Gico il lombrico: verme solo di fatto

lombrico

di Franco Nova

Gico il lombrico si aggirava triste triste su un terreno argilloso reso tutto melma per la troppa pioggia caduta in mattinata. Adesso spuntava un timido sole autunnale, c’era un po’ di caldo ma il fango era tutt’altro che rappreso e solidificato. Gico strisciava con grande difficoltà. Pensava sospirando a quegli animali che avevano almeno due zampe, non rendendosi tuttavia conto che anch’essi non camminavano affatto agevolmente su quel terreno così viscido e in cui dunque si sprofondava. Lui almeno era leggero e andava perciò incontro a brevi momenti di minimo affondamento. Semplicemente era il suo modo obbligato di procedere che rendeva arduo il compito. Sappiamo come devono fare i vermi. Per loro fortuna non hanno scheletro, tanto meno spina dorsale (e per questo sono sempre disprezzati dagli altri animali e in specie da quell’odioso dell’uomo); ci si deve adattare a raggomitolarsi e poi scattare in lunghezza, raggomitolarsi di nuovo e…. insomma ci siamo capiti, una fatica continua e sfibrante.

Era per sua fortuna un lombrico agile, coraggioso e assai poco verme d’animo; era però molto vigile e attento agli incontri che poteva fare. Trovare sulla sua strada un qualsiasi uccello (in specie però quei maledetti merli!) o anche un gallinaceo, insomma uno di quegli animalacci con lungo becco, spesso pure uncinato, sarebbe stato fatale; in pratica, non si sarebbe salvato, malgrado fosse tutto sommato veloce per essere così strisciante. Soffriva però nell’animo di dover procedere in quella guisa. Poteva accettare di essere verme di fatto; in fondo, erano forse migliori gli altri animali, erano più buoni, meno falsi? Spesso violenti invece, alcuni pronti a dichiararsi amici e a rivolgergli complimenti per la sua piacevole rotondità di tubicino in movimento con quella specie di ancheggiare un po’ femmineo; poi, non appena si era un po’ allontanato, sentiva benissimo il loro ridacchiare, il loro sparlare e pettegolare. Che schifo questi esseri animati, pieni di arie, mentre durano così poco, ad esempio, in rapporto a quella pietrona incontrata poco prima.

Semplicemente avrebbe voluto essere in grado, ogni tanto, di riuscire a tenersi un po’ sollevato rispetto all’usuale suo stazionamento rasoterra. Non riusciva a vedere bene davanti a sé; proprio per le sue dimensioni, era appena, ma proprio appena, al di sopra delle formiche che pure hanno le loro sottili zampette. Non vedere quasi niente più avanti era fastidioso. Quello che però lo faceva sospirare di cocente rammarico era quel suo dover restare di continuo attaccato alla terra, doverla sempre accarezzare anche quando l’avrebbe volentieri presa a calci; ed essere sempre sporcato da essa, perché poi nemmeno riusciva, come altri animali, a leccarsi e pulirsi il corpo. Già, leccarsi; una parola, senza lingua. Nemmeno quella gli era stata fornita, Natura infame! Senza zampe, senza spina dorsale, senza lingua. Si può vivere così e non avere nemmeno qualche attimo di felicità, qualche momento di pacificazione con il mondo; quella fresca serenità che, per quanto di breve durata, ti riconforta e ti consente rinnovati sprazzi di energia? Rimuginava in questo modo apparentemente doloroso, ma si sentiva contento d’essere vivo e di girare tutt’intorno, sia pure senza sollevarsi da terra.

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Era assorto in questi pensieri; e si risvegliò subitamente d’istinto per non trovarsi magari, senza nemmeno accorgersene, in presenza di un animale vermivoro. Cosa si presentava davanti a lui a distanza che non sapeva calcolare? Una sorta di cupola color marroncino scuro con alcune strisce di tonalità più chiara, perfino quasi bianche. Si moveva con un quasi impercettibile dondolio e si avvicinava poiché procedeva proprio in senso contrario al suo. Alla fine fu in grado di avvistare sotto quella cupola un animaletto assai grazioso, pur esso strisciante e con due lunghe antenne su quella che sembrava proprio essere una testa. Era strano non l’avesse mai incontrato prima. E’ evidente che Gico era molto giovane e forse un po’ troppo pigro; aveva certamente girato poco il mondo, anche perché sempre preoccupato di fermarsi e nascondersi appena trovava ciuffi d’erba folta onde non farsi scorgere dagli animali con becco.

L’animaletto l’aveva già scorto da tempo e quando fu vicino si fermò; e più o meno nello stesso momento s’arrestò anche Gico. Si osservarono, l’altro non sembrava molto vivace e nemmeno avere gran voglia di parlare; Gico non sapeva che era soltanto un po’ lento di riflessi e tardivo nelle sue reazioni. Parlò lui allora e chiese al nuovo venuto chi fosse. Almeno una decina di secondi di silenzio e poi con voce lenta e quasi sonnolenta arrivò la risposta: “sono la lumaca, a dir la verità più precisamente una chiocciola”. Gico restò curioso quanto prima, comunque azzardò: “allora sei una femmina?”; “beh, più o meno diciamo così”. Ancora silenzio e le due antenne in testa all’animale continuavano a ondeggiare. “Perché quelle antenne sulla testa? E soprattutto perché ti sei caricata quel peso enorme sul corpo?”. La chiocciola sembrò esitare, ma sol perché era veramente poco sveglia e il senso delle parole arrivava al…..boh come chiamarlo?….. con un ritardo impressionante, almeno per Gico che era un lombrico di rara prontezza. “Non sono antenne, sono i miei occhi; e non chiedermi come fanno tutti perché li ho così, non saprei risponderti. So però che sono comodi, guardo abbastanza tutt’intorno e vedo anche dietro se mi fanno ‘scherzi’ alle spalle. Quella che mi porto sul corpo è la mia casetta, assai comoda. Quando voglio riposare o anche quando c’è qualche pericolo mi ci ritiro e me ne resto lì quatta quatta finché voglio. Ha un colore che si confonde bene con il terreno e anche con il colore delle foglie secche che stanno adesso cadendo”.

Gico era ammirato della beltà della femminuccia, avvertiva qualche sensazione nuova anche se comprendeva che doveva essere tutt’altro che sveglia e veloce di comprendonio; diciamo pure un po’ scema. Tuttavia, era tanto carina, aveva un corpicino morbido e teneruccio, avrebbe avuto voglia di strofinarsi e carezzarlo. L’unica cosa che lo schifava un po’ era una schiumetta biancastra che essa aveva lasciato dietro di sé; non si permise di chiedere cosa fosse e perché perdesse le bave (questa era la sensazione). Domandò invece del suo nome; lei tentennò (sempre per la sua incorreggibile lentezza di reazione): “Forlotta” rispose. Che brutto nome per una animaletta così bellina pensò Gico: “potrei chiamarti Oricellina?”; “E perché? Nemmeno per sogno, il mio nome è quello di una vecchia lumaca di tempi assai lontani, che è stata all’origine di una nobile dinastia da cui sembra derivi anch’io. Erano lumache estremamente apprezzate dagli uomini che le cucinavano in tutti i modi possibili. Sono molto orgogliosa di questo e ci tengo dunque al mio nome”.

Gico restò allibito; era orgogliosa di essere mangiata da quegli schifosi esseri, crudeli oltre ogni dire?! Egli era ben felice che questi infami non apprezzassero i vermi. Almeno non gli uomini civilizzati che abitavano in quella zona; aveva udito raccontare storie diverse di altri uomini in lande selvagge, dove perfino lui sarebbe finito nella loro pancia di animalacci non pennuti e non dotati di becco. Cambiò comunque discorso e chiese se non fosse anche lei infastidita dal non avere zampe ed essere costretta a strisciare. Forlotta divaricò e arcuò un po’ le antenne occhialute, che sembra sia il segno di sorpresa della sua specie: “Perché mai? E’ molto riposante, non debbo nemmeno sollevare e poi riporre a terra la mia casetta, me la trascino così bella attaccata al corpo e non subisce alcuna scossa che magari potrebbe un po’ danneggiarla. E poi quando piove e il terreno è tutto impregnato d’acqua, che godimento scorrere su di esso, morbido e pantanoso. Se vuoi che andiamo d’accordo non farmi mai venire in mente che potrei avere quegli orrendi piloni su cui brancolano gli animali peggiori del mondo”. “Mi sembrava che tu apprezzassi gli uomini, che in fatto di zampacce non stanno per nulla male”. “Ma quelli hanno il buon gusto di apprezzarci e di cucinarci con tanta premura e con grande inventiva, condendoci in tutti i modi possibili. In questo sono molto raffinati e quindi all’altezza della nobile dinastia forlottiana da cui discendo. Non fare confusione tra questi ghiotti mangiatori di lumache e gli altri animali, molti dei quali ci mangiano così, crude e un po’ viscide quali siamo, rozzi e incivili che non sono altro”.

Decisamente è scema, pensò Gico; e quel sentimento un po’ tenero che aveva iniziato ad insinuarsi nel suo lungo corpo si attenuò, e di molto. Tuttavia, anche lui, come ogni animale, aveva una certa dose di opportunismo. In fondo la lumaca aveva quegli occhi ben levati in alto e poteva avvistare prima i pericoli. Inoltre, strisciava proprio bene sul terreno e, andando appunto avanti, poteva spianarglielo un poco. Veramente c’era quella striscia di bavetta che lasciava dietro di sé; ma insomma c’è mai qualcosa di perfetto in questo “porco mondo”? Le chiese quindi se poteva accompagnarsi ad essa nel prosieguo del cammino. “Veramente andiamo in direzioni opposte” obiettò Forlotta, “però certo mi piacerebbe che tu venissi con me, è tanto tempo che sono sola. Ma come facciamo? Io in genere vado sempre dritta, e poi devo ogni tanto fermarmi, riposarmi in casetta e infine riprendere il cammino nella stessa direzione. Difficile per me cambiare abitudini. Non sono come quelle sporcaccione delle mie cugine, le limacce (non ne conoscerai mica, spero!), che girano dappertutto impestando i terreni e distruggendo gli orti degli uomini, che le accoppano a centinaia e nemmeno le mangiano da tanto fanno schifo”.

“Oh – rispose Gico – io non ho nessun luogo preciso dove andare, giro in qualsiasi direzione e anch’io mi fermo volentieri ogni tanto perché questo mio convulso procedere mi stanca”. Finalmente Forlotta diede la sensazione di una qualche reazione meno tarda: “Sono contenta allora, muoviamoci e andiamo insieme”.

