto qui sopra era appunto il tentativo di confrontarsi con le varie emozioni che la parola non riesce più trasmettere e interpretare e per questo motivo ho inviato quel post male interpretato proprio a misura dell’indigenza semantica dell’uomo moderno.
La logica e il discorso NON sono la Ragione. Sebbene già col Petrarca i due termini si confondano, al punto che “ragionare” diviene molto prossimo di “discorrere” : tale petrarchismo è ripreso nella lingua italiana del XIX secolo (Leopardi : “così meco ragiono” e cioè “discorro” “parlo a me stesso”) andando inevitabilmente a sovrapporsi all’idea di Ragione uscita dai Lumi e subendo quindi un’ulteriore degradazione unità a una sorta di “divinizzazione” e cioè idolatria : l’idolatria è proprio il prendere una parola per la cosa è viene detta il “fissare in immagini”. È una parola morta che viene idolatrata come una reliquia, il che è significativo del fatto che nel XIX secolo lungi dall’aver ritrovato la Ragione, l’uomo testimonia solo di averla persa definitivamente : di qui la necessità di tenerla in vita attraverso l’idolatria.
Tuttavia, come dicevo, il logos non è la ragione. E l’intuizione non è un fatto estraneo alla ragione, ma è anzi la ragione stessa : l’intuizione emana infatti dal l’intelligenza, emanante a sua volta da quella che un tempo veniva chiamata “anima intellettiva” e che nella Bibbia è detta Neshamà che altro non che l’INTELLETTO (che non è il “cervello” ). Essa è legata più allo sguardo che alla parola. Il logos (scambiato oggi per ragione) è invece la Ruah , il soffio, ed è più legato al linguaggio : al punto che Dante stesso nel De Vulgari Eloquentia pone le facoltà linguiste umane a “metà strada” tra quelle più propriamente ‘ANIMAli” O sensibili (nefesh, tradotto con anima , nella Bibbia è il corpo biologico) e spirituali o “invisibili” (Neshamà, tradotto sempre con anima è l’Intelletto).
Cos’è la ragione? La ragione emana dall’intelligenza ed è una piena proprietà del linguaggio attraverso questa : si tratta cioè dell’intelletto che sottomette il logos. Tale proprietà è molto RARA e nella Tradizione veniva chiamata RUAH HA KODESH (e cioè spirito significato, significante o “parlante”) tale espressione ebraica che definiva la RAGIONE è stata tradotta con : “SPIRITO SANTO”.
Per quanto riguarda “Abba” poi tradotto con padre , ho spiegato tra parentesi che si tratta proprio dell’ASSENZA, quella che nel racconto è detto NULLA. Mi fermo qui perché capisco che tutto ciò è massimamente degradato per poter essere oggi recipito.
…scusa, l’Amore cos’è se non la possibilità di costruirci un po’ insieme? Lasciando aperta magari la possibilità di più porte al suo accesso? Gli strumenti della conoscenza sono tanti, poi bisogna vedere in quale direzione operano…A volte i risultati della conoscenza ottenuti, se vengano dalla sola ragione o dall’intuito-fede-immaginazione non importa, urlano troppo, pretendono di avere “ragione”, per cui mi è sembrato che il momento iniziale del percorso descritto da Franco Nova, sia corretto: allontanare tutti i pensieri, zona grigia, entrare nel nulla o tutto, fare silenzio…poi le cose assumeranno le loro reali proporzioni, si creeranno nuove convinzioni o si rinforzeranno le esistenti…chissà. Ci colleghiamo con il trascendente?
@ Leah:
*E’ doppia la nostra storia tra “tre secoli di vita” e le “capacità di riparazione semantica” che apparterrebbero all”‘intuizione che è la ragione stessa”
anima intellettiva che sottomette il logos: vista vs parola
* per ragioni femministe, posso anche immaginare (ma non ne ho prove etimologiche) che “abba” sia “nulla”, (anche se dalla primitiva alif/stacco c’è già un passaggio al primo suono labiale esterno -cultura di yoga tantrico- quindi quel nulla è già pensato, come correttamente individua Nova
* dopodiché lo spirito che parla -e sottomette il logos- lo spirito parlante è “santo” cioè sancito e separato, è spirito incarnato, vivente della nostra vita, e quindi… anche dei tre secoli infami!
* la mia sintesi è che non troveremo nel ritorno nessuna salvezza, cara Leah.
È lei che usa la parola “infame”. Io non li ho definiti infami. Non uso mai connotazioni morali nè quando parlo, nè quando scrivo. Comunque grazie dell’ospitalità. Ho commentato solo per far un piacere a Nova che mi aveva inviato il racconto con il link. Ora basta, anche perché Le chiacchierate le tollero male anche dal “vivo”. Spero solo non mi si inviino altri link con racconti.
Subito dopo aver letto la chiusa del post di Leah del 23.7 (*Per quanto riguarda “Abba” poi tradotto con padre , ho spiegato tra parentesi che si tratta proprio dell’ASSENZA, quella che nel racconto è detto NULLA. Mi fermo qui perché capisco che tutto ciò è massimamente degradato per poter essere oggi recipito*) mi sono imbattuta – che coincidenza d’incontro! – in un aforisma di Oscar Wilde. Incontri di questo tipo oggi non sono difficili visto che la comunicazione linguistica procede per flash, spot, e… aforismi, appunto. La saggezza in pillole! Il nostro Oscar scrive (e ancora non era entrato nel cosiddetto ‘secolo breve’!): “Sono fin troppo consapevole del fatto che viviamo in un’epoca in cui solo gli ottusi sono presi sul serio e io vivo nel terrore di non essere frainteso”.
Ma il tema del fraintendimento (o del non ritenere utile la prosecuzione di un discorso) sarebbe la linea guida del racconto di Nova. Anzi, più che fraintendimento si tratterebbe di mettere in teatro l’assurdo, la rinocerontite che fa prendere per buono tutto ciò che viene raccontato senza alcun supporto critico.
Ma poi questo ‘Tutto’ sarà davvero ‘Tutto’ o non sarà invece ‘Niente’? E che rapporto c’è tra Tutto e Niente? E tra luce e buio? E tra assenza e mancanza ? (trattati quasi come fossero sinonimi). E il lettore lo segue in queste peripezie, perché la scrittura di F. Nova è avvincente. Ma poi ci si trova con un nulla di fatto.
L’Assenza che si coniuga con il Nulla viene accennata poi dall’intervento di Leah, solo che, dopo l’interessante excursus che dottamente Leah fa attraverso la cultura ebraica, Dante, Petrarca e Leopardi alla fine conclude con un *Mi fermo qui….* lasciando il lettore nell’Inferno del non sapere che cos’è *quel tutto (!) ciò che è stato sommamente degradato* (e in che modo lo è stato). Forse perché *Se c’è inferno e perché Dio è Amore e l’uomo Libertà. l’uomo può dire NO, e l’Amore non può forzare una porta che si chiude : non sarebbe più Amore*.
Ma che cosa significa affermare che Dio è Amore e l’uomo Libertà? E’ una affermazione che posso accogliere per ‘fede’ ma, secondo ‘ragione’ avrei delle difficoltà. Allora, la mia ottusità è intrinseca a me stessa oppure me la cucco perché ho detto NO? Oppure perché c’è un Dio che ‘non forza le porte che si chiudono’? (stiamo freschi!). O forse il mio retaggio di cultura greca – che, quanto a divinità, differisce da quella ebraica – mi ottunde ancora di più la residuale materia grigia?
Allora, per risolvere questo enigma, devo mettermi sul tracciato intrapreso da F. Nova che con meticolosità certosino/chirurgica cerca di affrontare quei temi che ci accompagnano dall’albore dei tempi sul Tutto e Nulla? Su cui si sono ‘scornati’ fior di filosofi e pensatori?
*La ragione può discutere di vari argomenti e arrivare per ognuno a conclusioni opposte a seconda del punto di vista da cui ci mettiamo. E’ come quando si fa la frittata; quando è cotta da una parte, alè, la si rivolta e si frigge l’altro lato*, scrive F. Nova.
Ma questo non ha nulla a che vedere con la ragione e la molteplicità e la multiformità dei punti di vista, bensì con il trasformismo o il camaleontismo o il rinocerontismo.
E ancora: *Si ricordò di un vecchio detto: “la prova del budino si fa mangiandolo”. Altra fesseria. Ci sono gli ingordi che ingoiano tutto senza quasi masticare; cosa vuoi che provino questi bestioni!*
Ma quale ‘fesseria’, ma quali ‘bestioni’! Perché tutta questa ‘ostilità’? Quel detto aveva a che fare con il concetto di esperienza e non con l’ingordigia! E anche col fatto che l’esperienza ha i suoi limiti perché non possiamo mangiare tutti i budini visto che ognuno è diverso dall’altro.
Ma perché F. Nova cade in questi ‘svarioni’ visto che, contemporaneamente, critica la superficialità con cui vengono utilizzati certi termini senza alcuna ri-flessione?
Svarioni e incongruenze.
Come la vita “buona e santa” di cui parla e su cui sentenzia essere *solo l’assenza di ogni desiderio di avanzare verso l’ignoto, di vincere il buio che ancora avvolge il nostro futuro; era un rimanere alla luce del già noto, del già vissuto, della pigra consuetudine*. Questa affermazione su quali basi esperenziali la appoggia? Sul refrain di altri suoi scritti? Su di un vissuto personale? Sì, ad un certo punto parla della sua vita che *così pensava, aveva costantemente proceduto in direzione di quel bagliore supremo che si dice sia la “vista di Dio”. Sapeva che alcuni sono convinti di poterne godere già nel mentre sono ancora vivi, se vivono secondo santità*. Ma allora il racconto avrebbe dovuto avere una componente ‘emotiva’ legata al cambio di prospettiva che qui io non trovo o è liquidata troppo velocemente. Al suo posto è presente solo una elucubrazione quasi maniacale nel tentativo di voler raggiungere ciò che raggiungibile non è. O, almeno non lo è in quel modo o con quegli strumenti.
Cosa che lui stesso riconosce quando afferma: * Tuttavia, mai prendere la ragione come giudice inappellabile del vissuto. E’ poca cosa questa ragione. Non se ne deve fare a meno, non si devono affatto avere soltanto “pronti riflessi”, salvo che in specifiche contingenze di vita. Si deve però smettere di idolatrarla, di credere che giunga a chissà quali verità. Eh, la verità è altra cosa, chissà dove si trova*.
No, non mi convince questo racconto di F. Nova che sembra troppo preoccupato dall’attaccare i rinoceronti e i rinocerontini e così non si accorge della cosiddetta ‘trave’ (visto che rimaniamo in tema di citazioni bibliche).
D’altronde, come affermava il cronista del film di Fellini “E la nave va”, il latte di rinoceronte pare che sia molto buono!
Una qualche convenienza si dovrà pure trovare nell’allevare questi mammiferi!
R.S.
A proposito della frase “Sapeva che alcuni sono convinti di poterne godere già nel mentre sono ancora vivi, se vivono secondo santità”, credo che Nova si riferisca intenzionalmente alle contraddizioni sulla visio beatifica tra domenicani e francescani a cavallo del 1300. Anche I mistici renani trattano il tema, e ritengono la visio possibile.
Ricordo questo perché credo che Nova abbia intenzionalmente scritto un racconto sulla metafisica occidentale. E che quindi le “conclusioni” su ragione verità e buona vita siano un modo di tirare le somme, oggi, di tanta filosofia, che ha del resto sempre avuto una sostanza materialissima.
(E chiarisco -spero- un po’ la mia affermazione precedente su abba. La mia vecchia maestra di yoga (tantrico) insegnava a interpretare i suoni e le parole a seconda di dove venivano innestati tra la gola e le labbra. La parola padre, abba, se inizia all’interno, nella gola, (e nell’arabo con lo “stacco” della hamza iniziale), diventa subito dopo una consonante labiale, la b appunto, quindi da subito la parola abba indica l’esterno, la realizzazione. Difficile quindi, riflettevo, collegarla al … nulla.)
lascio perdere una serie di considerazioni che ritengo proprio inutile chiarire in una discussione scritta visto che con Rita ci sono anche altri luoghi più prossimi di dibattito. Mi interessa solo dire che, se si pensa che il racconto si concluda con un nulla di fatto, non si è tenuto conto del problema dell’assenza; illustrato tuttavia più direttamente in altro scritto “non racconto”. Certamente, tale problema si potrebbe meglio chiarire leggendo il libro appena uscito (“Navigazione a vista”) o il libretto che mi auguro uscirà in versione elettronica e che indico (con approssimazione) “sullo squilibrio incessante e i campi di stabilità”. L’assenza – al cui tema questo racconto è comunque complementare – è appunto piuttosto rilevante per precisare il concetto di “campo di stabilità”. E questo è fondamentale per andare effettivamente “in uscita” dalla teoria sociale nell’impostazione che ne diede Marx, ecc. A tal fine, parlo anche qui della ragione solo in relazione al fatto che ritengo inconoscibile, per ragionamento, la “realtà” per com’essa sarebbe “veramente”. Io esco da un ambito scientifico. Ho letto abbastanza di filosofia, ma non sono per nulla un filosofo. Ho dei pensieri fissi e quel paio di idee al massimo su cui – mi sembra lo dicesse anche Bergson – uno discute (anche fra sé e sé) per tutta la vita; se non vuol limitarsi a fare l’erudito e la persona colta. Io non sono colto. Meglio precisare che non disprezzo minimamente la cultura, la ritengo importante. Non ero però portato a farmene una di abbastanza completa; ho dei grandi buchi. Ho invece delle idee “fisse”. Che però sono andate mutando dagli anni ’70 in poi; e oggi si sono modificate profondamente, irreversibilmente, pur restando sempre quelle (e non si pensi ad una contraddizione). Per questi mutamenti, io sono convinto (e ogni convinzione può certo sbagliare, ma difficilmente in tutto) che questo racconto – e forse di più il pezzo sull’assenza (non racconto), che tuttavia è complementare a questo – dimostrerà la sua efficacia proprio per il tema del campo di stabilità e il modo di fare esperienza. Per fare la quale, “mangiare il budino” è di una banalità sconfortante, è proprio idea da positivista ingenuo, ottocentesco. E’ ben noto che le migliori idee, sviluppate nel XX secolo, appaiono il contrario (si è detto che sono “controintuitive”) di quanto ci direbbe l’esperienza del “budino”. Non mangiate nulla, morite un po’ di “fame”. Nemmeno fantasticate di un budino immaginario. Pensate che non c’è proprio nulla di “reale”. E….. ma guarda un po’; proprio questo nulla è presente, produce effetti, vi fornisce idee per costruire qualcosa su cui – ma non subito, non magari voi, forse solo i vostri pronipoti – costruirete immagini indispensabili ad agire aprendo “campi” nuovi d’azione. Questo è appunto il “nulla di fatto”.
Bisognerebbe lasciare spazio al mezzo della scrittura, che è un mezzo per pensare e trovare soluzioni, spesso inattese; bisognerebbe avere più fiducia, non mettere insieme pieno e vuoto, tutto e nulla, luce e ombra, e poi lasciare ai pronipoti il compito di inventarsi un altro modo di pensare e vivere. In questo la poesia sa fare meglio della prosa, una risposta la trova sempre. Ma se si voleva dire che siamo in presenza del nulla, se ne siamo sommersi, e se il nulla è pieno, vorrà dire che i due fattori non si bastano. Sappiamo che il pensiero è duale, che si muove per opposti ( luce buio, vuoto pieno, amore odio ecc), il pensiero non considera le cose separatamente, spiega per contrasto. Ma la luce è luce e il buio e buio, una cosa non è l’altra. Punto. Poi, tra luce e buio c’è un terzo elemento, che la scienza sta valutando da tempo, e che corrisponde all’energia di microparticelle presenti, sia in assenza di luce che al buio, che nel vuoto, che nel pieno. Insomma manca la terza componente, quella che sfugge al pensiero dualistico. Filosoficamente ci porta al pensiero orientale, o qui, per altri, allo spirito santo, come qualcuno ha detto. Quel che conta è che Nova gioca sui paradossi, gioca sempre.
ogni strategia è “gioco”. Ma ci sono giochi e giochi. E con finalità diverse e soprattutto con effetti, con risultati, diversi. Per cui non c’è essere umano che non giochi sempre; esattamente come Nova. E a modo loro anche gli altri animali giocano, anche se credo si tratti di giochi molto ma molto meno complessi e meno pericolosi.
Ma il gioco-orizzonte: “non c’è essere umano che non giochi sempre”, è lo scandalo, o la tentazione, o la superfluità, o la condanna… a seconda dei contesti da cui lo valutiamo.
Mayoor con la “terza componente” immagina una possibilità, e Nova? La strategia è comunque un gioco?
Non c’è superficialità nel gioco, non è questo che intendevo dire. Scrivere è sempre un piacere per chi ama farlo. Dicevo solo che nel pensiero duale non c’è soluzione. D’altra parte è comprensibile se consideriamo la simmetria bilaterale del nostro organismo. Ma è interessante che Nova associ il nulla al futuro, al non ancora vissuto, che praticamente è qui, ci viene incontro. Cacciari ne parlò ne L’angelo necessario.
temo che non ci si intenda con il termine di gioco. Gli scacchi sono un gioco, ma non “giocoso”; e il divertimento è nel piacere di compiere le mosse giuste per arrivare allo scacco matto. Lo stesso per un generale in battaglia, per le manovre di individui o gruppi in politica. Von Clausevitz sta parlando di giochi. Kurt Rothschild quando scrive delle manovre nella lotta interoligopolistica sta trattando di giochi. Basta intendersi. Per me si tratta solo di una sequenza di mosse – che tengono conto di quelle di uno o più avversari (non necessariamente altri esseri umani) – per arrivare ad una conclusione favorevole. E anche tutto l’apparente “casino” che faccio giocando su vere o apparenti contraddizioni sono una “preparazione” ad altro.
Credo di avere capito il senso in cui Nova intendeva gioco, le mie domande alle 14.46 riguardavano un aspetto del vivere, quando si può essere solo passivi, ove non ci sono mosse possibili: la condizione miserabile in cui pure si può essere “gettati”.
A meno che anche un processo adattativo -al grado zero!- non possa chiamarsi gioco e strategia anch’esso…
…parto da questa considerazione di Franco Nova:”…proprio questo nulla è presente, produce effetti, vi fornisce idee per costruire qualcosa su cui- ma non subito non magari noi, forse solo i vostri pronipoti- costruire…”per dire che, secondo me, saper vedere questo nulla, che si può ben chiamare l’Assenza, rappresenta il punto di partenza…Nella nostra società invertire la rotta non è facile: chi ha creato questo buco nel quale la Presenza affonda, si ingegna a offrirci tutto l’oppio possibile per continuare a non vederla, anzi per offrirci l’illusione di essere ricchi di presenze, di vivere in un pieno sterminato di oggetti, di cose, dove tuttavia manca la Presenza…percepire il vuoto e riempirlo di altro nulla, cioè alimentarlo …oppure
incominciare ad affrontarlo…
APPUNTI
1.
Vorrei fare alcuni approfondimenti, tenendo conto degli sviluppi della discussione ma ripartendo da un mio precedente (perplesso) commento, che copio per comodità:
«Ma il punto più interessante e però problematico sembra quello in cui la concezione illuministica della ragione viene ribaltata. Si arriva al ridimensionamento della funzione tradizionalmente ad essa attribuita: «La ragione può discutere di vari argomenti e arrivare per ognuno a conclusioni opposte a seconda del punto di vista da cui ci mettiamo». E all’ammissione che «la verità è altra cosa, chissà dove si trova. Non certo nella ragione!». Da qui in poi, scesa dal piedistallo, cosa farà la povera ragione? Già vedo farsi avanti altre guide: la fede, l’intuizione. O spalancarsi le porte ad altri tipi di filosofie “non occidentali”. Il narratore non dice che bisogna disfarsene, ma certo essa è una nobile decaduta e attira meno».