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Saranno riusciti a fare una ventina di metri? L’andatura di Forlotta mal si conciliava con quella veloce e schizzante di Gico; procedeva lemme lemme che una qualsiasi tartaruga già in letargo o quasi l’avrebbe raggiunta d’un balzo. Gico soffriva molto per quella lentezza, ma vi si adattava; ormai glielo aveva chiesto lui e lei si era lasciata convincere di buon grado e con molta gentilezza e quasi grazia. Comunque, in quasi mezzora più di venti metri non avevano fatto. Ed ecco una lunga e fitta striscia di formiche marcianti, tutte ben allineate e che non lasciavano spazio per passare. Erano tutte intente alla marcia e sembrava che ci fosse qualcuno a segnare il passo da tanto erano ordinate e prive di qualsiasi incertezza od ondeggiamento. Ne videro una appena appena un po’ distratta dal loro sopraggiungere e le chiesero dove andassero così militarmente organizzate.

La formica si fece ripetere la domanda e poi rispose che un cretino di bambino maniaco e un po’ fuori di zucca aveva distrutto un po’ più a valle il loro nido, aveva sparso della benzina e dato fuoco bruciando un bel po’ di loro. Erano scappate in gran disordine ed era strano che essi le considerassero organizzate; evidentemente non avevano mai visto vere trasmigrazioni di formiche, in specie quelle rosse come lei, piccoline e ubbidienti agli ordini superiori. Da dove arrivassero questi ordini i due non lo capirono, ma lasciarono perdere interrogazioni in tal senso. Gico pensò che esseri meno autonomi di queste formiche non potevano esistere, visto che procedevano “in disordine” come fossero ad una parata militare; e per di più senza nemmeno un vertice di comando, ma soltanto, evidentemente, delle prime file che erano fuggite davanti alla furia del bambino in una qualche direzione, e tutte le altre dietro come si trattasse dei loro capi. Che teste di rapa pensò il nostro.

Allora chiesero se almeno fosse possibile interrompere la sfilata per mezzo minuto in modo da lasciarli passare oltre: lungo la loro via pur essa segnata – pensò malinconicamente Gico – dalla scarsa fantasia e passiva abitudine della sua compagna. La formica li guardò inorridita mentre continuava la marcia e, allontanandosi, gridò: “siete matti, se viene lasciato anche un ‘fiat’ di interruzione, tutto il seguito poi si disperde, non sa più dove andare”. Gico scosse la testa (per quanto può farlo un verme) e disse a Forlotta che animali più cretini e privi di autonomia di quelli non ne potevano esistere al mondo. Lei sospirò e lui fraintese pensando all’approvazione di quel che aveva detto; no, lei nemmeno aveva afferrato il senso delle sue parole. Passiamoci sopra. Il vero fatto è che dovettero attendere un’altra mezzora prima che il gran corteo avesse finito di sfilare in “fuga disordinata”. E iniziavano le prime oscurità dell’imbrunire.

Un’altra mezzora, e anche meno, ed ecco un piccolo stagno, invero poco più di una pozzanghera d’acqua. Tuttavia, era tutto un gracidare di rane, brutte da far venire un colpo, tronfie nel loro gridare al mondo l’inconcepibile gioia di esserci e vivere. Cosa avevano da essere felici quelle sciocche, non si capiva! O forse soltanto lo sembravano per la vanità del loro gonfiare il petto (ma che petto! Un ventre orrendo: quello vedeva Gico) per emettere strida che per loro erano evidentemente suoni armoniosi, tali da allietare il creato, mentre al povero verme si accapponava la pelle (ammesso che ciò fosse possibile, e non può essere ammesso). Forlotta si voltò e disse: “come sono simpatiche, vero?”. “Eh, come no, lo pensavo anch’io” rispose Gico; e si sentì ancora più estraneo a quell’animale che pure strisciava come lui. Che testa poteva mai avere? E che gusti! Così graziosa, tutta per benino (a parte la bavetta che continuava a lasciare dietro a sé e che lo schifava un poco), appartenente – così aveva riferito – ad una nobile dinastia passata; ma, quanto a cervello, non più acuto di quello delle formiche.

Era però triste Gico nel fare simili considerazioni sconsolate; non avrebbe voluto pensare in siffatto modo, ma lei si tirava dietro le critiche come le noccioline che avrebbero dovuto essere tirate dal pubblico ad un comizio di Beccamorto, il presuntuoso tacchino “democratico” (con tanto di ruota), incontrato per caso un paio di giorni prima nel recinto ove stazionavano galline chioccianti e galletti petulanti, sempre però assenzienti alle stronzate del garrulo oratore. Eppure Forlotta apparteneva alla sua stessa “classe” di esseri striscianti, ci sarebbe dovuta essere una vicinanza di pensieri, convinzioni, gusti, solidarietà contro i pennuti alati con becco che vengono a sopprimerti se appena possono; e che si rischiava fossero richiamati da quel frastuono osceno delle rane. Evidentemente – pensò Gico – basta che lo strisciante abbia quella gracile casupola (da lui stoltamente ritenuta un solido rifugio di fronte al becco aguzzo dell’alato) e subito si differenzia e si sente vicino alle schiere dei gracidanti e annunciatori di possibili aggressioni.

Infatti, Forlotta si fermò, attese la solita decina di secondi e poi emise la sua voce dolce e insinuante, e tanto debole: “qui c’è un bel po’ d’acqua e poi queste sirene mi cantano la ninna nanna. Io mi fermerei qui. Tu cosa decidi?”; “Io continuo la marcia perché qui non mi sento per nulla sicuro; vedo non lontano folti ciuffi d’erba dove starò egualmente fresco e per di più nascosto e riparato dai nemici. E’ stato un piacere conoscerti, spero ci rincontreremo presto”. La parte finale del suo corpo tubiforme si aggrovigliò un attimo, che è il modo in cui i vermi fanno le corna e, se appena un po’ più attorcigliato, il gesto dell’ombrello. La lumaca mosse le antenne e anch’essa le incrociò, che è però il loro modo di sorridere. Gico provò un attimo di rimorso per l’ipocrita saluto appena fatto e pensò che, dopo tutto, la lumachina era solo un po’ indietro di cervello ma non cattiva. La salutò di nuovo e con sincerità, e si allontanò senza però più voltarsi indietro.

Non si sentiva del tutto soddisfatto; quell’incontro non lo aveva molto rassicurato circa la bellezza dello stare al mondo. Si accorse che, in fondo, si era aspettato di più da quell’animaletto così carino e con quel modo di procedere assai grazioso e senza scosse; e privo di ancheggiamenti, molto serio e misurato. Tuttavia, la forma era ben diversa dalla sostanza. Lei era certamente un tipo fine, sembrava modesta; quei suoi occhi antennati testimoniavano però il contrario e la sua intelligenza non corrispondeva all’aspetto seducente. Inoltre quel suo orgoglio di essere apprezzata come cibo dagli uomini, e da questi essere cucinata in mille pietanze diverse, metteva in mostra un servilismo portato all’annientamento di ogni sua dignità pur di entrare a far parte del pranzo dei potenti. No, era molto dispiaciuto di quell’incontro e delle belle sensazioni che inizialmente gli aveva indotto.

Si ricordò allora dell’incontro del giorno prima, con una farfalla; e questa sì, bella senza alcuna riserva da opporre. E nel contempo intelligente e stimolante. Gli aveva detto: “Non essere così rattristato o timoroso per non avere né ali né zampe. Certo, madre Natura non ti ha molto favorito, ma si attende proprio per questo da te un di più di orgoglio, non il senso di vergogna. Tu ti raccogli in te stesso quando ti raggomitoli per poi scattare in avanti. E procedi comunque, e avanzi ogni volta di un bel po’ tenuto conto della scala delle tue dimensioni. Se avessi spina dorsale non potresti ottenere questo risultato. Non preoccuparti quindi dell’irrisione di cui ti fanno oggetto per questa carenza, come se si trattasse di debolezza, di asservimento al più forte. Non è vero, dipende soltanto da come si guarda il fatto in sé, da come ci si pone di fronte al potente, che è in fondo un pre-potente!”.

Brava la farfalla, tanto bella quanto dotata di cervello! Con la spina dorsale non avrebbe potuto raggomitolarsi, che era un vero raccogliersi in se stesso. Infatti, egli pensava alla posizione già raggiunta e la prendeva totalmente in carico con il suo corpo ripiegato; e poi studiava in un attimo il terreno dove si sarebbe situato con il suo scatto. Inoltre non proseguiva sempre o quasi in una direzione come la chiocciolina, ma mutava a seconda delle circostanze, del luogo che gli pareva più opportuno raggiungere. Certamente, a volte anche per paura dei possibili nemici divoratori e per scappare dunque da loro; forse che aver paura – ma non farsi prendere dal terrore né procedere a casaccio – è sempre disdicevole? Avere coraggio quando non ci si può opporre al più forte è solo da sciocchi (che poi passano a volte per eroi); avere intelligenza e consapevolezza dei pericoli non è essere vermi senza nerbo, non è piegarsi in ogni occasione al più forte. Così aveva fatto il tacchino oratore; aveva concionato nel recinto, con le galline a scuotere sempre la testa per approvare e poi, una volta arrivato l’uomo, a lui si era consegnato. E aveva perfino tentato di scaricare la voglia mangereccia di costui sulle sue misere ascoltatrici; almeno per quella volta gli era andata male e il prevaricatore aveva fatto la festa a lui!

Si sentiva meno lieto che al mattino quando faceva finta di brontolare per la sua condizione di verme ed era in fondo contento di vivere. Non era scontento nemmeno adesso, ma certamente più consapevole che questo mondo è veramente, e abbastanza spesso, un “porco mondo”. Tutto lì. Bisogna prenderne atto. Se proprio, arrivati ad un certo punto, non ce la si fa più, ci si consegnerà al primo predatore che si mostrerà all’orizzonte. Tuttavia, se si stringono i denti (beh, maledizione, nemmeno questi aveva, ma insomma…. ci siamo capiti), si può ben essere vermi senza affatto perdere in dignità. Sono pochissimi i vermi che si salvano in tal senso; Gico sentiva che lui non si sarebbe piegato ai prepotenti. E Forlotta? Non la ricordava già più, il suo posto era ormai stato prepotentemente preso dalla farfalla. Chissà come si chiamava, non glielo aveva chiesto; accidenti, e come ritrovarla? Niente, un bel ricordo, è già qualcosa. Avanti: un raggomitolarsi ed un guizzo, un altro raggomitolarsi e un altro guizzo…… sempre nuove postazioni. E poi? Si crepa, come vuoi che vada a finire? Come tutti gli altri, vermi o non vermi!