2.
Ho parlato di svalutazione della ragione, affermazione che ho poi corretto. Sarebbe stato meglio parlare di riconoscimento del suo limite. Cosa del resto nota e da secoli, mi pare, perché fu dichiarato fin dal Medievo, sia pur nell’ambito di un discorso filosofico dominato dalla teologia, quando si stabilì che alla visione di Dio, Bene allora indiscutibilmente supremo, si accedeva, sì, avviandosi sulla strada della Ragione, ma soltanto, in una tappa successiva, mediante la Fede. E l’esemplificazione allegorica di questo viaggio “ a due velocità” o fondato su funzioni umane diverse (in questo caso felicemente concordi e complmentari) ce la diede Dante nella sua «Commedia», quando, alla fine del Purgatorio (Canto XXX), saluta Virgilio (la Ragione) che può accompagnarlo fino ad un certo punto e completa il suo viaggio spirituale in compagnia di Beatrice (la Fede).
3.
Ora Nova, mettendo da parte i filosofi che pur ha studiato, si colloca comunque con le sue attuali posizioni in un certo punto di un dibattito secolare. E a me pare importante insistere a precisare che, nel Grande Gioco dell’Oca della storia della filosofia, egli si aggiri oggi *navigando a vista*, come egli ama dire, nella casella della «crisi della Ragione» (titolo tra l’altro di un libro di Aldo Gargani, uscito nel 1979, cioè in un anno già di scombussolamento dello scenario politico-culturale dell’Italia repubblicana). Casella, aggiungo, costruita, tra la fine e l’inizio Novecento, coi contributi fondamentali di Bergson, Nietzsche e poi Wittgenstein, Freud, Scuola di Francoforte.
4.
A me pare tuttavia di cogliere – ed è questa la parte che ritengo più problematica – anche l’eco della riflessione compiuta in campo più strettamente religioso da Karl Barth sul *Deus absconditus* (Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Teologia_dialettica) oltre a possibili echi della teologia negativa ( Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Teologia_negativa). Nova cioè entra e ci invita ad addentrarci in un’area di problemi che Marx, sicuramente più incline al positivismo ottocentesco, non si pose. (E in questo ricordo che Fortini, da marxista critico e vicino alla “corrente calda” del marxismo, vide un limite che impresse al successivo marxismo un andamento claudicante o addirittura impose un ambiguo silenzio su questioni antropologico-esistenziali (morte, vita, amore, ecc.) che non dovevano essere trascurate da un movimento comunista e che furono affrontate da altri filoni di pensiero a modo loro, prescindendo cioè dalla storia e spesso dalla materialità della riproduzione della vita sociale. (Ne ho accennato nella mia relazione su «Disobbedienze»: https://www.poliscritture.it/2014/11/07/le-disobbedienze-dimenticate-di-franco-fortini/). L’unico in campo marxista che tentò di fare i conti con tali sviluppi del pensiero filosofico (di fine Ottocento soprattutto) fu Lukács, che li contrastò con il suo «La distruzione della Ragione», forse troppo frontalmente perché ossessionato dall’uso che i nazisti fecero della filosofia nicciana.
5.
Tutto questo pedante inquadramento storico per ribadire che alla “ragione” (da precisare però …) mi tengo attaccato, anche se l’ho definita “nobile decaduta” e per avvertire ( ma magari non ce n’è bisogno…) che il terreno su cui Nova si va coraggiosamente muovendo non è privo di rischi, di equivoci e potrebbe indurre ad ulteriori sbandamenti, dopo quelli che già si sono avuti negli anni Settanta; e che Finelli ha cronachisticamente ben riassunto in un saggio che ho già segnalato, complesso ma niente affatto disprezzabile (http://www.consecutio.org/2014/11/un-parricidio-compiuto-il-confronto-finale-tra-marx-e-hegel/).
6.
Aggiungo ancora che, proprio perché Nova giudica il tema dell’assenza «fondamentale per andare effettivamente “in uscita” dalla teoria sociale nell’impostazione che ne diede Marx» (= uscire da Marx) e afferma che vuole parlare «della ragione solo in relazione al fatto che ritengo inconoscibile, per ragionamento, la “realtà” per com’essa sarebbe “veramente», cosa di cui invece Marx era convintissimo, è importante capire bene la posta in gioco. Non si tratta di fare sfoggio d’erudizione (a scanso d’equivoci, io erudito non sono), ma piuttosto capire se quelle sue idee in partenza marxiste e ora «modificate profondamente, irreversibilmente, pur restando sempre quelle (e non si pensi ad una contraddizione)» possano uscire rafforzate o corrette o smentite se messe a confronto con altre tradizioni di pensiero.
7.
Quali? E qui devo tentare di fare i nomi dei possibili interlocutori o antagonisti. A me pare, infatti, che si profili – lo voglia o meno Nova – un confronto proprio con filosofi come Emanuele Severino. (E non vorrei – mi scuserà Fischer del “sospetto” – che a lui alluda quando definisce questo di Nova « un racconto sulla metafisica occidentale»). Ma anche con Cacciari, tirato in ballo da Mayoor. E dietro entrambi Nietzsche/Heidegger. Per quel che ne so questi sono i primi nomi che mi vengono in mente. E la cosa non mi esalta. Proprio perché tendo a dare ragione a Finelli quando parla degli effetti negativi della cosiddetta “Nietzsche Renaissance» italiana. E appena volgo attorno lo sguardo vedo intellettuali che si esaltano proprio dietro Heidegger e Severino. (Un esempio colto a volo? Cfr. i commenti su «L’Ombra della Parola» a questo post: https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/07/22/sette-poesie-inedite-di-steven-grieco-nel-caleidoscopio-2002-cosa-vedemmo-dal-ponte-s-trinita-via-de-canacci-nido-sulle-onde-al-padre-stretto-di-magellano-1934/).
8.
Certamente questo racconto di Nova chiarirà i suoi complessi significati quando i lettori avranno letto il libro in uscita di La Grassa «Navigazione a vista» (http://www.libreriauniversitaria.it/navigazione-vista-porto-disuso-nuovi/libro/9788857527994) o «il pezzo sull’assenza (non racconto)» (http://www.conflittiestrategie.it/fantasia-o-realta-domanda-non-conclusiva-2). Ma l’invito di Nova («Pensate che non c’è proprio nulla di “reale”. E….. ma guarda un po’; proprio questo nulla è presente, produce effetti, vi fornisce idee per costruire qualcosa su cui – ma non subito, non magari voi, forse solo i vostri pronipoti – costruirete immagini indispensabili ad agire aprendo “campi” nuovi d’azione»), pur avendo una forza di provocazione alta nei confronti di chi è ancora perusaso che la realtà ci sia e basta “vederla” o che, se appannata, prima o poi la si afferrerà col pensiero, viene a collocarsi in questo complicatissimo e rischioso dibattito che ho cercato di ricordare.
9.
@ Mayoor
«In questo la poesia sa fare meglio della prosa, una risposta la trova sempre».
Sicuro? Tutta questa fede in una poesia separata dalla prosa (e dai ragionamenti) e capace di risolvere i conflitti del pensiero duale che si muove per opposti non mi convince.
10.
@ Simonitto
Nel tuo intervento ci sono due difese più o meno esplicite della ragione che mi paiono oggi debolucce:
a. D’accordo: la ragione ci fa intendere il molteplice e il multiforme e non va confusa con «il trasformismo o il camaleontismo o il rinocerontismo», ma non è che questi elementi troppo facilmente si annidino proprio nella “parte oscura” della ragione? (Un dubbio simile mi suscitava anche la difesa della ragione fatta da Habermas, quando criticava la ragione strumentale e esaltava quella astrattamente discorsiva).
b. Sì, Engels parlando del budino non voleva fare le lodi dell’ingordigia, ma è certo che un ragionare *sulla base dell’esperienza*, anche a non voler accettare in pieno le riflessioni di W. Benjamin che nel disastro della Grande Guerra la vide diventare impossibile o quasi (Cfr. Agamben,«Saggio sulla distruzione dell’esperienza» in « Infanzia e storia», Einaudi 1978), è diventato oggi sempre più difficile e poco risolutivo. Se i soldati d’allora sui campi di battaglia fecero un’esperienza non più raccontabile, noi pure oggi, sempre più sottto la pressione dei mass media, facciamo esperienze *per modo di dire*, non riuscendo più a trarre un insegnamento da quello che viviamo e forse neppure più a ricordarlo. O mi sbaglio?
Sì che la poesia trova risposte, e aggiungo risposte alle domande, che son tutte della ragione. E’ un altro modo di pensare, a me questo sembra evidente. Ma le domande filosofiche nascono tossiche, come diceva un mio amico-poeta, nascono perché non c’è risposta possibile. E’ in questo caso che “la prosa” dimostra tutti i suoi limiti.
* L’invito di Nova “questo nulla è presente, produce effetti, vi fornisce idee per costruire qualcosa su cui – ma non subito, non magari voi, forse solo i vostri pronipoti – costruirete immagini indispensabili ad agire aprendo ‘campi’ nuovi d’azione” si lega al testo di La Grassa: “Questa indeterminazione, che è l’assenza, è appunto impossibilità di definizione. E da qui prendiamo le mosse per le nostre ipotesi stabilizzanti che guideranno infine la nostra azione, i nostri movimenti nel mondo. Tenendo tuttavia conto del limite della nostra conoscenza e quindi della temporaneità dei nostri – e solo eventuali – successi”. http://www.conflittiestrategie.it/fantasia-o-realta-domanda-non-conclusiva-2
* E’ interessante che uno (GLG) che avrebbe voluto essere un fisico concordi, con la sua idea di indeterminatezza, con uno che fisico lo è, cito: “Il fluire del tempo emerge sì dalla fisica, ma non nell’ambito della descrizione esatta dello stato di cose. Piuttosto, emerge nell’ambito della statistica e della termodinamica. … le interazioni microscopiche del mondo fanno emergere fenomeni temporali per un sistema (come per esempio noi stessi) che interagisce solo con medie di miriadi di variabili.” C. Rovelli, Sei brevi lezioni di fisica, Adelphi 2014.
* Dall’indeterminatezza La Grassa ricava la nozione di assenza (“l’assenza è l’indefinitezza, l’indeterminatezza”), e poi di campo di stabilità.
* Nova utilizza questi concetti “per andare effettivamente ‘in uscita’ dalla teoria sociale nell’impostazione che ne diede Marx, ecc. A tal fine, parlo anche qui della ragione solo in relazione al fatto che ritengo inconoscibile, per ragionamento, la ‘realtà’ per com’essa sarebbe ‘veramente'”.
A questo punto Abate sospetta che Nova, con questo indebolimento della ragione conoscitiva, finisca in realtà per collegarsi alla Nietzsche Renaissance italiana, di cui ha scritto Finelli. (A proposito: Severino no, io no, credo mai.)
* Allora torno a Nova, al racconto e alla sua nota del 24 luglio alle 11.25. La Grassa non identifica nulla, anzi Nulla, e assenza, come invece scrive Nova, insistendo con i “nulla di fatto”, e i “nulla di reale”. Anche tra “campo di stabilità” e “gioco-strategie” non c’è sostanziale (scl. sostanziosa) identità, se non si danno prove concrete per qualsivoglia budino.
* A costo di risuonare noiosamente ripetitiva insisto su quella frase distrattamente inserita da Nova alla fine del racconto: “Qualcosa aveva pur sempre imparato; e doveva ringraziarne lo strano lucore in cui s’era imbattuto. Già, se n’era scordato da un bel po’. Dov’era finito adesso quell’intrigante che l’aveva messo in così grande agitazione? Non c’era più, dileguato. E chi l’aveva inviato a disturbarlo così pesantemente?”
Ripeto: “E chi l’aveva inviato (il lucore) a disturbarlo così pesantemente?”
C’è un chi, un altrove, un invio, un possibile (il lucore).
A me sembra chiaro: l’ipotesi religiosa resta ancora, nonostante tutto, in campo.
SEGNALAZIONE
Questi due stralci da un interessante articolo, che converrebbe leggere per intero, offrono spunti concreti per riflettere sui concetti di Nulla, Assenza, Tutto, affrontati nel racconto di Nova e sul tema della distruzione dell’esperienza cui ho accennato nella risposta a Rita Simonitto [E.A]
Leggere Marx a Venezia
Enwezor e la rappresentazione del capitalismo alla Biennale d’Arte 2015
di Pietro Bianchi
http://www.sinistrainrete.info/cultura/5484-pietro-bianchi-leggere-marx-a-venezia.html
La prima scelta che allora Enwezor prende per darci l’idea di questa impossibile totalizzazione è riempire le corderie dell’Arsenale e il Padiglione Centrale dei Giardini di opere che sono troppo «grandi» o troppo lunghe per poter essere viste per intero. Va letta in questo modo la decisione di mettere nell’Arena costruita da David Adjave nel Padiglione Centrale la performance di lettura pubblica de Il Capitale di Marx – una serie di attori che lungo tutti i sette mesi di apertura della Biennale si alternano a leggere per 4 sessioni di 30 minuti ogni giorno i tre volumi del libro di Marx per intero. Quella che sembrerebbe quanto meno una bizzarria – Il Capitale è uno dei libri meno adatti in assoluto ad una lettura pubblica – si comprende invece con il tentativo di far sentire sempre lo spettatore «in mezzo» a un’opera che gli è impossibile vedere per intero. Sempre nell’Arena vi è anche un programma di 23 film che riguardano in qualche modo la presenza del capitalismo al cinema (da Chahine a Chris Marker, da Isaac Julien a Straub/Huillet, da Charlie Chaplin Ritwik Ghatak) e che vengono proiettati a rotazione ogni giorno: contando che alcuni di essi durano anche diverse ore è letteralmente impossibile che uno spettatore abbia la possibilità di vederli tutti nella loro interezza. Ma anche alle Corderie vi è un’installazione con tutti i film della carriera di Harun Farocki, così come ai Giardini vi è un’installazione con 3 schermi dove si può vedere News from Ideological Antiquity, il lungometraggio di 9 ore (ovvero, più dell’orario di apertura della biennale stessa) che Alexander Kluge ha dedicato al mancato film di Ėjzenštejn su Il Capitale.
Ma vi sono anche molte altre opere che mettono a tema la presenza di un’impossibilità interna e di una mancata totalizzazione del campo visivo o normativo: come Des Jeux dont j’ignore les règles di Boris Achour o come il bellissimo Swamp di Robert Smithson e Nancy Holt. Quest’ultimo è un video di 6 minuti girato con un 16mm nel 1969 (lo si può vedere su YouTube) che ci mostra la soggettiva di Nancy Holt che cammina in una palude e che può vedere quello che le sta davanti solo attraverso l’obiettivo della macchina da presa: gli unici riferimenti per l’orientamento sono allora le indicazioni spesso frammentarie che le dà la voce off di Robert Smithson. Anche qui il tema è lo sguardo topologico che è interno all’oggetto che deve guardare e che non riesce mai ad appropriarlo nella sua interezza. Con tutta l’angoscia e il disorientamento che una condizione del genere provoca.
[…]
Uno dei principali è proprio quello di intrappolare la riflessione di Enwezor in un eterno loop meta-riflessivo. Dato che il problema di questa Biennale è esattamente il modo con cui si opera una logica connettiva all’interno del molteplice, finisce per essere una Biennale che parla in continuazione di se stessa. È questo uno dei rischi principali di chi vuole tentare costantemente di superare l’immediatezza del particolare per trovare la sua ragion d’essere invisibile: il particolare sensibile finisce per essere cancellato. Non è allora forse senza ironia che l’artista che ha vinto il Leone d’Oro sia stato proprio Adrian Piper, che con Everything Will Be Taken Away (ma anche con The Probable Trust Registry: The Rules of the Game #1-3) ha proprio messo in luce il processo di sparizione del sensibile. Non si può insomma porsi il problema della ragione connettiva del molteplice in modo puramente astratto, tirandosi fuori dal molteplice stesso. Così forse non è possibile nemmeno porsi il problema di come il capitale organizzi l’apparire delle forme sensibili senza partecipare al modo attraverso cui il capitale oggi concretamente organizza il molteplice nel quale viviamo. Lo sguardo, come in Swamp di Smithson e Holt, non si muove mai da un soggetto a un oggetto, ma non può che essere topologico. Ovvero, parziale.
* Per “l’indebolimento della ragione conoscitiva” tu scrivi: Nova afferma che vuole parlare «della ragione solo in relazione al fatto che ritengo inconoscibile, per ragionamento, la “realtà” per com’essa sarebbe “veramente”»
* per il confronto che non sarebbe un collegamento (ma per confrontarsi ci si deve trovare su un terreno comune) “il terreno su cui Nova si va coraggiosamente muovendo non è privo di rischi, di equivoci e potrebbe indurre ad ulteriori sbandamenti, dopo quelli che già si sono avuti negli anni Settanta; e che Finelli ha cronachisticamente ben riassunto in un saggio che ho già segnalato” e poi
“viene a collocarsi in questo complicatissimo e rischioso dibattito che ho cercato di ricordare”.
Non mi sembra di avere equivocato il tuo pensiero.
p.s. Questo commento va collocato dopo quello di Abate delle 12.47.
Articolo interessantissimo. Quindi, ad esempio, non ho sbagliato a scrivere nel commento all’altro post, “Lorenzo riesce a mantenersi imprevedibile, anche nella denuncia al consumismo, che pure maneggia con destrezza e famigliarità”, perché la critica al capitalismo può avvenire solo dall’interno delle sue connessioni. Ma che c’entra con il racconto di Nova?
@ Mayoor
A me pare, come detto in premessa, che l’articolo offra “spunti concreti per riflettere sui concetti di Nulla, Assenza, Tutto, affrontati nel racconto di Nova” e anche “sul tema della distruzione dell’esperienza cui ho accennato nella risposta a Rita Simonitto”.
Ad es. a me un passo come questo: “Già, di chi è la colpa per quella disperazione e quell’ingiustizia? Delle banche? Dell’uomo d’affari che viene a portare la notizia di sfratto? Del proletario loro amico, che è disperato quanto loro e che guida il trattore che va a distruggergli la casa per qualche manciata di dollari all’ora? Chi di loro è il vero volto del capitalismo? Qual è la causa e il motivo di questo processo che pare così astratto e impersonale da risultare costantemente opaco? Con chi dobbiamo prendercela? Questa domanda rappresenta ancor’oggi un rebus politico di capitale importanza, soprattutto in un’epoca in cui il circuito di produzione del valore è diventato ormai così stratificato e complesso da rendere invisibili i centri decisionali reali. Se tutti, dai piccoli caporali ai grandi manager dei gruppi finanziari internazionali sono solo degli emissari del capitale, che devono eseguire delle decisioni che vengono prese altrove – esattamente come l’uomo d’affari di Grapes of Wrath – chi è allora la causa e il responsabile del capitalismo? Dove sta la sua agency? La domanda per l’azione politica che vuole trasformare il capitalismo è allora ancora oggi quella del bracciante delle dust bowls: a chi bisogna puntare il fucile? Chi è il colpevole?” ha fatto pensare al concetto di Assenza.