 

42 pensieri su “Gico il lombrico: verme solo di fatto

  1. …Gico il lombrico: verme solo di fatto…mi sembra un titolo giusto. il lombrico nei pensieri si avvicina di più all’uomo pre-potente che crede di odiare, ma invidia moltissimo, per via di tutto ciò che a lui manca: le zampe, la spina dorsale, la lingua, i denti…Mentre verso il suo stesso mondo animale, che pur sembra a tratti, come verso la chiocciolina, percepire con tenerezza, precisione e un pizzico di umorismo, nutre alla fine un tremendo disprezzo: tutti i suoi simili alla fine gli sembrano teste di zucca, teste di rapa…e non è anche questo un sentimento “umano”? Si salva la farfalla? Ma non è perchè stimola il suo orgoglio personale? L’essere sensibili all’adulazione non è forse un altro sentimento “umano”? Questo gico sembra tanto un campione di individualismo…

  2. questa volta sono in netto disaccordo e perfino sorpreso. Gico disprezza solo gli opportunisti (tipo il tacchino oratore) e un po’ la chiocciolina (per cui ha anche un moto di simpatia umana), che avendo una casetta in più crede di elevarsi al di sopra degli altri esseri striscianti; e si sente onorata di essere apprezzata (come le sue simili) dai prepotenti della terra (gli uomini in questo caso), pensa di partecipare al loro pranzo, in cui i suoi simili vengono semplicemente mangiati e con tutti i condimenti possibili. Lui sa raccogliersi (pensare) e poi scattare; ribellarsi in certi casi, ma tenendo conto dei rapporti di forza, non da sciocco che va al suicidio come certi eroi che tanto piacciono a chi se ne sta a casa a inneggiare a loro. Il fatto che chiocciolina e rane siano al femminile mentre Gico è al maschile non dovrebbe provocare simili fraintendimenti. Tanto più che il disgustoso tacchino (che voleva consegnare all’uomo le galline-femmine e i galletti petulanti-maschi) è maschio. E la farfalla è donna, di quelle vere, con tutta la loro decisione e intelligenza. E le formiche (maschi e femmine) sono le schiere marcianti sotto capi improvvisati e senza testa, autentiche masse del lumpenproletariat! Veramente sorpreso questa volta, lo ammetto, basito sul serio.

  3. …volevo solo dire, Franco Nova, che Gico vive davvero un forte dramma personale ben descritto nella prima parte del racconto, di forte frustrazione…si sente nettamente inferiore nel confronto con chi stima di più, sente il suo corpo inadeguato alle sue aspettative di “lombrico di rara prontezza”…e finalmente esce allo scoperto, dai cespugli d’erba che lo proteggono, e affronta il mondo, ovvero i suoi simili: un’animalità (umanità) fragile, sottomessa alla natura come la chiocciolina o a un capo invisibile come le formiche, chiassosa come le rane o “disgustosa” come il tacchino…finisce per disprezzarli tutti, soprattutto per la loro lentezza di comprendonio…fa eccezione la farfalla che lo complimenta spudoratamente…Gico continuerà tutto solo il suo cammino…

  4. beh, il tacchino non dovrebbe essere lento di comprendonio, non necessariamente. E’ un furbastro opportunista e voltagabbana quando gli conviene. Non ha fortuna…..per fortuna! All’uomo piaceva di più la carne di tacchino che quella di pollo; poteva essere il contrario. Le formiche non hanno capi invisibili. Seguono le prime che sono scappate in fuga “disordinata” (per la loro mentalità); le altre tutte dietro senza chiedersi il perché. La farfalla fa considerazioni che a mio avviso non hanno nulla di piaggeria; semplicemente valuta in modo diverso (da chi osserva superficialmente un andamento “verminoso”) cosa significhi raccogliersi (e pensare) e poi avere scatti di novità (avanzamenti). E’ solo differente da chi osserva un certo comportamento e ne trae subito considerazioni di superficie; lei capisce che ci può essere qualcosa di non banale al fondo di un certo modo di fare, necessitato dal particolare carattere dell’individuo e non subito classificabile in base a considerazioni preconcette. Gico prosegue da solo semplicemente perché non potevo continuare all’infinito il racconto. Diciamo che non cerca un branco cui aggregarsi per avere una compagnia purchessia, tanto per non restare solo e avere sempre qualcuno a cui poter dare continuamente di gomito o magari da annegare di chiacchiere senza senso, per la sensazione d’avere qualcuno intorno. Tuttavia cerca il suo simile, quello con cui può intendersi. Un po’ da stupidino pensa di averlo trovato in “qualcuno” di soltanto carino e apparentemente dolce (perché lento e con poche capacità d’offesa). Poi capisce che molto migliore era la farfalla (e non perché fosse bella); e tuttavia è sbadato e non chiede nemmeno il nome. C’è anche la distrazione a questo mondo e magari un pizzico di sfortuna o forse di eccessiva fretta. Non starà sempre da solo; la compagnia la sta cercando, sì la sta cercando. Essendo giovane qualcuno troverà. Manca adesso a me la voglia di dire chi incontrerà nei ciuffi d’erba dove si sta dirigendo. Il mondo è pieno di incontri; alla fine si fanno pure quelli “giusti” (a seconda dei gusti di ognuno di noi). Senza fretta di accompagnarsi comunque, in qualche modo.

  5. Le farfalle per un certo periodo sono vermi (ma il contrario non è vero) forse per questo c’è stato un rapporto intimo tra Gico e la farfalla, del tipo corpo-mente, o corpo-anima, o io e superio.
    Il problema è la corporeità: terricola, fangosa, bavosa, digestiva “ma che petto! Un ventre orrendo: quello vedeva Gico”.
    Il corpo ha anche eccezionali stravaganze, occhietti indipendenti e telescopici la lumaca, becchi armati gli uccelli, zampette instancabili le formiche. Gico ha un andamento a molla e imprevedibile, il che gli conferisce insieme intelligenza e indipendenza.
    Ma non ha altro, è solo un verme in questo “porco” (l’animale su cui si concentrano i nostri disgusti circa la ventralità, la sporcizia, la sgradevolezza e la cieca violenza dei corpi) mondo.

  6. Questo racconto mi pare incompiuto. Nova stesso lo sa, se scrive nei commenti: « Gico prosegue da solo semplicemente perché non potevo continuare all’infinito il racconto» o aggiunge: « Manca adesso a me la voglia di dire chi incontrerà nei ciuffi d’erba dove si sta dirigendo». Ma in cosa consiste questa incompiutezza?
    Credo che gli incontri che Gico il lombrico fa (con la chiocciola, le formiche, le rane, la farfalla) siano poco necessitati, non trovino l’acme, il punto di svolta, un centro, un senso che afferri il personaggio e scuota il lettore. Restino, perciò, frammenti che non si ricompongano in un mosaico chiarificatore.
    I personaggi – animali pensanti e parlanti come da antica tradizione – rimandano facilmente a vari modi di stare ( o sopravvivere) in una società gerarchica e violenta. E possono perciò essere letti – come del resto Nova steso fa nei commenti – in termini politici, suggerendo più o meno chiari accostamenti al presente o a un recente passato (di sconfitta) che ancora ci ossessiona. (Vedi anche discussione in corso su «Ma quale rivoluzione» di Pecoraro).
    Da notare però è una cosa: Gico è sempre al centro della scena. Partecipa (lui crede in parte…) alla condizione “vermile” insoddisfacente di questo «porco mondo» («si aggirava triste triste» ; «[nessun] attimo di felicità [o] qualche momento di pacificazione con il mondo»). Si tratta di una condizione bassa e disprezzata: i vermi, che «non hanno scheletro, tanto meno spina dorsale» e sono condannati dover restare di continuo attaccati alla terra, sono sempre «disprezzati dagli altri animali e in specie da quell’odioso dell’uomo». E però dagli altri si distingue solo Gico, perché «agile, coraggioso ma soprattutto « assai poco verme d’animo» e capace di non piegarsi ai prepotenti. E il narratore enfatizza tutte queste sue qualità positive: ha «intelligenza e consapevolezza dei pericoli», per cui non è come altri vermi «senza nerbo» e non si piega «in ogni occasione al più forte» ( come fa invece il «tacchino oratore»).
    Le altre figure che Gico incontra sono davvero di contorno e soprattutto sempre e soltanto giudicate da lui. E mai lo giudicano. E mai si capisce cosa pensino di lui. Tranne la farfalla, che però mi sembra una specie di spirito santo che gli invia il suo messaggio e scappa via. Nssuno insomma di quelli che incontra riesce ad ottenere la sua approvazione o a diventare suo/a *alleato/a*:.
    Vediamo:
    – la chiocciola lo attira perché «femminuccia» e «tanto carina», ma resta *sesso debole* e un po’ schifosa per la misteriosa e inspiegata « schiumetta biancastra che essa aveva lasciato dietro di sé». È (per Gico) «poco sveglia» (osservazione ripetuta: « tutt’altro che sveglia e veloce di comprendonio»). Porta un «brutto nome». Tanto che a Gico viene voglia di cambiarglielo. (E perché? E quali implicazioni sono nascoste in questa volontà unilaterale di cambiarle nome; il che comporterebbe anche la distruzione della storia (vera o immaginaria) di cui lei è «molto orgogliosa»? E poi è cambiandole nome che la libererà dal difetto che fa allibire Gico, e cioè dal suo essere « orgogliosa di essere mangiata da quegli schifosi esseri, crudeli oltre ogni dire» che sono gli uomini; o dall’essere in preda (sempre dal punto di vista di Gico) a « un servilismo portato all’annientamento di ogni sua dignità pur di entrare a far parte del pranzo dei potenti»?
    – le formiche (le masse?) sono per Gico delle «teste di rapa»: non sono autonome e si muovono in modi paradossali e sconcertanti («procedevano “in disordine” come fossero ad una parata militare» e per di più «senza nemmeno un vertice di comando»);
    – le rane ( i politici di professione? i parlamentari? gli intellettuali?) sono « brutte da far venire un colpo» e «tronfie nel loro gridare al mondo l’inconcepibile gioia di esserci e vivere» e « quanto a cervello, non più acuto di quello delle formiche»;
    – « Beccamorto, il presuntuoso tacchino “democratico” (con tanto di ruota)» (il PCI?) è un vile parolaio («aveva concionato nel recinto, con le galline a scuotere sempre la testa per approvare e poi, una volta arrivato l’uomo, a lui si era consegnato»);
    – la farfalla è , sì, bella, «intelligente e stimolante» (o più avanti: « tanto bella quanto dotata di cervello»), e persino rassicurante , ma è figura effimera e pur essa irraggiungibile e vissuta distrattamente ( « Chissà come si chiamava, non glielo aveva chiesto; accidenti, e come ritrovarla?»).
    In conclusione in nessuno di questi incontri Gico trova qualche alleato o interlocutore, dobbiamo dire, alla sua altezza.
    Nova, commentando, si preoccupa soprattutto di difenderlo da eventuali fraintendimenti “antifemministi”, accentua il valore della sua indipendenza («non cerca un branco cui aggregarsi per avere una compagnia purchessia, tanto per non restare solo») e ribadisce che Gico « cerca il suo simile, quello con cui può intendersi».
    Però come non dire– e qui darei ragione ad Annamaria Locatelli – che siamo di fronte ad un «campione di individualismo»? ( E mi permetto di aggiungere io: abbastanza riottoso ad applicare agli altri/e il buon consiglio che gli ha passato la farfalla: « Non preoccuparti quindi dell’irrisione di cui ti fanno oggetto per questa carenza, come se si trattasse di debolezza, di asservimento al più forte»).
    Per concludere. Non so chi Gico « incontrerà nei ciuffi d’erba dove si sta dirigendo». Mi auguro che sia un alias della farfalla, capace di indurlo a relativizzare un po’ di più il suo punto di vista. E che gli dica: Non è che non trovi alleati alla tua altezza perché vedi la debolezza e l’asservimento al più forte solo negli altri/e e non in te stesso? Non vedi che siamo tutti deboli e asserviti; ed è da questa comune condizione che bisogna partire per « raccogliersi (e pensare) e poi avere scatti di novità (avanzamenti)», muovendoci per quanto possibile insieme e singolarmente (e non solo singolarmente col rischio di staccarci troppo dall’insieme fino ad assolutizzare la sua negatività)?