O quest’altro passo:”Il capitalismo ci richiede di cogliere i particolari non per come sono in sé, ma dal punto di vista del loro tessuto connettivo. Il problema è che banalmente questo tessuto connettivo non ha un modo di manifestazione immediato. Non c’è un luogo in particolare in questo mondo dove lo possiamo andare a vedere con i nostri occhi” ha fatto pensare alla questione della distruzione dell’esperienza.
Poi posso sovrapporre mie esigenze al testo, ma è sempre meglio azzardare e poi correggersi.
@ Fischer
“A questo punto Abate sospetta che Nova, con questo indebolimento della ragione conoscitiva, finisca in realtà per collegarsi alla Nietzsche Renaissance italiana”(Fischer)
Io non ho parlato di “indebolimento della ragione conoscitiva” né di collegamento di Nova con la Nietzsche Renaissance italiana.
Ho scritto di possibile o necessario *confronto* con tali posizioni oggi filosoficamente dominanti:
“A me pare, infatti, che si profili – lo voglia o meno Nova – un confronto proprio con filosofi come Emanuele Severino. (E non vorrei – mi scuserà Fischer del “sospetto” – che a lui alluda quando definisce questo di Nova « un racconto sulla metafisica occidentale»). Ma anche con Cacciari, tirato in ballo da Mayoor. E dietro entrambi Nietzsche/Heidegger.”
Mi pare un po’ diverso.
ripeto dalla Prefazione de Il Capitale: “Qui si tratta delle ‘persone’ soltanto in quanto sono la ‘personificazione di categorie economiche, incarnazione di determinati rapporti e di determinati interessi di classi’ ……. lo ‘sviluppo della formazione economica della società’….. può meno che mai rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente creatura, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”.
Quindi operai, capitalisti, proprietari fondiari sono solo caselle di funzioni e di ruoli incarnati poi da individui concreti che sono però, per l’essenziale, determinati a ricoprire quei ruoli e a svolgere quelle funzioni. Poi sono anche individui; e dunque lo svolgimento delle loro funzioni nell’interazione reciproca – che indichiamo come “rapporti sociali” (tra individui e gruppi, che Marx denomina classi) – avviene anche in base alle prerogative di ogni individuo, e differenti da individuo ad individuo. L’eguaglianza formale è una finzione sempre più negativa; ogni singolo individuo è determinato socialmente e, nel contempo, dotato di prerogative sue proprie, che lo possono “elevare” al di sopra della determinazione sociale: direi più propriamente, “far discostare” da tale determinazione. Marx era scienziato come lo sono io pur a “scartamento ridotto” rispetto a lui. Nietzsche, Heidegger e, più in basso, Severino o (ancora più in basso) Cacciari, sono filosofi. E nemmeno epistemologi ma proprio filosofi di quelli che parlano dei “massimi sistemi” e di che cos’è l’Uomo e il suo Destino. L’unico filosofo che ho letto con un po’ di soddisfazione è Bergson, ma per motivi assai poco filosofici. Dal punto di vista sociale e politico ha influenzato Sorel, l’anarco-sindacalismo, antecedente per nulla banale del fascismo, quello “diciannovista” e non istituzionalizzato. E questo era importante – almeno per me – allo scopo di definire, in contrasto, il leninismo. Inoltre, dal punto di vista scientifico, mi permette di pensare quell’assenza che è solo indeterminatezza, indefinitività, tale da consentirmi poi l’inserimento della ricerca sui campi di stabilità e sul loro coinvolgere – nell’ambito di costruzioni “strategiche” – tutte le sfere sociali (economico-produttiva, politica nei suoi apparati, ideologico-culturale) e non soltanto la prima, come purtroppo è avvenuto nello stesso pensiero di Marx; poi impoverito in modo selvaggio dai marxisti successivi fino ai rimasugli odierni, che mi fanno accaponare la pelle. Lenin sarebbe stato veramente un apportatore di novità, ma ha dovuto limitarsi ad alcune “ipotesi ad hoc” e ha voluto giocare, lui massimo revisionista, quale ortodosso che ripristinava Marx contro il ben più ortotodosso Kautsky, molto più corretto di lui nell’interpretare Marx. Una catastrofe teorica, non senza rilievo per quella pratica del “socialismo reale”.
@ F. Nova – @ Ennio (per quanto riguarda la ‘difesa della ragione’ e il ‘fare esperienza’) – @ Mayoor (*Sì che la poesia trova risposte, e aggiungo risposte alle domande, che son tutte della ragione.*)
* Io esco da un ambito scientifico. Ho letto abbastanza di filosofia, ma non sono per nulla un filosofo. Ho dei pensieri fissi e quel paio di idee al massimo su cui – mi sembra lo dicesse anche Bergson – uno discute (anche fra sé e sé) per tutta la vita; se non vuol limitarsi a fare l’erudito e la persona colta. Io non sono colto* (F. Nova)
Nel mio intervento (sia in quello precedente ma anche qui) intendevo fare una questione di metodo. Di come la forma possa influenzare l’approccio ai contenuti.
Se Franco Nova si ‘autorizza da sé’ nel presentarsi al lettore in questo suo modo di procedere, tende ad escludere un qualsiasi altro-da-sé che imposti diversamente (ossia in modo dialogico, narrativo e non per assunti rigorosi) un personale processo di conoscenza. E che, di conseguenza, possa anche ‘non’ abitare nella mente dello scrittore intuendone i percorsi mentali – quello che ha scritto o che scriverà (1) – e che possa attenersi, per il momento, a ciò che esperisce nel suo qui-ed-ora della lettura, racconto o pseudo racconto che sia. E che pertanto se ne sta ‘fuori’, all’esterno.
Però poi rischia di diventare agli occhi di F.N. talmente ‘straniero’ da essere visto come un *lucore bianco grigiastro*, con cui bisognerà farci i conti: si può usare ma di cui poi, data la sua inconsistenza, ci si può liberare: *E il “nostro” scoppiò in una risata liberatoria: in definitiva, era valso la pena uscire di casa pur con quel caldo insopportabile*.
Così il colloquio, anzi, il monologo (*Qualcosa aveva pur sempre imparato; e doveva ringraziarne lo strano lucore in cui s’era imbattuto. Già, se n’era scordato da un bel po’*) riprenderà secondo un modello solipsistico (*E ne aveva incontrati di rinoceronti! Temeva però di avere anche un po’ gesticolato ragionando con se stesso*).
Il ‘budino’ che mi è stato offerto in questo lavoro di F. Nova, in questo *campo di stabilità e il modo di fare esperienza* – se vogliamo utilizzare un suo concetto – non mi ha fatto entrare in contatto con qualche cosa che andasse oltre a quelle che trovo espresse anche dai fast thinkers, anche se il modello di quel pensiero veloce viene qui criticato. O ‘pensate’ di coloro (filosofi) *che parlano dei “massimi sistemi” e di che cos’è l’Uomo e il suo Destino* (F. Nova, supra). In questo racconto si parla del Tutto e Nulla, del Buio e della Luce, ecc.. E verrebbe facile anche a me dire che si tratta delle solite ‘banalità’.
Il fatto è che questo racconto è caduto in un terreno fertile perchè altre persone ne sono state stimolate, né più né meno di ciò che accade con la lettura dei libri o la visione dei film. E va più che bene: il movimento è senza dubbio meglio della palude. Ma a me – e io rispondo per me – non ha dato stimoli per pensare, bensì un senso di irritazione come quando vedo un’opera cinematografica in cui il regista mette in mostra se stesso più che interessarsi del rapporto comunicativo implicito nel fare film.
Ripeto che parlo per me: se devo parlare di qualche cosa, non posso ‘affidarmi’ alla ‘quarta di copertina’ di un libro, né al fatto che tale film abbia vinto l’Oscar. E nemmeno posso accettare che qualcuno mi dica, “qui, adesso, no… ma altrove, in altra pubblicazione le cose che ho detto appariranno strabilianti”.
E vorrei crederci pure, ma qui, in questo caso, il ‘budino’ lo devo mangiare. E in questo contesto, che è ciò di cui parlo, io mi sono trovata a confrontarmi con un racconto che avrà avuto in nuce un embrione di novità, o avrà certo fatto parte di un progetto di riflessione da parte di F. Nova, ma qui non è apparso, tant’è che ha dovuto essere esplicitato in successivi commenti, sia da parte sua che da parte di altri.
Una parte che non c’era e che ha dovuto essere chiamata. Una ‘assenza’? Una ‘mancanza’?
Io non sto ‘criticando’ la ricerca di F. Nova, ci mancherebbe altro. Essa ci è utilissima in questo momento in cui si brancola nel buio e avere degli strumenti per ‘leggere’ (non dico interpretare, o fare luce su) la realtà ci fa dire: “siano essi i benvenuti”.
Ma qui si trattava di un racconto, di un espediente letterario, non scientifico, e proprio per rispettare il concetto di ‘campo’ (perché anche qui esiste il ‘campo’), sono tenuta a coglierne i ‘precipitati’, costituiti da presenze e da assenze. Da ‘personaggi’ e da loro ‘funzioni’. E a ipotizzarne un senso.
Sono tenuta anche a conoscere la forza del no-thing (della non-cosa, vale a dire ciò che non c’è, la presenza immateriale dell’assenza, secondo una visione psicoanalitica). E la grande assente in questo racconto era la partecipazione emotiva, come se avessimo a che fare con un entomologo che studia i suoi insetti.
Perché quando F.N. sostiene di essere *convinto (e ogni convinzione può certo sbagliare, ma difficilmente in tutto) che questo racconto – e forse di più il pezzo sull’assenza (non racconto), che tuttavia è complementare a questo – dimostrerà la sua efficacia proprio per il tema del campo di stabilità e il modo di fare esperienza. Per fare la quale, “mangiare il budino” è di una banalità sconfortante, è proprio idea da positivista ingenuo, ottocentesco*, e nel contempo afferma *Meno male che mi sono deciso ad uscire di casa oggi; se rimanevo in salotto steso sul divano e con gli scuri chiusi per il gran caldo, sarei rimasto a pensare come la scimunita maggioranza odierna* in un colpo solo afferma e nega. Afferma che ha bisogno di uscire da se stesso per andare a prendere ‘il pasto fuori’ ma, nello stesso tempo, mantiene nei confronti dell’esterno soltanto una ‘riconoscenza’ funzionale.
Ovvero, ha avuto anche lui il bisogno di farsi il ‘suo’ budino esperienziale, uscendo da casa, però incontrando solo un ‘mischinu’ che si dilegua all’istante. Nello stesso tempo, il contatto con l’altro – il lucore che ‘sfugge’ e ci segnala che l’altro non è una proprietà da essere oggetto di analisi scientifica – lo porta, più che a mostrare una delusione legata ad una frustrazione comunicativa, a rafforzare l’esibizione del suo procedimento mentale. E’ come se, nell’esibire il suo prodotto (“venghino, siòri, venghino”) facesse vedere la tecnica (un trattato di scienza) e non l’arte del pensiero. D’altronde (lo afferma F.N. stesso) la sua formazione è scientifica e lo scienziato, almeno in teoria, dovrebbe togliere la sua componente emotiva nel fare la sua ricerca.
Mi si dirà che la mia aspettativa davanti al racconto era ‘altra’ o ‘alta’: no, non mi aspettavo le “Operette Morali” di Leopardi, ma nemmeno una modalità ‘espulsiva’ verso tutto ciò che non rientra nelle premesse e che quindi diventa automaticamente sinonimo di ‘bestialità’, di ‘banalità sconfortante’, di ‘rinocerontite’.
Il concetto fertile dell’assenza, su cui la psicoanalisi – sia nel pensiero di derivazione argentina (Bleger, Pichon Riviere), sia in quello lacaniano impostato sul lavoro del negativo (A. Green), e sia con Bion stesso (con il suo famoso no-thing, ovvero l’inquietante presenza dell’oggetto assente) – ha dato contributi interessanti soprattutto per quanto concerne l’origine del pensare stesso, merita indubbiamente attenzione e non può risolversi riduttivamente appoggiandoci al supporto etimologico bensì facendo capo a tutta una storia del pensiero rispetto all’assenza che non significa soltanto parlare di ciò che non c’è (o l’Isola che non c’è) o alle funzioni ideologiche che ‘coprirebbero’ l’assenza’.
La ragione pertanto mi serve per raccogliere non solo gli elementi che trovo in questa ‘realtà di campo’, ma anche nella mia realtà interiore. Essa mi fa porre il dubbio se sto seguendo il *positivismo ingenuo ottocentesco* [del quale rimangono sempre tracce, perché non ci liberiamo mai del tutto, per fortuna, dalle nostre radici], oppure mi fa porre domande fin dove può spingersi il mio “hypothesis fingo”, oscillando tra la necessità di dare un senso al non-senso (teatro dell’assurdo) e la capacità di aspettare che si profili una qualche altra rappresentazione, sia pure temporanea e fittizia.
Non difendo la ‘ragione’ ad oltranza ma ritengo che sia uno degli strumenti (ce ne sono diversi) che mi permette di relazionarmi in modo sufficientemente corretto con gli altri, e con le mie tensioni interne, così come era il compito dell’auriga di Platone nel guidare i cavalli nero e bianco. Questo strumento, per quanto raffinato sia, ha comunque i suoi limiti nel senso che deve appoggiarsi alle coordinate temporospaziali per poter essere mezzo di comunicazione, anche in merito alle domande. Solo che, per rispondere a Mayoor, l’interfaccia operativa di tutto ciò può essere rappresentata dalla scienza, oppure dalla narrazione, poiché utilizzano quelle coordinate. Meno, molto meno, dalla poesia che va invece a toccare non-luoghi e non-tempi.
(1) *Certamente, tale problema si potrebbe meglio chiarire leggendo il libro appena uscito (“Navigazione a vista”) o il libretto che mi auguro uscirà in versione elettronica e che indico (con approssimazione) “sullo squilibrio incessante e i campi di stabilità”. L’assenza – al cui tema questo racconto è comunque complementare – è appunto piuttosto rilevante per precisare il concetto di “campo di stabilità”.*
R.S.
Solo perché la poesia non depone le sue uova nelle coordinate…
mi dispiace per Rita che mostra solo malumore. E’ un cattivo consigliere. Però, ho oggi una serie di contatti che sanno bene il lavoro anche scientifico che sto compiendo. Non ho ancora tutti gli aiuti che mi aspetterei, ma comunque la situazione è un po’ migliorata. Se uno non ha la minima intenzione di capire il mio lavoro, pazienza. Io sono disponibile, ma se si svaluta il problema dell’assenza come indefinitezza, dei campi di stabilità e di che cosa sono e a che cosa servono, e si crede che siano scatole vuote o giù di lì, non vedo di che cosa discutere. Altri hanno capito e discutono. E non solo da oggi, del resto. E’ almeno dal 1995-96 che ho iniziato una strada (anche se non usavo gli stessi termini odierni). Dal 2004-5 siamo poi entrati più nel vivo nella “svolta” e dei suoi approfondimenti. E adesso siamo in una nuova fase di “aggiustamenti” di un certo rilievo; non solo teorico ma pure storico. I racconti non possono chiarire i termini della questione, ma solo alludere e far baluginare. Il resto si svolge altrove; mi sembra del tutto ovvio. Ed è in questo altrove che le “emozioni” tacciono un po’ di più. Se le facessi tacere anche nei racconti – che già lo sono all’incirca, questo lo so – allora inutile “raccontare”. Mi dedicherei solo al lavoro scientifico e basta. Invece, non è ancora deciso quale sarà il seguito della mia attività. Certamente, il lavoro scientifico sarà sempre al primo posto, e di gran lunga. Ma come è sempre stato.
Non ho tempo di rileggere attentamente l’articolo citato da Ennio. Ho riletto solo le due frasi riportate nell’ultimo intervento sempre di Ennio. Non è che non ci siano considerazioni di buon senso e anche condivisibili. Tuttavia, qui sì noto una certa forza affidata all’emozione. In una considerazione più “oggettiva” di che cos’è la formazione sociale da noi definita capitalismo – considerazione che ovviamente non ha proprio nulla a che spartire con un racconto, dove l’emozione dovrebbe esserci nei personaggi che qui vi agiscono, pensano, parlano, ecc., altrimenti questi sarebbero soltanto i soggetti situati in dati ruoli e funzioni, di cui parla Marx nel passo da me prima citato – bisogna appunto arrivare a definire questi ruoli e funzioni e i loro rapporti interattivi. E ve ne sono alcuni che attribuiscono alto potere decisionale e altri che obbligano a eseguire decisioni altrui. Se vogliamo cogliere il tessuto connettivo del capitalismo(i), dobbiamo appunto astrarre da ogni “turbamento” emotivo, non si deve parlare di disperazione di nessuno, non si deve certo mettere sullo stesso piano il ruolo del banchiere o dell’imprenditore in generale con chi “guida il trattore”. Non mi interessa per nulla se questi è disperato quanto l’uomo d’affari (se entrambi, ad es., amano non ricambiati o se entrambi, l’altro magari guidando una porsche, vanno a sbattere contro un albero e finiscono tutti e due all’Ospedale con fratture multiple, e nella stessa stanza). Mi interessa sapere se chi guida il trattore è piccolo proprietario contadino oppure un lavoratore salariato in una grande fattoria. E soprattutto, astraendo al massimo e riducendo all’osso ruoli e funzioni, devo cercare di capire dove si annida il maggior potere di decidere le sorti di quel dato insieme di gruppi sociali che costituisce una popolazione, insediata in un certo territorio. E quali rapporti vi siano tra gruppi di potere al vertice di date popolazioni, insediate in paesi o nazioni differenti, ecc. Se non si hanno sufficienti capacità astraenti, si fanno solo pasticci. Allora meglio darsi ai racconti e immettere perciò necessariamente le emozioni individuali, quelle di esseri umani singoli.
Ma per tornare a Nova e al suo racconto, trovo che ci sia una certa unità tra il suo modo di raccontare, assurdo ma ironico e perfino scanzonato, e quando discute dialetticamente. Sa da con chi, e come fare per rendersi comprensibile… ma il suo linguaggio non cambia di molto, ha una sua impronta. Filosofo o letterato? O quale dei due starebbe sopra?
Mio dio quante domande, quanti perché! Davvero mi sento disperata! Quando penso di aver capito qualcosa subito dopo mi devo ricredere…Ma è colpa sicuramente della mia ignoranza storica e filosofica. Per fortuna la mia curiosità è talmente viva che mi spinge a seguirvi. Non ho proprio pietà di me stessa.
Sto leggendo “Furore ” di Steinbeck vi assicuro che darebbe molte risposte…e Nova lo sa.
sottolineo che ero e sono ancora “una” dei Moltinpoesia
Non è nel mio stile ‘battibeccare’ nel Blog e chiedo scusa ai lettori.
Però quando leggo * Se uno non ha la minima intenzione di capire il mio lavoro, pazienza. Io sono disponibile, ma se si svaluta il problema dell’assenza come indefinitezza, dei campi di stabilità e di che cosa sono e a che cosa servono, e si crede che siano scatole vuote o giù di lì, non vedo di che cosa discutere* e lo confronto con quanto ho scritto rimango letteralmente ‘basita’. Soprattutto dal tono di ‘primadonna’ (*non vedo di che cosa discutere*) che se ne va sbattendo la porta.
Trattandosi del secondo caso, ho anche pensato che fosse l’argomento in questione (il Tutto e il Nulla) ad attizzare l’aria!