    1. E’ davvero giusto (e salutare…) quanto scrive Ennio su Gico, sulla sua solitaria unicità. Infatti alla fine gli rimprovera: “Non è che non trovi alleati alla tua altezza perché vedi la debolezza e l’asservimento al più forte solo negli altri/e e non in te stesso? Non vedi che siamo tutti deboli e asserviti; ed è da questa comune condizione…”
      Ma la comune condizione, così come è trattata nel racconto, è quella “materiale”, non intellettuale o morale, quella di essere materia – sia pure organica, corpi e non pura intelligenza.
      Certo Gico si muove a molla (cioè salta di livello, da quello corporeo che striscia a un’intelligenza che valuta) ma più di tanto… per questo è inutile dire dove finirà, tra quali ciuffi d’erba (sulla fossa?).
      Non mi è parso un racconto incompiuto. Un racconto filosofico, piuttosto, e di disperazione sostanziale, pur nella leggera scherzosità.

  7. …pare anche a me un racconto incompiuto, se non altro perchè Gico il lombrico sembra avere un atteggiamento ambivalente verso se stesso e verso la povera animalità che incontra sul suo cammino. Da una parte di quest’ultima vede con estrema lucidità i difetti d’intelligenza e i limiti morali: la sottomissione ai prepotenti, l’egoismo, la stupidità, d’altra parte dalle sue simpatiche descrizioni, sempre piuttosto colorite e in fondo affettuose, emerge anche un fondo di tenerezza, se non di comprensione…A volte Gico arriva ad invidiare i corpi più strutturati dei compagni, così come disprezza la loro intelligenza e morale…viceversa Gico non ama particolarmente il suo corpo ed esalta la propria intelligenza…Speriamo che Franco Nova voglia proseguire il racconto alla ricerca di una armonizzazione…o chissa, forse ci riserva una sorpresa..

  8. Credo che l’impressione di ‘incompiutezza’ segnalata da alcuni commenti abbia anche a che vedere (oltre alle ambiguità segnalate da Annamaria) con la scelta del modello narrativo dell’apologo (o degli exempla medievali) di cui però non vengono rispettati i canoni.
    Lì, infatti, il discorso si chiude con una morale (o un insegnamento) che viene raggiunto alla fine di un processo di agnizione o di trasformazione dei personaggi.
    In questo racconto non vediamo nulla di tutto questo movimento, anzi, si ha l’impressione che nulla di significativo accada ma c’è un ripiegamento sul tema.
    Qui il personaggio fa troppo tutt’uno con le sue azioni e non c’è quella distanza necessaria per inserire il dubbio. Si procede per asseverazioni a fronte delle quali non ci può essere contestazione alcuna.
    L’intelligenza di Gico, la sua superiorità sono date per scontate al punto da non aver bisogno di alcuna verifica.
    Qui, inoltre, è come se F. Nova intendesse rappresentare, attraverso figure emblematiche di animali, uno spaccato di società ‘umana’ caratterizzata in modo gerarchico e violento (come richiama Ennio nel suo commento) e a cui l’autore guarda con occhio critico, in parte mutuato, come ancora suggerisce Ennio, dalla delusione per * un recente passato (di sconfitta) che ancora ci ossessiona*.
    Però i personaggi che popolano il racconto sono trattati in modo stereotipato isolando quelle caratteristiche che sono funzionali alla tesi del racconto stesso: finora Gico non ha trovato nessuno di così *agile, coraggioso e assai poco verme d’animo*, così simile a lui, *quello con cui può intendersi*.
    Il campionario analizzato varia sotto la etichetta della stupidità.
    Figure dove la stupidità si coniuga alla sottomissione, vedi il caso di Forlotta che, degno personaggio houllebecquiano, accetta lo sfruttamento e si concede alla religione della voracità altrui. O, semplificando, la ‘casalinga’ a cui basta avere un tetto sulla testa e perciò disposta a subire le angherie maschili. Oppure la stupidità delle masse che sembrano muoversi senza la direzione concreta di un capo (ovvero le formichine) dimenticando che ciò che le muove fa invece parte del loro istinto gregario. A prescindere dai ‘capi’!
    O la stupidità boriosa del tacchino che pensa di essere superiore alle galline solo perché è in grado di ‘fare la ruota’, ma è anch’esso una vittima piuttosto che un trionfatore. E, infine, la pavida stupidità delle rane che, gonfiando il collo, mostrano la loro potenza vocale salvo poi tuffarsi in acqua al minimo rumore.
    Gico, invece è “intelligente”, oltre la sua condizione di verme, costretto a stare rasoterra, è *agile e coraggioso e assai poco verme d’animo*.
    Anche se fa da réfrain il pensiero di quanto i vertebrati sono invidiabili rispetto agli anellidi (a cui il verme appartiene) e anche gli umani, al fine, per quanto siano esecrabili per altri aspetti, diventano pietra di paragone a cui si vorrebbe assomigliare. Si tratta di un pensiero così fisso da oscurare tutto un sistema di differenze che invece, se opportunamente colte, farebbe collocare ogni incontro che Gico fa in un suo specifico contesto all’interno del quale poter trovare qualche cosa di ‘nuovo’, qualche cosa che porti ad una spinta evolutiva. Perché è ovvio che, nella ricerca del simile, possiamo avere solo ‘conferme narcisistiche’.
    Così come avviene con la farfalla ritenuta, oltre che bella, anche intelligente.
    Così che lui si ‘beve’ l’emerita stronzata (altro che pensiero intelligente!) che ‘proprio perché lui è invertebrato può piegarsi su se stesso’! E’ nel più che ci sta il meno e non viceversa! Le prestazioni dei ballerini o dei mimi ci stupiscono proprio per questa loro capacità di de-vertebrarsi. Ma quando le vertebre invece servono, le utilizzano!
    La serenità e la felicità non sono semplicemente legate alle ‘dotazioni’ ma a che cosa ne facciamo!
    Dice la farfalla (cioè Gico): *Dipende soltanto da come si guarda il fatto in sé, di come ci si pone di fronte al potente, che è in fondo un pre-potente*.
    Già. Ma queste sono parole che contraddicono il comportamento del lombrico.
    Predica bene e razzola male, Gico. Perché la sua ‘intelligenza’ è ego riferita, serve a lui, non viene utilizzata anche per gli altri.
    Definita Forlocca come stupida (e non è forse questo già un atto di prepotenza?) la liquida, non la protegge, la abbandona al suo destino (con il rischio di essere mangiata ‘cruda’ dalle rane – che lei percepisce così carine – che ambiscono, come preda, sia le lumache che i vermi).
    Ma Gico si sente così superiore a questo da non vedere nemmeno il pericolo per lui, così come non lo individua nell’incontrare le formiche perché, in quanto verme, è loro pasto prelibato: sono in grado di accerchiarlo e, con le loro ganasce, polverizzarlo in un attimo. E fa invece lo strafottente, si atteggia in modo ‘superbo’ mettendo a rischio sia sé che la sua compagna di viaggio.

    F. Nova descrive un mondo caratterizzato da “cosalità” – il cui rappresentante è proprio il terragno lombrico – più che da relazioni che, fra l’altro, quando ci sono, vengono molto idealizzate (vedi farfalla).
    Il finale sconfortante (o disperante, come dice Cristiana) in cui si afferma *Avanti: un raggomitolarsi ed un guizzo, un altro raggomitolarsi e un altro guizzo…… sempre nuove postazioni. E poi? Si crepa, come vuoi che vada a finire? Come tutti gli altri, vermi o non vermi!*, ribadisce proprio questo elemento di ‘cosalità’. Finite le cose, finisce tutto. Quando finiscono le relazioni invece qualcosa continua a rimanere.

    R.S.

  9. …riferendoti a Gico, Rita dici:”…la sua “intelligenza” è ego riferita, serve a lui, non viene utilizzata anche per gli altri”, questo è sicuramente vero dal comportamento, però mi chiedo se non si tratti anche di un vero dramma per il verme: da una parte sembrerebbe attratto dal calore delle bestioline che incontra, dai loro aspetti buffi, sgraziati e a volte proprio ripugnanti, dall’altra, quando interviene la sua “intelligenza” stroncante, ci si allontana sdegnato. Non vuole per superbia o non riesce a comunicare proprio con quegli animaletti “inferiori”, a cui sembra infine chiedere aiuto? In fondo non asseconda, nè resta vicino alla farfalla, unica a credere di stimare…sembra che ricerchi altri consigli o altre presenze. Chissà come risolverà il suo dilemma Gico…

    1. … è presto detto: “un raggomitolarsi ed un guizzo, un altro raggomitolarsi e un altro guizzo…… sempre nuove postazioni. E poi? Si crepa, come vuoi che vada a finire? Come tutti gli altri, vermi o non vermi”, la cosalità di cui scrive RS, il corpse (il cadavere).
      Per questo è un racconto cinico e disperato, e proprio al momento di tirare le fila manca narrativamente la morale, l’apologo.
      Scrive RS “Quando finiscono le relazioni invece qualcosa continua a rimanere”, a egregie cose il forte animo accendono, la trascendenza del simbolico, le mammelle di dio… ma Gico non le ha mai praticate.