Non ho mai messo in discussione l’importanza del lavoro di F. Nova. Infatti ho scritto : * Io non sto ‘criticando’ la ricerca di F. Nova, ci mancherebbe altro. Essa ci è utilissima in questo momento in cui si brancola nel buio e avere degli strumenti per ‘leggere’ (non dico interpretare, o fare luce su) la realtà ci fa dire: “siano essi i benvenuti”.*
Né ho mai parlato di *scatole vuote* riferendomi ai ‘campi di stabilità’: non mi permetterei mai. Mi sono solo concessa di dire che anche la psicoanalisi ha trattato di queste problematiche, che è materia che conosco; mentre ciò di cui parla F.N. non ho avuto l’onore di leggere alcunché e quindi non ‘metto lingua’; e se lui asserisce che ‘finalmente’ ha trovato udienza e riconoscimento e che altri invece capiscono sono contenta per lui, fa sempre piacere vedere i propri sforzi coronati da successo.
Ma non sono tenuta a crederci per fede. Posso capire che quando Dio (anzi JHWH) crea, anche le moschine gli danno fastidio. E qui sì che ci metto il malumore: ma solo per il fatto che ho impegnato del tempo – e non perché mi stavo annoiando! – per far capire il mio punto di vista e sono stata trattata a pesci in faccia.
Ho fatto soltanto un commento al suo racconto (che non ho trovato interessante, lo ribadisco). Forse sarà venuto male a causa del caldo o forse il riciclaggio con un vecchio lavoro avrà creato qualche sfasatura nella gestione dei tempi…., che ne so; mentre ben venga che altri lo abbiano apprezzato e abbiano trovato spunti per discuterne. E ho cercato anche di esplicitare i motivi che mi sostenevano. Ma a fronte di essi le risposte ottenute si sono condensate in una accusa di ‘malumore’ da parte mia e un osanna alla validità del testo che preludeva a importanti cambiamenti nel lavoro teorico portato avanti da F. Nova.
Certo, poi si aggiunge che *Se vogliamo cogliere il tessuto connettivo del capitalismo(i), dobbiamo appunto astrarre da ogni “turbamento” emotivo, non si deve parlare di disperazione di nessuno, non si deve certo mettere sullo stesso piano il ruolo del banchiere o dell’imprenditore in generale con chi “guida il trattore”.
Ma nel contesto di Poliscritture non eravamo ad una riunione scientifica e nemmeno di partito. Ho, con i miei strumenti, cercato di mostrare come a volte la forma possa inficiare il contenuto, ma niente da fare. Oltretutto, se parliamo di ‘campo’, questo dovrebbe essere definito: non posso pensare di giocare a scacchi mentre invece si gioca a dama.
Quando, sempre riferendomi al suo racconto, ho scritto che “Però poi [l’altro] diventa talmente ‘straniero’ da essere visto come un *lucore bianco grigiastro*, con cui bisognerà farci i conti. Ma di cui poi, data la sua inconsistenza, ci si può liberare: *E il “nostro” scoppiò in una risata liberatoria: in definitiva, era valso la pena uscire di casa pur con quel caldo insopportabile*, io non stavo dicendo nulla di diverso.
Ovvero che l’altro veniva considerato come uno strumento per ‘capire’. E lo scrittore assumeva la veste di uno ‘scienziato’. A questo punto è interessante la domanda di Mayoor: * Filosofo o letterato? O quale dei due starebbe sopra?* E chi lo sa!
Verrebbe però da aggiungere che non sono necessarie solo le capacità astraenti (*Se non si hanno sufficienti capacità astraenti, si fanno solo pasticci. Allora meglio darsi ai racconti e immettere perciò necessariamente le emozioni individuali, quelle di esseri umani singoli*), ma anche le capacità di capire che facciamo un continuo lavoro di ‘transfert’ (sì, è un termine psicoanalitico). Anche la psicoanalisi è uno strumento di conoscenza che a volte ci permette di capire quanto di noi mettiamo nella realtà che, a questo punto, non è mai ‘oggettiva’ ma si porta sempre aspetti della nostra storia socio emotiva. Tratti che pensiamo di non avere eppure ci sono e, il più delle volte, rappresentano *un nulla […] che è presente e produce effetti* (F. Nova).
E’ anche per questo che si scrive, non soltanto per scaricare emozioni ‘individuali’ (se le facessi tacere anche nei racconti – che già lo sono all’incirca, questo lo so – allora inutile “raccontare”), o per sopprimere la noia, o, visto che oggi va di moda, per raccogliere i consensi del ‘mi piace’, ma per capire un po’ le cose del mondo dentro il quale siamo in relazione con gli altri e non soltanto con noi stessi.
R.S.
il caldo c’entra poco, anche perché, come Ennio sa, il “racconto” era al 90% pronto già da più di un mese (forse due). E non lo finivo proprio perché era una riflessione più che un racconto. Però i temi della riflessione continuo a ritenerli rilevanti. Esposti nel modo complicato che è necessario usare affinché possano servire in futuro ad altri “compiti”. Non sono molto letterato, sono decisamente più uno studioso di teoria della società (in specie quella forma di società affermatasi dal XVIII secolo, ma che ha trovato la sua più virulenta affermazione nel 1848; e da allora ha dato vita ad un secolo e mezzo e più di ideologie violentemente contrapposte). L’astrazione scientifica, nel contesto che uso per le mie analisi, è indispensabile. Senza capacità d’astrazione, si rischiano grossi pasticci da cui non ci si districa più. Usando bene l’astrazione, si incorre in errori che poi il tempo si incarica di rivelare con sempre maggiore evidenza. E allora si cambia astrazione, incorrendo in nuovi errori; ecc. Una corsa senza fine. Ma sempre con la possibilità di evidenziare gli errori con ordine e nettezza; e senza appunto fare grossi pasticci (dovuti alla incapacità d’astrazione), che impediscono poi di mutare adeguatamente l’ipotesi in modo da incorrere in nuovi errori che poi si possa ancora piuttosto chiaramente individuare. Il racconto mi serve in tutto questo lavorio? Non so dare una risposta.
Quello che trovo di singolare, nelle idee di assenza e di campo di stabilità, è l’assenza ontologica di soggetti plurimi indefiniti, che non siano cioè solo “gruppi di potere al vertice di date popolazioni” in ” ruoli e funzioni e (ne)i loro rapporti interattivi”. Soggetti plurimi tra cui sono io, per esempio, abituata a leggere i movimenti delle moltitudini indefinite e i modi in cui si esprimono – entro condizioni peraltro manovrate da quegli altri, quelli dei ruoli e funzioni. Si veda, per esempi, Roberto Esposito, Due, Einaudi, 2014.
L’ultima volta che ho visto con i miei occhi l’agire di soggetti plurimi è stato il movimento femminista nel mondo, anche se qui il tema non è pervenuto.
Mi sembra invece che Nova sia certo che al mondo ci sono di massima rinoceronti, e alcuni che escono di casa… solo per confermarsi circa la loro esistenza rinocerontesca?
ALTRI APPUNTI SU UNA DISCUSSIONE NECESSARIAMENTE INFUOCATA ( E NON PER IL CALDO)
1.
@ Mayoor
Sarei più cauto: la poesia *a volte* trova risposte alle domande della ragione, non sempre. I limiti non sono solo della prosa o della filosofia. Anche la poesia ha il suo *tossico*. Oggi, che i molti vogliono *essere in poesia* ( e la caricano di funzioni salvifiche come succede anche alle religioni), il problema della sua tossicità non è quasi più indagato o tenuto presente. Ma vi ricordate attorno al ’68-’69, quando ad essere caricata di funzioni salvifiche fu la politica, come veniva disprezzata la poesia?
2.
Cristiana (Fischer) ha posto un problema. Copio le sue parole:
« A costo di risuonare noiosamente ripetitiva insisto su quella frase distrattamente inserita da Nova alla fine del racconto: “Qualcosa aveva pur sempre imparato; e doveva ringraziarne lo strano lucore in cui s’era imbattuto. Già, se n’era scordato da un bel po’. Dov’era finito adesso quell’intrigante che l’aveva messo in così grande agitazione? Non c’era più, dileguato. E chi l’aveva inviato a disturbarlo così pesantemente?”
Ripeto: “E chi l’aveva inviato (il lucore) a disturbarlo così pesantemente?”
C’è un chi, un altrove, un invio, un possibile (il lucore).
A me sembra chiaro: l’ipotesi religiosa resta ancora, nonostante tutto, in campo.».
Nel racconto di Nova s’è *insinuata* una ipotesi religiosa? Quel lucore “disturbante” avrebbe una fonte? Divina e non fisica? Sarebbe bene tentare di rispondere. Io più cautamente ho detto che il racconto si è spinto su un terreno filosofico (per me rischioso ma non eludibile) non so se riconoscendolo come tale (cioè insolito, diverso, non solidamente razionale eppure che cattura). E ho tentato anche di fare dei nomi di filosofi che bene o male hanno battuto quel terreno con una strumentazione tutta filosofica.
Nova ha risposto mettendo le mani avanti: « Marx era scienziato come lo sono io pur a “scartamento ridotto” rispetto a lui. Nietzsche, Heidegger e, più in basso, Severino o (ancora più in basso) Cacciari, sono filosofi. E nemmeno epistemologi ma proprio filosofi di quelli che parlano dei “massimi sistemi” e di che cos’è l’Uomo e il suo Destino. L’unico filosofo che ho letto con un po’ di soddisfazione è Bergson, ma per motivi assai poco filosofici. Dal punto di vista sociale e politico ha influenzato Sorel, l’anarco-sindacalismo, antecedente per nulla banale del fascismo, quello “diciannovista” e non istituzionalizzato. E questo era importante – almeno per me – allo scopo di definire, in contrasto, il leninismo.». Mi chiedo però se Bergson non sia a tutti gli effetti filosofo. E se leggere un filosofo (e, nei limiti del possibile, perché no gli altri « che parlano dei “massimi sistemi” e di che cos’è l’Uomo e il suo Destino?) «per motivi assai poco filosofici» non sia un modo giusto per non far diventare la filosofia (o più in generale l’Altro, inteso come l’ignoto, il non conosciuto e non si sa se mai conoscibile) una sorta di ombra persecutoria da respingere o svalutare.