        1. Trangender perché prima aveva un sesso diverso (maschile?)? ma no, solo un gender…
          Guglielmo di St Thierry, nel commento al Cantico dei Cantici (cap. 8): “Sono le tue mammelle, o Eterna Saggezza, che nutrono la santa infanzia dei tuoi piccoli … la Sposa … si volge al tuo seno … e attacca la bocca alle tue mammelle”. Gesù come madre andava forte! (Caroline W. Bynum, Jesus as Mother, University of California Press, Berkeley, London, 1982, pg. 119)

  10. a questo punto mi è impossibile rispondere veramente; mi trovo di fronte a un certo numero di racconti e non so quale sia quello che ho scritto. Lasciando da parte il racconto, tengo però a dire che se c’è un tipo non disperato questo sono io. Inoltre, sono sempre stato socievole al massimo. Credo che solo tre amici abbiano rotto con me; non so chi avesse ragione, ma certo non erano tipi molto socievoli. E poi io avevo un animo “borghese” mentre loro erano dalla “parte giusta”. Anche adesso, che molti sono i miei amici di un tempo morti o semplicemente persi di vista (ma senza rotture di alcun genere), conosco tutte persone ben più giovani di me e che, guarda caso, mi cercano e stanno abbastanza bene assieme a me. E non fanno proprio alcuna piaggeria, anche perché non ne trarrebbero alcun vantaggio. Infine una notazione un po’ diversa. Avevo sicure possibilità di essere un più che discreto imprenditore, poi un prof. universitario con qualche carica e titolo onorifico. E la politica mi ha sempre visto prendere un 20% di cantonate ma un 80% di situazioni ben individuate, calibrate, con previsioni azzeccate, ecc. Non ho fatto gran carriera in nessuno di questi campi; certo, anche per pigrizia, ma poi perché non sono capace di asservirmi e di accettare chissà quali condizioni (nemmeno per quegli iniziali 10 anni che servono per arrivare e poi farla pagare agli altri). Non c’entra nulla con il racconto lo so, ma ho trovato senza dubbio strano che Gico avesse tutti quei difetti e, in particolare, che fosse un solitario e disperato. Magari è una mia segreta aspirazione; per il momento, però, non ancora ben evidente. Ne sono di sicuro inconsapevole.

  11. Non capisco questo bisogno di Franco Nova di sciorinare le sue credenziali… non siamo in tribunale… in fondo stiamo parlando di un ‘personaggio’ che qualche cosa ‘impersonerà’!
    Né alcuno vuole attribuirgli la patina di ‘disperato’: stavo solo seguendo lo sviluppo narrativo che implicava il percorso del lombrico nel racconto. Sennò a che si racconta a fare? A passare il tempo per non annoiarsi?
    Inoltre non ho affermato che quanto detto dalla farfalla è piaggeria. Ho detto soltanto che Gico prende per intelligente una affermazione scema. E poi che la grande verità affermata dalla farfalla e cioè che *Dipende soltanto da come si guarda il fatto in sé, di come ci si pone di fronte al potente, che è in fondo un pre-potente*, avrebbe potuto stare benissimo anche nel ‘becco’ del tacchino. Tutti possono parlare e indicare gli altri come pre-potenti! Se dobbiamo guardare i cosiddetti fatti Gico ha solo ‘giudicato’ gli altri e quando ha partecipato lo ha fatto di malavoglia. Anche questa è una forma sottile di prepotenza.
    Tutto qui.

    R.S.

  12. l’affermazione non è scema, è solo di senso comune e non è detto che sempre si debbano pronunciare frasi di un certo rilievo; soprattutto quando si tratti di incontri piuttosto occasionali e in cui nemmeno ci si informa del nome di chi si è “incocciato”. In ogni caso, non è frase che avrebbe pronunciato il tacchino di fronte all’uomo che doveva scegliere se mangiare una gallina o lui. Il fatto che ognuno possa dare ad un altro del prepotente non significa che non esistano, oggettivamente, i potenti; e in genere questi hanno una “naturale” tendenza alla prepotenza. Per la verità questa è parte del loro potere; difficile esercitare un potere senza compiere atti di prepotenza e soprattutto senza convincere – o imporre – che il proprio giudizio sui fatti è quello giusto, da accettare come “Vangelo”. Per cui poi la prepotenza è doverosa, o addirittura “santa”, applicazione di principi giusti, che esigono il compimento proprio di quella “benemerita” punizione esemplare di chi ha svolto un’azione giudicata dal potente “ingiusta”, infrazione di quei principi da accettare senza il minimo di discussione perché così ha deciso lui. Come “banale” esempio si pensi al principio della “democrazia” esportata in tutto il mondo dagli Usa con azioni che forse “qualche” carattere di prepotenza ce l’hanno. Tuttavia sembra plausibile pensare che gli Usa, in quanto attuale principale potere esistente su scala mondiale, pongano come indiscutibile la “loro democrazia” per impedire ad altri di insidiare il loro primo posto come potenti. E questi altri, se invece vorranno insidiarlo e contrastarlo, commetteranno pure loro atti di prepotenza. Quindi la prepotenza esiste in quanto portato della potenza, non è che dipenda solo dal fatto che ognuno può dire prepotente ad un altro. Solo che non tutti diventeranno così potenti da poter essere prepotenti, non è mai accaduto. E allora chi non riesce ad accedere al potere, almeno possa dire: il potente è solo prepotente ad affermare che questi principi sono indiscutibili, io invece li discuto eccome; e se un domani potrò, non li rispetterò nemmeno con le mie azioni e non solo a parole. E quando questo diventa possibile, si entra nei periodi rivoluzionari.

  13. …i racconti di Franco Nova scatenano sempre uno strascico di interpretazioni, di punti di vista contrastanti e lasciano aperte diverse strade: il lombrico se ne va e così ce ne andiamo anche noi, la compagnia si scioglie con le proprie riflessioni risolte o irrisolte…quello che mi è parso di vedere, intorno al racconto , è un insieme di menti, ciascuna a dare risposte o a segnalare dubbi, a cercare magari punti di convergenza, non certo una partita di scacchi…

  14. «Tuttavia sembra plausibile pensare che gli Usa, in quanto attuale principale potere esistente su scala mondiale, pongano come indiscutibile la “loro democrazia” per impedire ad altri di insidiare il loro primo posto come potenti. E questi altri, se invece vorranno insidiarlo e contrastarlo, commetteranno pure loro atti di prepotenza. Quindi la prepotenza esiste in quanto portato della potenza, non è che dipenda solo dal fatto che ognuno può dire prepotente ad un altro. Solo che non tutti diventeranno così potenti da poter essere prepotenti, non è mai accaduto. E allora chi non riesce ad accedere al potere, almeno possa dire: il potente è solo prepotente ad affermare che questi principi sono indiscutibili, io invece li discuto eccome; e se un domani potrò, non li rispetterò nemmeno con le mie azioni e non solo a parole. E quando questo diventa possibile, si entra nei periodi rivoluzionari» (Nova)

    Riflettendo sul racconto, ma anche su quest’ultimo commento di Nova ho sentito un certo disagio e tento qui di esprimerlo con un ragionamento magari ancora un po’ contorto e da limare. Parto da una domanda: ma le rivolte, le rivoluzioni sono atti di *prepotenza* o tentativi ( a volte riusciti, spesso falliti) di ridurre o eliminare i prepotenti?
    Oggi che ogni sbornia mitizzante sia per le rivolte che per le rivoluzioni è passata e quasi tutti si spargono il capo con le ceneri di un realismo (a volte iper), che dovrebbe correggere tardivamente il loro eccessivo, fumoso e giovanile entusiasmo rivoltoso/rivoluzionario, il rischio più grosso mi pare quello di cancellare completamente certe istanze positive e generose ( a cambiare, a diventare liberi) e finire per di ridursi alla contemplazione del secolare scontro tra prepotenti (maggiori, medi, minori) o, al massimo, a tifare per il prepotente medio o minore quando si contrappone al maggiore. Cioè ad accettare *realisticamente* il mondo così com’è, convinti che essendo appunto fallite tutte le rivolte e le rivoluzioni, non ce ne potranno mai più essere altre. O che, anche se ci fossero, falliranno come le precedenti.

    Viene in mente il manzoniano dilemma «far torto o patirlo». E pare che debba riguardare solo lo scontro tra prepotenti. Vuoi che i non potenti ( o impotenti) possano o desiderino *far torto*? No, devono solo *patirlo*. Questa, ridotta all’osso, sarebbe la dinamica profonda e insuperabile della storia umana. E se – mettiamo il caso – dei non-potenti riuscissero a insidiare o a contrastare per eccezionali e imprevedibili contingenze i potenti, nulla cambierebbe: « commetteranno pure loro atti di prepotenza» e, dunque, andrebbero considerati *prepotenti*. Ergo: anche rivolte e rivoluzioni sono alla fine della fiera atti di prepotenza.

    A me pare che qualcosa non quadri in questo modo di ragionare. ( Preciso: non dico che Nova ragioni così, ma sulla questione molti ragionano così). E allora mi dico: sì, i *già* potenti, essendosi trovati a nascere in condizioni di vantaggio (economico, politico, culturale) rispetto ad altri (e per ora non valuto e non tento di spiegare la causa o le cause di questo loro vantaggio…), davvero « hanno una “naturale” tendenza alla prepotenza». Ma quelle virgolette a ‘naturale’ andrebbero indagate. Ci si dovrebbe cioè chiedere: la loro tendenza alla prepotenza è davvero naturale (senza virgolette) o s’è costruita, consolidata e trasmessa, generazione dopo generazione, *storicamente* invece che *naturalmente*?
    Si affaccia una questione antropologica di fondo: davvero tutti gli uomini (indistintamente) sono *naturalmente* lupi per gli altri uomini (Hobbes)? O lo sono soprattutto o più facilmente quelli, per i quali «la prepotenza esiste in quanto portato della potenza» ( sono, cioè, *già* – per eredità storica – potenti e quindi “naturalmente” prepotenti)?
    A me pare di sì.
    Allora gli altri non sarebbero prepotenti e mai possono compiere o essere spinti a compiere atti di prepotenza? Sarebbero cioè *buoni* per natura ( Rousseau)? No, anche gli altri, se vengono a trovarsi in certe circostanze – però per loro *eccezionali* e non *normali* ( come per i potenti/prepotenti) – *diventano* prepotenti quanto e magari più degli altri.
    La mia tesi è che non è corretto usare il termine ‘prepotenza’ per quanti, essendo nella condizione dei *non potenti* ( o degli impotenti, di quelli che non possono usare il nessun modo la loro forza, la loro energia, perché soffocata da altri e spesso da loro stessi) riuscissero in certe condizioni a compiere atti che mirassero a ridurre o eliminare (ammesso che sia possibile…) i veri prepotenti, quelli che hanno posizioni di vantaggio acquisite storicamente. Detto altrimenti: le rivolte o le rivoluzioni, anche se guidate da transfughi provenienti dal gruppo dei *prepotenti* e fatte *in nome dei non potenti*, non sono delle prepotenze. Ristabilire o tentare di ristabilire rapporti più giusti non è atto di prepotenza.
    Le rivoluzioni – quelle borghesi, fasciste e quelle comuniste – o le rivolte ( da Spartaco a quelle contadine) vanno indagate e distinte. Non sono tutte da equiparare, non sono in ogni caso e sempre atti di prepotenza. Chi neutralizzasse o abbattesse un assassino armato che sta uccidendo un povero cristo disarmato e che non nuoceva a nessuno è un prepotente o un “giustiziere”? La Resistenza fu un atto di prepotenza?
    Intendo dire che c’è una distinzione da fare tra esercizio della prepotenza e esercizio di una potenza riequilibratrice o che intende costituire un ordine più giusto. E che perciò non è secondario valutare lo scopo che si propongono i rivoltosi o i rivoluzionari. Per distinguere prepotenza (ripeto: di solito dei *già* potenti) da potenza esercitata da quanti *prima* erano non potenti (o impotenti).
    Se invece questi scopi non potessero mai più essere distinti e valutati (razionalmente) come buoni o cattivi, se – ad esempio – lo scopo del fascismo fosse equiparabile allo scopo del comunismo, se insomma qualsiasi scopo fosse davvero soltanto mera maschera, che nascondesse esclusivamente una “naturale” prepotenza di tutti, la storia diventerebbe effettivamente un semplice carnevale. Tutti in maschera e con diverse maschere, ma sostanzialmente soltanto prepotenti. “Tutti uguali”, come si dice.

    1. Poi c’è la “terza via”, quella quantitativa, socialdemocratica, del voto, della dialettica democratica, dove la *quantità* degli interessi comuni (e/o dei valori umani) si imporrebbe sulla *minoranza* antropologica delle prepotenze, anche contrapposte. L’altra faccia di quella terza via sarebbe quella del disimpegno, del non voto, del rifluire nel pacifico privato, salvo mobilitazioni, sempre quantitative!, su punti particolarmente pressanti. Questa ultima posizione, così diffusa dopo il decennio dei ’70, ha poggiato su un benessere diffuso che ha mantenuto il consenso (e il disinteresse) verso chi comandava, ma non ha considerato profondamente come il benessere derivasse dalla moderata partecipazione al dominio di una prepotenza internazionale.
      Oggi che il pan comincia a mancare e i circensi non fanno più ridere si ripone il problema di combattere la prepotenza consolidata per “Ristabilire o tentare di ristabilire rapporti più giusti (e in effetti) non è (sarebbe) atto di prepotenza.”
      Ma qui comincia la politica, e la storia, perché occorre costruire un contropotere, organizzazione, stato…
      Sono convinta che la storia non abbia in sé dei valori, ma delle spiegazioni, che le rivoluzioni abbiano delle ragioni e rispondano a interessi, la storia è descrizione non tribunale delle idee. I singoli possono averle, delle idee, e combattere anche per affermarle, e idee diverse, che corrispondono a interessi, a progetti, a convinzioni. La frase citata di Nova non mi convince solo per una sua interna meccanicità, come se fosse realistico ridurre la complessità delle interpretazioni umane della realtà a una antropologica contesa della forza.
      Oggi si tratta di decidere che cosa si vuole salvare e che cosa lasciare affondare dei settanta anni del dopoguerra, dato che tutto non può restare uguale. Idee, progetti, alleanze, bisogni, interessi, azioni, tutto è in gioco.

  15. Signor Nova,
    la ringrazio per il suo racconto che ho trovato gradevole
    non ho apprezzato invece la psicanalisi narcisistica di chi ha scritto i diversi commenti, nessuno è stato convincente il suo racconto sia pure incompiuto sì.
    Scriva ancora non si lasci frenare dalle critiche inutili
    eleonora

  16. ringrazio Eleonora e la rassicuro; solo che la mia passione principale non è scrivere racconti (che sono per me proprio un passatempo) bensì un altro tipo di analisi e di elaborazione e rielaborazione teorica. Quanto al resto, noto solo che quando uno pensa in consonanza con qualcun altro, allora questo diventa per lui fondamentalmente un buono, un giusto, che solo a volte è costretto ad essere prepotente contro la sua volontà (e morale immagino). Questa è la visione più immorale che ci sia, è credere che siano buoni e giusti (e non prepotenti) coloro che la pensano come noi. Ebbene no, non è vero e simile concezione mi disgusta. E roba da “arrivano i nostri”; se poi questi ammazzano, massacrano, sono farabutti e criminali come gli altri, non è vero, è solo che sono obbligati a qualche gesto “insano” dalla cattiveria degli altri. Siete dei manichei. Io ho avuto modo di conoscere fascisti e partigiani; e ho conosciuto una eguale percentuale di farabutti e di persone di una certa moralità e sensibilità da entrambe le parti. Posso raccontare ignominie terribili da una parte e dall’altra e anche azioni commesse solo per vendicare amici e persone cui si era affezionati da una parte e dall’altra. E così via. Mai pensato – perché nelle pubblicazioni, ad es., delle “Lettere dei condannati a morte della Resistenza” si sono scelte le testimonianze migliori e più alte – che i resistenti fossero la Giustizia e gli avversari il Male, l’Oppressione, ecc. Chi vince racconta sempre la SUA verità, che è falsità. Tutto ciò non mi ha mai impedito di scegliere una parte contro un’altra, quando ritenevo che fosse necessario un cambio di determinate “strutture sociali” (non della bontà e moralità individuali che restano quello che sono sempre state, a volte esistenti e a volte inesistenti presso certi individui, dell’una come dell’altra parte). Ho scelto perché ritenevo il cambiamento essenziale per proseguire lo sviluppo sociale (e talvolta ho scelto proprio male), ma senza immaginare che quelli che erano “dalla mia parte” fossero migliori (come individui) degli altri. Ho visto una tale ferocia, una tale ottusità, una tale amoralità, una tale ipocrisia, una tale voglia di prevalere e farla pagare solo per vendicarsi, ecc. ecc. proprio presso quelli con cui stavo. Allora sarei dovuto fuggire? E invece no, altrimenti sarei dovuto restare puramente passivo e ritirarmi in una grotta in montagna. Invece, ho scelto, ma senza manicheismi di sorta, sapendo che avevo vicino a me persone per bene e farabutti schifosi; e che tra coloro contro cui combattevo c’erano persone per bene e farabutti schifosi. Tutto lì.

  17. …parlando sempre e solo di Gico il lombrico e non dell’autore del racconto che appartiene ad una sfera diversa, del tutto irraggiungibile…penso che il manicheismo per carità, ma arroccandosi Gico in una sorta di limbo individualista può rischiare di cadere a sua volta in una sorta di manicheismo…il suo io pensante non emotivo e di una lucida intelligenza stroncante finisce per separare inesorabilmente i buoni dai cattivi anche se al di là degli schieramenti…

  18. beh, certamente se si pensa che qualcuno (o anche certe “schiere”) appartenga ad un “settore” piuttosto che a un altro (buono o cattivo, intelligente o un po’ indietro, capace o abbastanza inetto, ecc.), si fanno le opportune divisioni; mi sembra del tutto naturale. L’importante è non vedere tutto oro fra coloro che la pensano come noi, che stanno dalla nostra stessa parte, mentre dall’altra parte c’è tutta m….. Però se penso che un individuo è m…… – indifferentemente dal fatto che sia tra i “miei” o tra i “loro” – e invece nascondo il mio pensiero, sono semplicemente insincero, magari a volte per cortesia, per usare “modi urbani” di esprimersi, insomma per essere “educato” come suol dirsi.

  19. per essere del tutto sinceri, dobbiamo ammettere che spesso si emettono giudizi su individui che non si conoscono personalmente (o solo superficialmente ed occasionalmente); ad esempio personaggi pubblici. In tal caso, si ha spesso antipatia o simpatia in base al fatto che siano della parte avversa o della nostra. E i giudizi sulle persone sono viziati da tale fattore difficilmente aggirabile. E’ sbagliato, ma è difficile evitarlo.

  20. “L’importante è non vedere tutto oro fra coloro che la pensano come noi, che stanno dalla nostra stessa parte, mentre dall’altra parte c’è tutta m…..” (Nova)

    Ma – guardiamoci attorno ( a livello internazionale, nazionale, locale) – qual è oggi la nostra parte?
    E’ per difficoltà di sceglierla ( e per sceglierla ci vorrebbe il cuore e la mente in un certo accordo…) che oggi siamo spesso ridotti a discutere di individui ( o di “personalità”) e a distinguerli in buoni o cattivi in base a valori vaghi o non dichiarati o non condivisi.
    Questo è, secondo me, anche il dramma di Gico. E perciò ho detto che il racconto è incompleto. (Che non significa brutto… e dire questo – per rispondere anche a Eleonora – non significa cadere nel narcisismo… ).