3.
E questo mi pare la questione di fondo, che pone Rita Simonitto forte delle sue competenze in campo psicanalitico. E non solo a Nova («Se Franco Nova si ‘autorizza da sé’ nel presentarsi al lettore in questo suo modo di procedere, tende ad escludere un qualsiasi altro-da-sé che imposti diversamente (ossia in modo dialogico, narrativo e non per assunti rigorosi) un personale processo di conoscenza») ma a noi tutti.
La sua critica mi pare rivolta proprio allo sguardo scientifico che Nova e altri rivendicano per sé. Per Rita spingerebbe al monologo e al solipsismo. Sarebbe una sorta di esibizionismo (come quando – suo esempio – un regista « mette in mostra se stesso più che interessarsi del rapporto comunicativo implicito nel fare film.»). E soprattutto non permette di andare oltre il risaputo espresso dai «fast thinkers» o dai filosofi, in fondo svalutati da Nova perché tutto il loro lavoro si ridurrebbe a parlare di cose troppo vaghe («dei “massimi sistemi” e di che cos’è l’Uomo e il suo Destino»). Ma la critica di Rita tocca anche il racconto. Mentre Nova rivendica che «i racconti non possono chiarire i termini della questione, ma solo alludere e far baluginare» e che comunque nei suoi le “emozioni” (virgolettate da lui) non tacciono, Rita sostiene « che [il racconto di Nova] avrà avuto in nuce un embrione di novità, o avrà certo fatto parte di un progetto di riflessione da parte di F. Nova, ma qui non è apparso, tant’è che ha dovuto essere esplicitato in successivi commenti, sia da parte sua che da parte di altri».
E soprattutto che questo racconto, pur ruotando sul tema dell’Assenza, contraddittoriamente (sempre per Rita) vede *assente* proprio «la partecipazione emotiva», per cui il narratore appare nelle (antipatiche) vesti di «un entomologo che studia i suoi insetti». E – altro limite – « il contatto con l’altro – il lucore che ‘sfugge’ e ci segnala che l’altro non è una proprietà da essere oggetto di analisi scientifica – lo porta, più che a mostrare una delusione legata ad una frustrazione comunicativa, a rafforzare l’esibizione del suo procedimento mentale». È come se dicesse: invece di prendere atto dei limiti della ragione e dolertene, procedi come se nulla fosse accaduto.
Mi pare che si riaffacci un nodo decisivo del dibattito culturale tra fine Ottocento e inizi Novecento (a cui ho cercato io pure di far riferimento). Semplificando al massimo: lo scienziato, togliendo «la sua componente emotiva nel fare la sua ricerca» fa bene o fa male? salvaguarda la punta di diamante del sapere (quello scientifico appunto) oppure espelle, rimuove « tutto ciò che non rientra nelle premesse e che quindi diventa automaticamente sinonimo di ‘bestialità’, di ‘banalità sconfortante’, di ‘rinocerontite’»(Rita)?
Siamo, direi con il mio Fortini, di fronte ad una fondamentale e oggi molto discussa «questione di frontiera». E non c’è dubbio che le posizioni di Nova e di Rita sono molto divaricate ceome minimo entrambi personificano tendenze del pensiero tuttora in conflitto tra loro: quella della “scienza dura” o della “realtà di campo” (Nova; e vedi ad es. anche questo stralcio da un altro suo commento:« Se vogliamo cogliere il tessuto connettivo del capitalismo(i), dobbiamo appunto astrarre da ogni “turbamento” emotivo, non si deve parlare di disperazione di nessuno, non si deve certo mettere sullo stesso piano il ruolo del banchiere o dell’imprenditore in generale con chi “guida il trattore”») e quella del sapere psicanalitico o della “realtà interiore” o della capacità di relazionarsi « in modo sufficientemente corretto con gli altri, e con le mie tensioni interne, così come era il compito dell’auriga di Platone nel guidare i cavalli nero e bianco» (Rita).
Che dire? Per ora ho solo tentato di fare questa sintesi per non smarrire il senso profondo dei problemi sollevati.
4.
@ Banfi
Non disperarti. Rileggi.
@ Ennio
già fatto…
Vorrei che si aprisse una terza, corrente non tendenza, del pensiero, quella dell’ontologia dei molti, che sono tendenzialmente tutti…
oh! che hai detto “tendenzialmente”?
sì, ché tendono tutti a capire e esserci.
E’ proprio complicata la questione. Ripeto alcune cose. Gli animali rispondono quasi sempre sulla base del riflesso immediato: stimolo-risposta. Qualche barlume di ri-flessione possono averlo, ma molto poco. L’uomo – salvo forse per come si stanno adesso educando le nuove generazioni “elettroniche” – continua invece a flettersi sui risultati raggiunti. Per cui è spesso molto lento a mettersi in azione, se per azione si intende l’immediato immergersi nella “melma” dell’attività detta pratica, lo sporcarsi le mani, il gettarsi nella quotidianità, ecc. Senza teoria non c’è azione (lo diceva anche un “pratico rivoluzionario” come Lenin). La teoria fa parte dell’agire, è la suprema e più umana delle forme d’azione. Oggi poi, che la scienza giunge spesso a conclusioni “controintuitive” cioè lontane dalla nostra esperienza “nel mondo” in cui ci muoviamo normalmente, la teoria è la suprema forma d’azione. Ma la teoria rallenta la cosiddetta “pratica”, l’immergere le mani ecc. ecc. In teoria siamo lentissimi, continuiamo a fletterci sul già conseguito, siamo incerti a lungo, poi infine dopo tempi lunghi ci decidiamo alla “prassi” in base a quanto conseguito tramite l’attività teorica; e allora scopriamo via via una serie di errori e ripartiamo per nuove riflessioni. Naturalmente si può obiettare: ma agiamo nella vita pratica e da qui traiamo spunto per metterci a ri-flettere percorrendo la via della teoria. Certo, i circoli sono sempre all’ordine del giorno: causa-effetto che diventa causa che provoca un effetto…… e così via. E’ la solita storia di chi è nato prima tra l’uovo e la gallina. Prima viene la mutazione genetica che ha dato il via al genere “polli”. E qui prima viene la mutazione genetica che ha dato vita all’homo sapiens sapiens che non risponde prontamente allo stimolo come altri animali (o almeno non lo fa se non in occasioni specifiche, in specie quando bisogna evitare un grave pericolo magari di vita) e costruisce via via immagini del mondo più complesse, per poi ridurle – tramite astrazione da molte variabili degradate a secondarie – a schema di possibile uso per “gettarsi nella pratica”.
Comunque la rinocerontite nel mondo moderno è meno grave di quanto non supponesse Ionesco nella sua opera teatrale. Conosco tanti giovani molto in gamba. A volte i più sciocchi sono quei genitori sui 40-50 anni che sono orgogliosi dei loro figli “veloci”. No, cari, l’intelligenza umana è lenta. E anche se si racconta, sempre con una certa improntitudine, che il genio fa la sua scoperta improvvisamente per un evento occasionale (la famosa quanto improbabile mela caduta sulla testa di Newton), invece le grandi scoperte sono precedute da lunghissimi viaggi nella ri-flessione, nel provare e riprovare a montare e smontare lunghe sequenze di pensieri. Poi avviene l’illuminazione e si semplifica il quadro. Chi pensa veramente è lento lentissimo; quindi spendiamoci in panegirici della lentezza del pensiero umano, garanzia di veri approfondimenti. Chi va veloce, tocca la superficie del mondo e basta.
Per quanto riguarda la fede il discorso diventa complicato, Comunque la mia assenza non apre a realtà poste al di sopra o al di fuori del nostro mondo. E’ solo l’indefinitezza, la vera indeterminazione (non quella quantistica che è solo probabilismo non indeterminismo vero); insomma è l’inconoscibile, ma non perché è posto in un “altrove” raggiungibile per altra via (la fede appunto). E’ qui con noi, ma per agire dobbiamo porre dei campi di stabilità; e allora non possiamo conoscere la realtà in quanto fluido che scorre vorticoso, squilibrando sempre ogni data situazione che invece noi poniamo in equilibrio il più possibilmente stabile per poter agire e non svolacchiare capovolgendoci in continuazione come quando vediamo i corpi galleggiare in assenza di gravità. Abbiamo bisogno di gravità per agire con “proprietà”; la realtà non ha però “gravità”. Tutto lì.
Grazie a Franco Nova. Mi annovero fra i lenti …ma purtroppo l’impazienza , i doveri, mi lasciano sola spesso a rimurginare in momenti sbagliati ed ecco che si brucia l’arrosto o deborda l’acqua della pasta o peggio ancora esco senza chiudere la porta. Resta il fatto che il voler capire è qualcosa che mi accompagna da sempre e da sempre faccio casino.
La vita
il tempo del profumo
s’accorge di me
quando il sole cala
allora accendo
la mia luce.
Ciao emy
…ci sono pescatori che con i pesci si fanno una bella frittura, altri prendono tra le mani il pesciolino appeso all’amo, lo guardano seriamente negli occhi e gli dichiarano “coraggio amico, siamo compagni, volevo solo vedermi riflesso!” e lo ributtano in mare, infine altri ancora: “quanto sei fesso, pesciolino, non farti più trovare su un certo cammino…”e “generosamente” lo riconsegnano all’onda…Le nostre lacerazioni ci seguono come cagnolini…
Vero cara Annamaria, vedi io lo guarderei muoversi nell’acqua, il mio pesce, e mi chiederei subito per quanto tempo vivrà, per quanto tempo sarà così libero sotto la luce che trapassa l’acqua e lo rende così bello. Che sia davvero solo questione di luce? Nova lo sa….