  21. @ Ennio

    In uno dei post precedenti, “Ma quale rivoluzione”, si parlava della necessità di riprendere in mano alcuni concetti, rivedendoli nel confronto fra l’oggi e il passato, quali appunto quello di ‘rivoluzione’, di ‘democrazia’ e adesso aggiungerei anche quello della funzione e dello sviluppo del potere.
    Metto giù alcuni spunti, a grandi linee.
    Perché non è sufficiente limitarci al fatto che c’è chi detiene il potere e chi invece no (e nemmeno ricorrere al manzoniano “far torto o patirlo”), perché la dinamica del potere riguarda anche il ‘dare potere a qualcuno’, affidarne la gestione a qualcuno, a volte ciecamente.
    E ciò avviene per svariati motivi che spaziano dal politico all’economico al sociale e, non ultimo, alla costituzione soggettiva e alle dinamiche che si creano nei gruppi.
    C’è dunque un potere manifesto nei confronti del quale è più facile opporsi e un potere occulto che è difficile da svelare.
    Perché tu scrivi: *Intendo dire che c’è una distinzione da fare tra esercizio della prepotenza e esercizio di una potenza riequilibratrice o che intende costituire un ordine più giusto*. Sì, senza alcun dubbio anche se il ‘riequilibrio’ presuppone comunque una tensione tra forze .
    Ma chi determina il “giusto”? E il “giusto” attiene solo ad un giudizio di valore? Qual’è il quadro generale? Su che cosa si stabilisce la fiducia? Sulle parole? Sui fatti? Ma, di riffe o di raffe, siamo tutti ‘uomini d’onore’ rispetto alle nostre affermazioni, anche sui fatti stessi.
    Perchè, come affermava Marco Antonio nella sua orazione funebre accanto al cadavere di Cesare appena pugnalato, anche Bruto, che aveva ucciso il tiranno dietro l’accusa di ‘ambizione’, era un uomo d’onore, al pari degli altri senatori. E bisognava dargli credito che l’aveva fatto per Roma, non per se stesso!
    Shakespeare, cioè l’artista, ci fa invece intuire nelle pieghe del discorso l’ambiguità e il tornaconto di Marco Antonio il quale, con la sua vis retorica, fa virare il consenso della plebe da ‘pro Bruto’ a ‘contro Bruto’! Perchè la plebe aveva bisogno di credere in qualcuno che *costituisse un ordine più giusto*! Bastava entrare nella ‘sua’ logica!
    La funzione ‘universale’ dell’arte ci permetterebbe dunque di leggere tra le righe, di riflettere sulla storia, sulla memoria. Seguirla, assecondarla, ‘tentarla’ rappresenta certamente un ‘impegno’ di modo che non succeda quello che paventa Annamaria, dopo che si è ‘facebucato’ del più e del meno: * così ce ne andiamo anche noi, la compagnia si scioglie con le proprie riflessioni risolte o irrisolte…*
    E, per rispondere a Ennio, “quale è oggi la nostra parte?”: anche questa lo è, quella di fare chiarezza il più possibile.

    R.S.

  22. essere da una parte non significa sempre darsi alle grandi scelte ideologiche che furono possibili nel ‘900 e che credo, prima o poi, torneranno (non quelle, chiarisco; altre, ma comunque rilevanti come quelle di allora). Tuttavia, io sono contro la “primavera araba” e quindi contro tutta la stolta “sinistra” (anche detta radicale o estrema o non so quale altro termine usare) che inneggiò a quegli eventi e all’infame linciaggio del “tiranno” Gheddafi (tiranno per questi stolti). Così sono contro coloro che vogliono adesso la caduta dell’altro “tiranno” Assad. Sono contro l’attuale potere in Ucraina e tutto ciò che questo significa dal punto di vista geopolitico. Sono contro la “democrazia all’americana” e la sua “esportazione”. E potrei continuare per pagine e pagine. Siamo sempre in mezzo a scelte, ad antipatie e simpatie (anche se è vero che oggi come oggi, il sottoscritto sente più fortemente le prime, mentre un tempo non era così). Tuttavia, ho delle amicizie (più che altro conoscenze, ma con simpatia) che appartengono ai settori contro cui mi schiero. E questo avviene perché mi sembra che siano comunque persone in buona fede, sincere e convinte di quel che dicono. Le ritengo rispettabili. E’ poca cosa, ma i tempi non si prestano a grandi “trascinamenti” ideologici.

  23. in che senso provocare? Non so nemmeno chi siano i “selvaggi” di questa scena disgustosa. Comunque, se uno di questi capita nelle mani degli avversari, vedresti che servizietto. Sarebbe in un certo senso vendetta. Tuttavia perché noi vediamo solo uno spaccato (di non so quale conflitto). Se lo vedessimo tutto? Fin dall’inizio? Con le sue varie “tappe” (o “stazioni” di Via Crucis)? Siamo delle belve, “da una parte e dall’altra”, facciamo schifo. Come sarei però io preso in mezzo ad una guerra simile? Quali sentimenti si andrebbero formando in me (magari perfino “deformandomi” profondamente come senso di umanità)? C’è solo da essere molto tristi; e anche umiliati (e offesi).

  24. @ Nova

    Nel senso che anche una scheggia minima di “realtà” come quella che il video mostra *ci o mi provoca*, cioè m’inquieta, mi allarma, m’impaurisce, m’impone di stropicciarmi gli occhi, chiede al mio pensiero di darsi da fare.
    Il video mi è stato segnalato da un amico su FB ed è tratto da una fonte araba che non so individuare (titolo e commenti sono in arabo). Perciò è difficile da contestualizzare la scena (quando è avvenuta, dove, ecc.). Ma pare di capire che alcuni delle squadre speciali israeliane (?), vestiti come i giovani palestinesi che si scontrano coi militari e mescolatisi con loro, ne catturino due, sparino sugli altri mettendoli in fuga e poi infieriscano sul giovane catturato e un altro, che mi pare svenuto, ne trascinino verso le camionette.
    Dev’essere un episodio quasi *normale* e addirittura *secondario* rispetto a quanto sta ancora avvenendo in questi giorni a Gerusalemme e altrove. Per il resto le domande che ti fai, ce le dobbiamo fare tutti. Bisogna uscire dalla trstezza e dall’umiliazione. Ma come?

  25. Si esce dalla tristezza e dall’umiliazione solo continuando il gioco, cioè la ferocia? Sì, perché le buone ragioni stanno da tutte e due le parti.
    L’altra umiliazione, e rabbia, è quella che provo io, di chi non c’è, di chi assiste e non può far smettere, né parteggiando, né predicando, né ipotizzando una catena di pressioni da qui a lì che possano far cessare. Solo assistere e basta. E fare il possibile perché non accada anche qui, dove sono io.
    Il fatto è che qui e lì sono posti diversi, nonostante lo sguardo e l’informazione e le emozioni, e a questa diversità, mi sembra, teniamo tutti.
    C’è una opacità in questo mio discorso, che coincide con la necessità: “là” è così e non può essere diverso. Ed è inutile dire che tutto è collegato, in qualche modo è vero, ma là è là e io sono qui.
    Oppure no? Qualcuno mi mostri che invece c’è un’apertura, che qualcosa posso fare, che è possibile agire per fare cessare la ferocia senza diventare feroci.

  26. temo siamo in una tipica epoca “di mezzo”; mettiamo come quella tra Congresso di Vienna (1814-15) e moti del ’48-’49. Lo stesso Marx, se fosse nato vent’anni prima (1795-800), ci avrebbe capito poco, non avrebbe scritto il Manifesto del ’48 e tanto meno “Il Capitale”. Non avrebbe colto quella decantazione del Terzo Stato da lui fissata come formazione di borghesia e proletariato (o classe operaia) con tutti gli “annessi e connessi”. Adesso, si dovrà probabilmente mangiare ancora tanta pappa (per non dire altra cosa) prima di riuscire ad orientarsi nuovamente con un minimo di possibilità di “ordinare le cose” (il cui ordine è molto sommario e se poi viene cristallizzato per un secolo e mezzo conduce al disastro dei comunisti e marxisti dell’ultimo mezzo secolo o quasi).

  27. “…Non per provocare…Nel frattempo…” forse come dire un filmato questo che dà alla tua coscienza poco tempo per riflettere, nel senso salottiero, come del resto succede nella vita: hai tanto pensato e poi una situazione di emergenza ti costringe a un salto mortale di 365 gradi e ad una scelta: qui, ammettendo di non conoscere nulla della questione palestinese, vedi due gruppi contrapposti: uno armato sini ai denti e con divise militari protettissime, l’altro in abbigliamento civile, munito di sassi ( e di coltelli?) come strumenti arcaici di difesa e di attacco, poi osservi che tra quest’ultimi alcuni trascinano violentemente giovani dello stesso gruppo sino alle jeep degli uomini armati, come per farli prigionieri e capisci anche la strategia dell’inganno…

  28. Gentile dottor Franco Nova, voglio sperare che la Sua favola di Esopo sia autobiografica e solo quello, in caso contrario tendo a supporre che si riferisca a qualcuno, una persona nota, suo malgrado. Se così è, pensando a questa persona che ben conosco e supposto di non sbagliare, mi riesce diffice credere che Lei la possa paragonare ad un verme anche soltanto attraverso un racconto. Forse Lei avrà il coraggio, almeno morale, di specificare meglio(senza fare nomi,o anche facendoli) a chi si riferisce. Purtroppo credo proprio che non avrà questo coraggio, come la maggior parte dei cosiddetti italiani brava gente del cui livello etico non oso parlare. Mi stupisco sempre di come il popolo possa essere raggirato, imbrogliato, ingannato,portato a pensare e dire il peggio di qualcuno che nemmeno conosce e far diventare le menzogne realtà. Gico striscerà sempre solo perchè ha visto il nero profondo in ciò che lui credeva bianco o quantomeno grigio, un nero irrisolvibile perchè basato sull’indifferenza, sul detto criminale “così è la vita” quando la vita non è la propria, sulla risata gratuita ed eticamente oscena. Non cè bianco che tenga a questo nero dell’anima. Gramsci diceva e scriveva “Odio gli indifferenti” ed Einstein gli dava ragione “il mondo non finirà a causa di chi fa il male ma a causa di chi sta a guardare”. Attendo, forse invano una Sua risposta.

  29. @ tiziano

    Una trentina di commenti sul racconto di Nova dimostrano a sufficienza che esso ha significati interessanti e generali (e su questi si è svolta una buona discussione). Dovrebbe bastare. La letteratura di solito assolve la sua funzione positiva in modi obliqui. Sceglierà Nova se replicare. A me però non pare corretto richiedere in pubblico, con toni di sfida e per giunta nascondendosi dietro un nickname dettagli che potrebbero essere chiesti in privato.

    1. Gentile signor Abate, quando Lei sintonizza una radio la captazione di un canale avviene per un fenomeno chiamato risonanza, ebbene il mio circuito mentale ha risuonato fortemente con il racconto del dott. Nova per molti punti di quel testo. In genere non lascio commenti a ciò che leggo ma in questo caso… Forse ho ritenuto sottolineare che in quel racconto vi sono degli elementi, volontari o no da parte dell’autore, che possono destare in alcuni reazioni di risentimento soggettivo che rasentano, a mio parere, l’insulto gratuito non motivato, sottolineo, non motivato dall’autore. Sono libero, fino a prova contraria, di interpretare il racconto secondo le mie corde, racconto che è “pubblico” e che richiede, o meglio offre la possibilità di essere commentato pubblicamente. Il mio commento può essere stato letto come divergente ma arrivare al punto di etichettarlo come sfida… ma dai. Per finire questa spiacevole risposta alla sua spiacevole obiezione dico che non mi nascondo affatto dietro un nickname, quello è il mio nome e ho lasciato anche la mail, oppure volete che scriva nome , cognome, data di nascita, domicilio, telefono e iban?

      1. Signor Tiziano, buongiorno..le scrivo per esteso come rosanna, mio nome, detto e ripetuto più volte e nonostante questo preso e trasformato come fossi rossano. Spesso e volentieri, peraltro solo in questo spazio, e addiriturra dunque pure da chi crede di avere una sensibilità “poetica”, hanno continuato a rivolgersi, a me, come se fossi un “maschio” (senza che nessuno battesse ciglio, of course, se si batte, è solo per chi sa stare dentro il cerchio) mentre , addirittura di addirittura, mio cognome e altro, via e cap, recapiti telefonici compresi, detti e ridetti in una mailing list (laterale a questo sito quando si chiamava moltinpoesia, ma non so se esiste più) da cui fui decapitata, virtualmente s’intende…tanto come sempre virtualmente, asocialfessobuccamente, daje e dajè mi autosospesi, a forza di prenderle inutilmente in quest’altro spazio.

        Lei , quindi, capirà che potrei essere dalla sua parte e in parte lo sono, ma dall’altra, sono dalla parte dell’autore di questo pezzo. Le motivo il mio 50 dalla sua parte e l’altro dalla parte di Nova.

        Premessa. La fandonia comune a un certo agire o antropologia di infernet, è di prendere a pretesto il fatto che qualcuno si nasconda dietro l’anonimato in modo da rispondere in contro-fango o canto al presunto o effettivo canone o fango. Azione-reazione. Lei sputtana Nova e qualcuno sputtana lei, non sulla sostanza o i motivi, perchè purtroppo lei non si è potuto attenere alla critica sul testo, ma dalla persona al personale, visto che le sue contestazioni erano sulla persona, il duello era questione privata, e dunque non le si poteva dire codardo per non averci messo la faccia ( con codice fiscale o iban), bisogna attenersi a quel piano senza sconfinare in un agire che è una bestialità tipica dell’homo digitalis. Ora , però, visto che la sua etica le imponeva (al contrario della mia) , di avere voce “pubblica”, su qualcosa che di pubblico nulla aveva per me (estranea in cui m’ immagino fra altri estranei), il problema rimane. Lei ha realizzato un atto di forza trasformandolo da privato a pubblico e rimane appunto pubblico, perché chi ha memoria di essere lettore, al di la di spazi e di infernet dati dal “progresso”,leggendola, viene catapultato non nel suo nome, non nel nome di Franco o di Tiziano, ma in un altro racconto, in un altro nome, in un altro Gi(o)co. E, solo se sufficientemente attrezzata/o, può presumere, immaginare, dedurre, “pensare” che :
        1 anche supernova possa avere una vita pratica, personale e pubblica, che al di la delle sue intense capacità espressive in novelle, racconti, riflessioni, etc , abbia dei forti limiti, molte o poche o intense contraddizioni, delle piccole o grandi generosità e altrettante piccole e grandi crudeltà come è della vita, senza che ce lo debba dire questo o quella Tiziano o Tiziana; l’ha sostenuto parecchie volte, Nova, nello spazio dei commenti, quale sia il suo portamento nei confronti della natura umana, propria e altrui;

        2 anche questo o quel Tiziano possa essere scoppiato, come ognuno di noi peraltro dovrebbe essere, Franco o Ennio o altri compresi, visto come gira dal primo scoppio il gi(o)co di questo mondo.
        —–
        La realtà supera sempre la fantasia, non trovo nulla di particolarmente grave per chi scrive nell’ attingere da episodi di vita vera, peraltro nel caso di questo racconto come di altri, per chi non conosce in qualità di parente o amico, lo scrittore, è ben difficile poter essere chiaroveggente e leggere ogni dettaglio, nomi e fatti che lo hanno generato …Troverei più grave per questo o quell’altro Franco, Ennio, Tiziano come per chiunque altra/o, non averne avuti ( di pezzi di questa fantastica realtà) o esserne alquanto a corto, duqnue essere costretti a simulare di aver avuto una vita, episodi compresi. Costrizioni che nelle carestie contemporanee di segmenti di autentico noi, sono sempre in agguato, in ognuno di noi.

        ps
        cosa dovrebbero fare gli scrittori, Nova compreso? come nei film? con tanto di dichiarazione senza senso, ogni fatto e nome della realtà è puramente casuale. Vogliamo attivare gli enciclopedisti che partecipano anche in questo spazio, per capire la fenomenologia e la letteratura a riguardo? Vogliamo chiedere quanti e quali i casi, nella storia della letteratura, di Tiziane e Tiziani che si sono sentiti derubati della propria vita? trovando pezzi o riferimenti della stessa in libri, romanzi o poesie, disonestamente distorti dall’autore? etc etc per ogni tipologia di manomissione o rappresentazione indebita a favore dello scrittore?

        p.p.s.
        c’è una curiosità a proposito di nomi e iban ed altro ancora legato agli spazi pubblici…
        nel sito di conflitti e strategie un altro racconto di Nova (quello sul tempo) è stato pubblicato qualche giorno prima sotto il nome di La Grassa e solo successivamente, in questo spazio, con il nome dell’autore verso cui si scaglia; quando affrontai la prima lettura, appunto sul sito di conflitti e strategie, mi feci questo film , forse proprio perché non conosco nulla della vita, diciamo personale, dei due autori, mi dissi: cazzarola! vuoi vedere che niente niente il professore dei conflitti è pure sincero e franco scrittore di racconti?
        ……
        Visto il clima, sempre un po’ più che semplicemente perturbato e teso sul piano dei rapporti con gli altri (da parte di chi è rimasto fortemente ideologizzato dalla chiesa partito, sia anacronisticamente sia gettandosi dall’altra parte, nessuno escluso), si potrebbe pensare così (e quindi, pure ,sbagliando per non aver privilegiato la solita sciocchezzuola arcano che spiega sempre tutto; ovvero, magari, Tiziano è semplicemente il fratello o il figlio o il consuocero di Franco o di Gianfranco e si sono scannati per le solite gi(o)cate sui soldi ):

        non è che il suo intervento, signor Tiziano, è legato ad episodi in cui non le è stato possibile “ripensare Marx ” da bravo adepto della chiesa di La Grassa? Lei, signor Tiziano, è più adepto della chiesa di quale Marx? Quanti nomi ha? I nomi di Marx, dopo quelli di Dio, potrebbe essere il sequel del gi(o)co e del temp(i)o.

        1. Gentile Signora ro, mi scusi se non uso un dott.sa o altro titolo ma , a mio parere, il più bel complimento che si può fare ad una donna è chiamarla signora, sarò forse antiquato.
          Quando si incappa in queste diatribe su punti di vista che riguardano il privato/pubblico di un evento o persona che sia, se sia giusto rendere pubblico ciò che per alcuni deve restare privato o viceversa, l’unico modo per uscirne, in un paese normale, sarebbe quello di riferirsi al “minimo livello etico”, non soggettivo ma oggettivo, valido quindi per tutti. Almeno per me questo è un lavoro improbo e non lo affronterò, sono di poche parole nella vita, sono di poche righe sulla carta, se si imballa un concetto semplice con tante di quelle parole atte a renderlo artatamente complesso alla fine la delusione sara grande, ammesso che si trovi ancora quel semplice concetto tra le scartoffie dell’imballo.
          Il mio commento originale era rivolto all’autore perchè solo lui poteva chiarirmi se il racconto era riferito a persona fisica o meno, dopo la lettura dei commenti di altri.
          Io non mi occupo di poesia o di scrittura e mi è capitato per caso di imbattermi in quel racconto che , come ho detto rispondendo all’amministratore, mi ha provocato una risonanza negativa (il giudizio non è rivolto alla qualità dell’opera ma al significato che io gli ho attribuito). Forse ingenuamente ho ritenuto di dare un commento pubblco ad un lavoro pubblico, commento che non contiene accuse di codardia ma contiene una richiesta implicita di superare quel minimo livello etico di cui parlavo dicendo chiaramente “a tutti” si, si riferisce a qualcuno o mi sono ispirato a qualcuno, oppure l’opposto, libera creazione della mente.
          Sarebbe stato più corretto scrivere all’autore via mail per ottenere forse una risposta ? Io non credo perchè l’autore ha scelto di rendere pubblico il pezzo e per il fatto che forse altri lettori avrebbero voluto fare la stessa obiezione.
          Avere o non avere il coraggio di rispondere, come ho scritto, non implica codardia o meno ma l’opportunità o meno di rendere pubbliche certe risposte , in questo paese.

          Termino riferendomi alle sue ultime righe nelle quali tira in ballo i partiti , la chiesa e Marx. Le sue domande sono poste in termini di ipotesi cosicchè queste vanno verificate prima di emettere un giudizio sulla giustezza o meno del suo modello.

          Non appartengo ad alcun partito, non tifo per alcuno di essi e come potrei, si rende conto della situazione ?
          Non professo alcuna religione, forse credo in un dio ma non ci giurerei, non ho mai letto Marx ma non me ne vanto, non ho mai letto Mein Kampf, non avevo bisogno di farlo, ho visto gli atroci risultati, rifuggo da logge, sette,caste, cricche e quant’altro ghettizzi o escluda qualcuno, credo però nel rispetto delle regole etiche, cosa che non accade quasi mai oggigiorno e, mi creda, non basta rispettare il minimo per rispettarle.

  30. Gentile Tiziano,
    lei può commentare liberamente. Ritiro il predicozzo sul nickname. Come amministratore, avendo la possibilità di controllare la mail di chi commenta, proverò a scriverle. Lei mi risponderà e la mia spiacevole obiezione (in parte giustificata da passate e negative esperienze) non si ripeterà più. Un saluto

    1. Dott. Abate, grazie per la presa visione della mail e per la Sua risposta educata che apprezzo sinceramente. Ricambio i saluti.

  31. …ciao Ro, contenta di risentirti…il tuo racconto mi ricorda molto “La spia che venne dal freddo”…

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